Grande guerra (La)
| | | | | | |
Regia: | Monicelli Mario |
|
Cast e credits: |
Soggetto: Furio Scarpelli, Age, Mario Monicelli, Luciano Vincenzoni, tratto da Due eroi di Luciano Vincenzoni (1955); sceneggiatura: Mario Monicelli, Age, Luciano Vincenzoni; fotografia: Giuseppe Rotunno; musiche: Nino Rota; montaggio: Adriana Novelli; scenografia: Mario Garbuglia; costumi: Danilo Donati; interpreti: Alberto Sordi (Oreste Jacovacci),Vittorio Gassman (Giovanni Busacca), Silvana Mangano (Costantina), Folco Lulli (Bordin), Bernard Blier (Capitano Castelli), Romolo Valli (Tenente Gallina), Livio Lorenzon (Sergente Battiferri), Nicola Arigliano (Giardino), Tiberio Murgia (Nicotra), Ferruccio Amendola (De Concini); produzione: Dino De Laurentiis Cinematografica (Roma) - Gray-Film (Parigi); distribuzione: Cineteca Nazionale; origine: Francia - Italia, 1959; durata: 135'. |
|
Trama: | Il piantone romano Oreste Jacovacci ha promesso al coscritto milanese Giovanni Busacca di farlo riformare dietro compenso; ma Giovanni è fatto abile e, ormai in divisa, cerca Oreste per dargli una lezione. Tuttavia quando si ritrovano, i due diventano amici e finiscono insieme a Tigliano, un piccolo paese nelle retrovie, dove attendono, di giorno in giorno, di essere mandati al fronte. Nel frattempo Giovanni, avendo incontrato Costantine, una ragazza di facili costumi, si concede qualche distrazione, ma alla fine si trova alleggerito del portafoglio. Giunge il giorno temuto: Giovanni ed Oreste sono mandati al fronte, dove fanno conoscenza di nuovi commilitoni: il tenente ex professore di ginnastica, il soldatino che spasima per Lyda Borelli, il cappellano Bonoglia. Viene il Natale, festeggiato alla meglio; passa l'inverno, si annuncia la primavera; riprendono più vivaci i combattimenti. Oreste e Giovanni, mentre sono di pattuglia, incontrano un soldato austriaco: potrebbero ucciderlo, ma non si sentono di farlo. Poi inizia la battaglia: morti e feriti, attacchi e contrattacchi. Oreste e Giovanni sono incaricati di portare un messaggio, ma mentre si dispongono al ritorno si trovano separati dal loro gruppo. Per ripararsi dal freddo indossano cappotti nemici: scoperti dagli austriaci, vengono considerati spie. Potrebbero salvarsi se consentissero a fornire informazioni sulla missione di cui erano incaricati. Dapprima i due esitano e sono quasi disposti a transigere con la coscienza; ma di fronte all'arroganza dell'ufficiale che li interroga, Giovanni rifiuta di parlare e viene fucilato. Oreste segue il suo esempio e subisce la stessa sorte. Il loro sacrificio non è inutile: i loro compagni sono all'attacco e la vittoria non è lontana. |
|
Critica (1): | (...) Il film si aggiudica il "Leone d'oro" a Venezia nel 1959 a pari merito con Il generale Della Rovere di Rossellini. C'è subito da dire che raramente un premio è stato suddiviso con così calcolata equità in relazione alle esigenze politico-culturali del momento.
Ambedue i film propongono il tema del riscatto, e pur ricorrendo a moduli espressivi opposti, convergono sulla comune intenzione di affrancare i rispettivi "eroi" dalla mediocrità e dall'abiezione.
Anche la diversa ambientazione storica è significativa rispetto alle esigenze di conciliazione, perchè i protagonisti non fanno altro che incarnare lo stesso personaggio e le stesse "vergogne". I due lavativi di Monicelli condividono con Bertoni-Della Rovere un opportunismo di antiche ascendenze, l'individualismo straccione, la vigliaccheria e, alla fine, il sacrificio. Quanto alle scelte spettacolari, è da osservare la sostanziale equivalenza dei ruoli divistici: la coppia Sordi-Gassman fonde in una perfetta integrazione due mature fisionomie di attori, il veterano De Sica, anche sotto la guida di Rossellini, propone con successo un ennesimo travestimento in omaggio al collaudato clichè di una carriera ormai trentennale. Tutto contribuisce ad un appiattimento di consensi sui due film. Da un lato si plaude alla "resurrezione" del sempiterno italiano medio, vittima e complice di tutte le peggiori avventure della storia nazionale (dal fascismo alla restaurazione post-bellica), dall'altro si apprezza la rinnovata presa spettacolare dei prodotti. C'è anche chi subisce l'abbaglio di un presunto "ritorno" rosselliniano ai temi epici del dopoguerra (dopo la parentesi "mistica" e "borghese di Europa 51 e Viaggio in Italia) e non si accorge della mediocrità di una operazione che denuncia appannamento e vistose tendenze moderate in un autore che, per tornare alla Resistenza, non sa fare di meglio che servirsi di un romanzo di Indro Montanelli. Ma i distinguo verranno dopo, per il momento ci si accontenta di quel poco che sembra incrinare il quadro di compatibilità ideologiche del clerico-centrismo, magari sopravvalutando anche il segno più esteriore.
