Decalogo 5 - Dekalog, piec
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Regia: | Kieslowski Krzysztof |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia: Sławomir Idziak; montaggio: Ewa Smal ; musiche: Zbigniew Preisner; scenografia: Halina Dobrowolska ; costumi: Hanna Ćwikło e Małgorzata Obłoza; interpreti:
Mirosław Baka (Jacek Lazar), Krzysztof Globisz (l'avvocato Piotr Balicki), Jan Tesarz (il tassista), Zbigniew Zapasiewicz (il presidente del comissione avvocata), Barbara Dziekan (la cassiera), Artur Barciś (l'operaio stradale); produzione: Telewizja Polsha, Sender Freies Berlin; origine: Polonia, 1988; durata: 57'. |
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Trama: | "Non uccidere"
Jacek è un teppista, un vandalo, una persona priva di senso morale. Piotr, invece, giovane avvocato, è un uomo dai sani principi, che crede nella giustizia ma non nella pena capitale.Quando Jacek, senza alcun motivo apparente se non per la propria malvagità, uccide un taxista, e viene arrestato, tocca proprio a Piotr difenderlo in tribunale. Ma tutto è inutile e Jacek viene condannato alla pena di morte. Al momento dell'esecuzione Jacek tenta di ribellarsi all'impiccagione scalciando e cercando di fuggire, tutti gli sono addosso e verametne non sembra esserci alcuna differenza fra l'omicidio commesso da Jacek e quello commesso dallo Stato. |
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Critica (1): | Tra le molte cose sorprendenti di Dekalog c’è un paradosso. Nei dieci brevi film non c’è traccia di colpa individuale né di giudizio morale: ecco il paradosso. Krzysztof Kiealowski e Krzysztof Piesiewicz (coautore dei soggetto e della sceneggiatura) non usano delle norme etiche fondamentali ebraico-cristiane come di altrettanti affiati strumenti di condanna o di assoluzione. D’altra parte, neppure li riducono a un vademecum per una fredda e misera fenomenologia dei comportamenti. Di ognuno, invece, fanno un punto di vista sul mondo. Meglio: da “osservatori” quasi metafisici degli uomini, in ogni comandamento scoprono un nodo della quotidiana fatica di vivere. Qui sta la loro coraggiosa laicità: non nella contrapposizione alla fede (o alle fedi) che hanno il decalogo come centro morale, ma nell’apertura senza condizioni alla stupefacente complessità dell’esistere. Così, attorno a un comandamento-nodo, i loro personaggi mostrano spesso un’umana, troppo umana fragilità, ma talvolta anche un’umana, molto umana grandezza. Sempre, però, Kieslowski e Piesiewicz partecipano alla loro fatica, la soffrono essi stessi mentre la raccontano. Che sia questo il segreto della stupefacente fluidità narrativa di Dekalog, della sua inesauribile ricchezza di storie? Forse sì. Del resto, nulla occulta la splendida molteplicità della vita – infinito intrecciarsi di irripetibili microstorie – più dei pregiudizio, dei giudizio che viene prima della vita, laico o religioso che sia. In ognuno dei dieci piccoli film, invece, sceneggiatura e regia si lasciano guidare dalla mano leggera e innocente del caso, il più audace e fantasioso dei narratori.
Il caso, certo, ha portato il giovane Tomek di Decalogo, 6 a scrutare con un cannocchiale in casa della bella Magda, e a innamorarsene come solo accade quando il desiderio è totale e senza speranza. Di questa piccola, grande storia d’amore s’è vista da noi la versione più lunga(Non desiderare la donna d’altri ne era l’assurdo titolo italiano). Ora, contenuta in 58 minuti, appare persino più pura, più limpida.
Il caso, poi, domina la vicenda di Decalogo, 5, guidando le vite di Jacek e Piotr - assassino e vittima - fino a una squallida strada di campagna, dove urla la brutalità muta dell’omicidio. È, questo, uno dei capitoli più intensi di Dekalog, e uno dei più grandi momenti di cinema di questi anni. Per una volta, il comandamento-nodo – "Non uccidere" – è preso da Kieslowski e Piesiewicz nel suo significato letterale, materiale. È proprio la materialità dell’uccidere quel che raccontano, ponendola al centro del film e lasciandole la parola. Non giudicano l’assassino, né lo giustificano. Non commiserano la vittima. Come sempre, anzi più di sempre soffrono la fatica di vivere dei loro personaggi, senza identificarsi con loro: sono appunto due osservatori quasi metafisici, che non sanno e non vogliono sfuggire il dolore dei mondo. Sotto il cielo di Varsavia – basso e cupo, irreale fino a sembrare artificiale – Jacek uccide. Non ne ha alcuna ragione immediata: non odia Piotr, non lo teme, non desidera il suo denaro. Vuole solo uccidere. E lo fa, con ostinazione, con rabbiosa meticolosità. La cinepresa indugia a lungo - mai compiaciuta - su questa meticolosa ostinazione. È difficile uccidere un uomo. È faticoso vincere la sua biologica, carnale volontà di vita. L’assassino ne è stremato. E la stanchezza si mescola con una strana cattiveria dolorante, che soffre di se stessa e che però non può fermarsi. È invedibile questa materialità dell’uccidere. E tuttavia non è nulla, a confronto con la materialità della pena di morte, dell’assassinio giuridico. Il criminale è ancora umano. Lo è nella negatività della sua abiezione. Il boia invece è mostruoso: mostruosamente tecnico. Cura la simmetria della camera della morte, l’efficienza del capestro, le misure esatte del suo mestiere. Sistema sotto la forca una bacinella per raccogliere gli escrementi dell’uomo che sta per uccidere. Ha orrore per lo sporco, lo stato assassino. Vuole avere le mani pulite, almeno quelle. Kieslowski e Piesiewicz non tralasciano nulla di questo “accadere” ordinato e terribile: lo sgomento cieco del condannato, la violenza senza rabbia dei secondini che lo trascinano, la concitazione frenetica dei pochi secondi necessari per stringergli il nodo sul collo e farlo precipitare nel buio. Intollerabile. È intollerabile lo spettacolo della materialità dell’uccidere giuridico. Decine, centinaia possono essere le motivazioni politiche e ideologiche della pena di morte. Ancor più numerose possono essere le ragioni contrarie. Ma questa è davvero radicale, radicata nella carne: intollerabile!
Roberto Escobar, Il Sole 24 ore |
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