Neruda
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Regia: | Larraín Pablo |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Guillermo Calderón; fotografia: Sergio Armstrong; musiche: Juan Federico Jusid; montaggio: Hervé Schneid; scenografia: Estefanía Larraín; costumi: Muriel Parra; interpreti: Luis Gnecco (Pablo Neruda), Gael García Bernal (Oscar Peluchonneau), Mercedes Morán (Delia del Carril), Diego Muñoz (Martínez), Pablo Derqui (Víctor Pey), Michael Silva (Álvaro Jara), Jaime Vadell (Arturo Alessandri), Alfredo Castro (Gabriel González Videla), Marcelo Alonso (Pedro Domínguez), Francisco Reyes (Bianchi), Alejandro Goic (Jorge Bellet), Emilio Gutiérrez Caba (Pablo Picasso); produzione: Fabula-Az Films-Funny Balloons-Setembro Cine, in co-produione con Telefé-Reborn Production; distribuzione: Good Films; origine: Cile-Argentina-Francia-Spagna, 2016; durata: 107'. |
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Trama: | È il 1948 e la Guerra Fredda è arrivata anche in Cile. Al congresso, il Senatore Pablo Neruda accusa il governo di tradire il Partito Comunista e rapidamente viene messo sotto accusa dal Presidente Gonzalez Videla. Il Prefetto della Polizia, Oscar Peluchonneau, viene incaricato di arrestare il poeta. Neruda tenta di scappare dal paese assieme alla moglie, la pittrice Delia del Carril, e i due sono costretti a nascondersi. Traendo ispirazione dai drammatici eventi della sua vita di fuggitivo, Neruda scrive la sua epica raccolta di poesie, "Canto General". Nel frattempo, in Europa, cresce la leggenda del poeta inseguito dal poliziotto, e alcuni artisti capitanati da Pablo Picasso iniziano a invocare la libertà per Neruda. Ciononostante, Neruda vede questa battaglia contro la sua nemesi Peluchonneau come un'opportunità per reinventare se stesso. Gioca con l'ispettore, lasciandogli indizi architettati per rendere più pericoloso e intimo il loro gioco tra 'gatto e topo'. In questa vicenda del poeta perseguitato e del suo avversario implacabile, Neruda intravede per se stesso dei risvolti eroici: la possibilità, cioè, di diventare un simbolo di libertà, oltre che una leggenda della letteratura. |
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Critica (1): | “Ho girato un film che si chiama Neruda e ancora non so spiegare chi sia davvero quest’uomo. Pablo Neruda è un personaggio affascinante. È sfuggente, inafferrabile e non lo si può fermare o definire. Nel 1947, il mondo era completamente diverso. Allende si era candidato come presidente per tre volte e, alla quarta, Neruda doveva prendere il suo posto. Ma si è fatto da parte. Quindi mi chiedo come sarebbe stato il Cile con quest’uomo al governo”. Così Pablo Larraín presenta Neruda a Roma, confermando che il film rappresenterà il Cile alla prossima cerimonia degli Oscar. (...)
“Quando si gira un film storico, bisogna considerare cosa è successo dopo i fatti che si narrano. Questa è un’opera sulla devastazione dell’anima di un popolo. Il Cile sognava un mondo che non si è mai concretizzato. Quando Neruda ha vinto il Nobel, ha dichiarato di non sapere se quei due anni di fuga li avesse sognati, scritti o vissuti. E questa è la chiave. Il film non è incentrato sulla figura di Neruda, ma sul cosmo nerudiano, sul suo universo. È un personaggio troppo vasto per essere rinchiuso in poco più di cento minuti.”
Larraín ha lavorato sul progetto per cinque anni e non si risparmia nel parlare del suo personaggio: “Ho letto diverse biografie su di lui. Alla fine ne abbiamo scelte tre su cui lavorare e abbiamo intervistato molte persone che l’hanno conosciuto. Neruda era un grande amante della cucina, del vino e delle donne, e ha girato il mondo come diplomatico e poeta. Tutto questo mi terrorizzava. All’inizio avevo una paura enorme nel doverlo affrontare in tutte le sue sfaccettature. In Cile, Neruda è ovunque: nell’acqua, nella terra e nelle piante. Ha fatto la mappa del suo Paese e io lo porto dentro di me, nel sudore e nel sangue. Questo film è un canto all’uomo, un poema che un giorno avrebbe potuto leggere”.