Ci pare comunque che La grande guerra, nonostante le evidenti e numerose ambiguità, si faccia preferire nettamente (anche sul piano delle intenzioni "progressiste") al confratello "drammatico". Ciò si deve soprattutto a nostro avviso, al rilievo che assumono, al suo interno, i moduli comico-satirici e quindi la migliore tradizione della "commedia all'italiana", che riceve per l'occasione un eccezionale impulso dalla splendida vena dei due attori protagonisti. La commistione dei generi si rivela feconda, le novità abbondano.
Come abbiamo già rilevato, l'argomento "prima guerra mondiale" è un tasto delicato, un vero e proprio tabù nazionale alimentato dalle più svariate ipocrisie. Se ne accorgono gli spettatori e i gestori delle sale prese d'assalto da manipoli di fascisti che interrompono le proiezioni e provocano tafferugli, accogliendo gli inviti degli "intellettuali" reazionari che sui fogli clericali e di destra si indignano per il vilipendio della memoria dei caduti e la violazione dei patrii altari. Questo azzardo apre la strada ad un filone di successo. Intaccare il tabù della Grande Guerra contribuisce allo smantellamento di un altro e più recente tabù, quello legato al ventennio fascista, su cui la censura cinematografica degli anni '50 aveva steso una fitta coltre di omertà. Anche qui trionfa il tema del riscatto, la riflessione è sopraffatta da un'assai più consistente ansia di assoluzione dagli storici errori.
Storia di un riscatto è quella del tenente frastornato dall'8 settembre in Tutti a casa ed anche quella dell'ingenuo impiegato di Anni ruggenti, lo stesso Federale di Salce, non potendo riscattarsi coi propri mezzi, paga il debito della divisa e conclude una puerile illusione (quella di essere qualcuno in un regime imperituro) purificandosi con le botte di una squadra di antifascisti giustizieri. Ed un riscatto, stavolta da una militanza partigiana equivoca e dai ripetuti cedimenti del dopoguerra, è quello del Sordi di Una vita difficile.
Si tratta comunque di un mezzo azzardo, se è vero che l'aggressione alla retorica patriottarda sulla prima guerra mondiale si ferma all'irriverenza degli spezzoni grotteschi o si proietta in uno sfondo di generica tragedia, mentre il cuore del film vive su una serie di ambiguità, di slanci e recuperi che ne fanno un vero e proprio modello su cui tutta la commedia dei primi anni '60 prenderà le misure. Il modo in cui i due lavativi vengono recuperati è molto eloquente in proposito. La loro ignavia è negazione e rifiuto di una guerra assurda e sanguinosa, ma è vissuta in maniere difformi (seppure convergenti) da ciascuno. Da una parte c'è la vaga ideologia libertaria di Busacca-Gassman, un ladro lombardo che ostenta stupore (e faccia di bronzo) nel constatare che i commilitoni non conoscono Bakunin, dall'altra ci sono i sentimenti meno nobili di Jacovacci-Sordi, emblematico rappresentante di un centro-sud opportunista e ruffiano.
Di fronte alla possibilità di tradire per salvare la pelle il comportamento dei due è attendibile e conseguente: Busacca si inorgoglisce, dà del "facia de merda" all'ufficiale austriaco e si prepara a morire, Jacovacci invece confesserebbe, ma non conosce le informazioni e cade davanti al plotone di esecuzione supplicando e piangendo. Non si fa in tempo a soppesare il fatto e le sue contraddizioni che irrompe la controffensiva del Piave, e mentre il sergente Buttiferri (Livio Lorenzon) si chiede ansimante dove siano finiti i due lavativi in quel momento cruciale, i fanti sfrecciano sullo schermo passando accanto ai loro cadaveri.
Il recupero è pieno, il sacrificio ha reso giustizia anche alla persistente vigliaccheria di Jacovacci, resta una punta di amarezza destinata a fondersi emotivamente col sollievo per il dovere compiuto e la dignità riconquistata. Così si ammorbidisce la denuncia per il grande macello, che pure non era mancata nel corso del film, e nello stesso tempo viene, riassorbita la spiacevole codardia del personaggio di Sordi. È un'ambiguità che non si ferma alla delineazione dei personaggi, al rapporto di questi col contesto storico e, come abbiamo visto, al gioco delle parti che non casualmente classifica i due di fronte al supremo dovere sulla base genericissima (e denigratoria) della regionalità, ma che investe il ruolo stesso dei divi chiamati ad interpretarli. Testimoni e partecipi di una medietà su cui convergono (epidermicamente) i comportamenti degli strati medio-popolari, essi personificano il tramite ambiguo fra il grosso pubblico e i nuovi temi che vengono portati sullo schermo. Ogni penetrazione di motivi critici, sul passato e sul presente, subisce la pesante mediazione della maschera, il divo si fa immagine stessa della continuità, portatore di polemica e suo banalizzatore. La grande guerra è un prodotto esemplare del trapasso anche sotto questo particolare aspetto, perchè ha imposto canoni divistici costruiti su attori di grande mestiere e capaci di giocare su diversi piani di popolarità, di incarnare insieme "cattiveria del nuovo" ed equilibrio della continuità. Il che permette un altro significativo scarto rispetto al passato, nella legittimazione della "volgarità" e del turpiloquio come accessori comici o "realistici" della "commedia di costume" (e non solo di quella). Se negli anni cinquanta la "domanda sessuale" del pubblico si era dovuta accontentare di allusioni e sublimazioni, la soldataglia del film di Monicelli forza molte resistenze ed apre la strada alla "liberalizzazione": tutta l'Italia si darà di gomito nel ripetere il commento (divenuto poi celeberrimo, non meno degli elogi della propria virilità che raccoglie Gassman ne Il sorpasso) che i due lavativi si scambiano fra le trincee nel paragonare una nuvola ad una donna nuda "con la testa, le tette... e la barba".
II senso del cambiamento che si prepara nella società italiana si intende forse più nei comportamenti di massa che queste novità registrano, amplificano e in certa misura inducono, che non nella commozione per l'eroica morte di De Sica-Bertone nel livido finale de Il generale Della Rovere. Il filone neoresistenziale, che sembra rinverdire in questi anni l'epopea postbellica del cinema nazionale, deve comunque a Bertone e al sacrificio dei due lavativi assai più della semplice funzione di battistrada: è tutto uno schema di lettura che viene adottato e determina modi differenziati di analizzare la società italiana a seconda che nei film siano affrontati suoi aspetti passati o contemporanei. In altre parole, il riscatto di cui parlavamo all'inizio si estende a tentativo e volontà di recupero della più "sana" (anche se nascosta) componente della coscienza di massa ad un "senso comune" esplicitamente antifascista, ma, non molto diversamente da come era avvenuto col neorealismo (e coll'aggravante di un intero decennio di restaurazione in mezzo), questo si verifica entro i limiti di una visuale populista che appiattisce la critica, forza tiepide identificazioni e blande professioni di fede, risultando, in ultima analisi, assolutoria ed ottimistica. Un ottimismo di cui pare aver bisogno quella sorta di "nuovo corso" che si profila, per presentarsi col credito dell'indulgenza ed essere accettato come apportatore di cambiamenti non troppo bruschi. In sintesi, si tratta di rileggere il passato recuperando ogni potenzialità democratica e antifascista nei protagonisti (scelti di preferenza fra i ceti medio-popolari) e quindi di far leva sui "buoni sentimenti" della gente per prepararla ad una svolta capace finalmente di dare risposte politiche e morali adeguate alle sue più sane aspirazioni. Dopo di che, si ritiene possibile e legittimo disporsi con rinnovato slancio critico verso la contemporaneità. Questa divisione dei compiti che attribuisce alla rilettura del passato una dimensione di recupero (ottimistica) e all'analisi del presente un atteggiamento più problematico (spesso ai limiti del pessimismo più cupo) si traduce in modo netto nella commedia. È una delle contraddizioni che, incrinandone la compattezza "di genere", più la distingue dalle ascendenze pre e postbelliche e ne qualifica il rapporto ("dialettico", in un certo senso) coi grossi problemi che la società presenta. Il riscatto, l'assoluzione bonaria o appassionata che caratterizza quasi tutti i film che la collegano al filone neoresistenziale e antifascista e di cui, come abbiamo cercato di spiegare. La grande guerra è il principale modello, trova un riscontro di causticità e talvolta di lacerazione in quelli che si affidano alla cronaca e alla "fenomenologia del quotidiano".
Tullio Masoni e Paolo Vecchi, Cineforum n. 181, 1-2/1979 |
|
Critica (2): | |
|
Critica (3): | |
|
Critica (4): | |
| |
| |
|