Neruda si concentra sui due anni di fuga del grande poeta. Nel 1948, il Senatore Pablo Neruda accusa il governo di tradire il Partito Comunista. Il Presidente Videla ordina il suo arresto e il beniamino del popolo scappa. Comincia una latitanza che si concluderà al confine con l’Argentina. A braccarlo, c’è il Prefetto della Polizia Oscar Peluchonneau. “Questo film è un road movie che va contro le regole del biopic. Abbraccia i noir degli anni Cinquanta e cerca di avere un tono ironico, ma è anche un’opera sulla comunicazione. Ho voluto mostrare come il personaggio è cambiato nel tempo. Non è molto importante la destinazione, ma il viaggio che il protagonista compie. La figura del poliziotto fornisce un senso alla latitanza di Neruda. Hanno bisogno l’uno dell’altro. È una storia d’amore pura, tutto il resto è una scusa per raccontarla.”
Alla fine il regista rivela qualche aneddoto sulla genesi del film. “Mio fratello, che è il produttore, un giorno mi chiede di togliere venti pagine dalla sceneggiatura. Non c’erano abbastanza soldi. Così, io e lo sceneggiatore Guillermo Calderón ci chiudiamo nel mio appartamento per una settimana a lavorare. Ma invece di tagliare, aggiungiamo venti pagine. Abbiamo filmato tutto molto più velocemente, per non sforare nei costi. Durante la fase di sceneggiatura e montaggio, cerco di essere lineare, ma il cinema è qualcosa di viscerale. Il regista non deve suggerire tutte le risposte. Un film è qualcosa di aperto, che lo spettatore può interpretare secondo la propria storia”. Questo è il cinema di Pablo Larraín.
Gian Luca Pisacane, cinematografo.it
Che Neruda non voglia essere un’agiografia, lo si capisce fin dalla prima scena. Il poeta, ospite a una qualche serata di gala, entra in bagno e – mentre piscia – discute con alcuni politici che gli danno del traditore. Li manda a quel paese e con grande serenità esce dalla toilette. È l’inizio della fine.
Pablo Neruda alla fine degli anni Quaranta è senatore della Repubblica cilena sotto il governo di Gabriel González Videla (qui interpretato da Alfredo Castro) di cui è fervente sostenitore. La repentina svolta autoritaria della politica del Presidente porta però il poeta – esponente di spicco del partito comunista – a diventare uno dei più accaniti oppositori del governo finendo per convincere Videla a ordinarne l’arresto.
Larraín parte da qui per mostrare la fine dell’utopia politica di Neruda, poeta civile, intellettuale, politico appassionato ma soprattutto comunista viscerale, avversario scomodo della destra cilena: prima latitante e poi esiliato. Parte da qui perché il film, che è tutt’altro che un biopic, non racconta la vita, non la poesia e nemmeno l’ideale politico di Neruda. Ma, ancora una volta, usa il personaggio principale come un mezzo. Un mezzo per parlare della Storia cilena e del suo rapporto incestuoso con il potere, con il dispotismo e la dittatura. Con la differenza che qui, attraverso la figura di Neruda, il regista individua l’arte come materia per approcciarsi al racconto, riuscendo a costruire un film dove la finzione e la realtà si mischiano a tal punto da non consentire alcun punto di riferimento allo spettatore.
Nella seconda parte, quando il poeta inizia la sua fuga e il film diventa (probabilmente) quello che Larraín davvero vuole che sia, l’astrazione si compie in maniera totale. Neruda e Peluchonneau, il poliziotto che gli dà la caccia (un Gael García Bernal strepitoso), si rincorrono per tutto il Cile dialogando a distanza e costruendo un rapporto che va non soltanto oltre l’impianto biografico e oltre il realismo, ma anche oltre qualsiasi possibilità di raccontare la Storia secondo fatti ordinati o come processo uniforme.
Nel rapporto fra questi due uomini intravediamo la storia del Cile, ma anche la storia di ogni paese che cerca la strada della democrazia passando attraverso la dittatura. Se il sogno politico di Neruda è poco più di un’illusione – «se i contadini entrassero nei palazzi del potere come vuoi tu, ci toccherebbe varare leggi piene di errori ortografici», gli dice un politico conservatore – allora vale la pena che a essere fatto di illusioni sia anche il racconto. L’arte tenta di dare forma alla vita. Peluchonneau (voce narrante del film), che credeva di esistere per annientare Neruda, capisce di essere un personaggio secondario e di esistere solo perché esiste Neruda stesso. Ma questo non gli basta e alla fine – quando Larraín tramuta il film in un western, con i personaggi che si inseguono a cavallo fra le valli andine coperte di neve – chiede idealmente al poeta di riconoscergli un’identità, di dire il suo nome, di rendere la sua esistenza degna di memoria.
Ed è questa la chiave del film. Pur avendo al centro un poeta, Neruda non è un film che cerca la poesia (intesa come modalità di racconto, di stile di messa in scena), perché come Larraín sa molto bene il cinema è molto di più un’arte della prosa che della poesia. E allora il regista preferisce farci capire come ogni tentativo di costruire un’opera d’arte (che sia una poesia, un racconto, un film) passi attraverso una narrazione. Quando nel finale Neruda, in salvo a Parigi, nomina Peluchonneau per la prima volta, lo sta realmente portando in vita.
Il gesto mitopoietico dell’edificazione di una memoria attraverso il racconto (la pronuncia del nome) testimonia come ogni fatto storico sia sempre soggetto a mistificazione, di come la sua diffusione passi attraverso il filtro di una narrazione. Ma anche di come sia la parola (la poesia) a dare un nome alle cose e a tramandarle. E che – come suggerisce lo splendido finale del film – può recitare insieme un canto libertà e i “versi più tristi” del mondo.
Lorenzo Rossi, cineforum.it, 15/5/2016 |
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Critica (2): | E se il cinema di Larraín, prima ancora che una straordinaria riflessione sull'economia del potere nella Storia, fosse un'analisi sulla forza coercitiva e violenta dell'immagine? L'immagine intesa sia come supporto audiovisivo sia come porzione di spazio che isola, sublima e uccide la realtà? Il piano fisso conclusivo di Post mortem, in fondo, soffocava il corpo dello stato e ne nascondeva la morte all'interno della stessa inquadratura, mentre in No, i giorni dell'arcobaleno era attraverso il linguaggio obliquo e ambiguo della pubblicità chi la Storia veniva superata per approdare nel regni dell'immaginario. Ora, con Neruda, il discorso si è fatto se possibile ancora più complesso.
Il poeta cileno, icona di un popolo e della letteratura mondiale, simbolo universale di intellettuale militante ed esule politico, è raccontato per ciò chi era già in vita, un simbolo, una figura storica, e non come corpo sacro, immobile e sviscerato, come succedeva inevitabilmente ad Allende. Larraín Io rinchiude dentro le immagini, lo traveste, lo trucca lo camuffa, lo nasconde e lo confonde con il décor o con le altre figure in scena. Il poeta, la star, il senatore, il comunista, il fuggitivo (dopo il mandato d'arresto del presidente Videla nel 1948) passa inosservato sotto parrucche e baffi finti, dentro cornici e specchi, dietro altre personalità e altri documenti. Sconfitto dalla Storia, cacciato dalla sua terra, Neruda si rifugia inevitabilmente in un mondo immaginario, dove lui è la preda e al tempo stesso il cacciatore, il creatore e il distruttore.
Larraín certifica un fallimento storico, che non riguarda solamente Pablo Neruda ma, finalmente, l'intero popolo cileno, e dunque se stesso, come cittadino, artista, regista, creatore. Mai come in questo film, infatti, concepisce la storia come un inevitabile dialogo a due fra l'individuo e la figura, l'io e l'icona. Lo spazio chiuso dell'immagine diventa lo spazio chiuso del racconto, dove la cronaca non trova scampo rispetto alla dittatura dell'immaginazione e ogni personaggio è vittima di una narrazione da cui è impossibile liberarsi. Neruda è l'icona di se stesso, così come il poliziotto che gli dà la caccia, il commissario Peluchonneau, è una creatura del poeta, la sua nemesi, il suo volto specchiato.
Oltre ogni immaginabile approdo del cinema di Larraín, Neruda è così un film alla Michael Mann, una sfida fra mito e normalità, narrazione e documento, e al tempo stesso, sul piano letterario, un lavoro degno di Operazione Shylock di Philip Roth o Fantasmi di Paul Auster e della loro riflessione sul doppio e su tutto ciò che si può nascondere dentro la realtà e che può vivere dentro le pieghe di un racconto. Soprattutto, proseguendo lungo la linea tracciata da Tony Manero e Post mortem, porta alle estreme conseguenze il tema della responsabilità individuale nei confronti della Storia, mettendo ogni singolo cittadino, non solo cileno, di fronte alla prospettiva di essere egli stesso una figura storica imprigionata dalla narrazione di sé.
Roberto Manassero, Cineforum n. 555, giugno 2016 |
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Critica (3): | E se il cinema di Larraín, prima ancora che una straordinaria riflessione sull'economia del potere nella Storia, fosse un'analisi sulla forza coercitiva e violenta dell'immagine? L'immagine intesa sia come supporto audiovisivo sia come porzione di spazio che isola, sublima e uccide la realtà? Il piano fisso conclusivo di Post mortem, in fondo, soffocava il corpo dello stato e ne nascondeva la morte all'interno della stessa inquadratura, mentre in No, i giorni dell'arcobaleno era attraverso il linguaggio obliquo e ambiguo della pubblicità chi la Storia veniva superata per approdare nel regni dell'immaginario. Ora, con Neruda, il discorso si è fatto se possibile ancora più complesso.
Il poeta cileno, icona di un popolo e della letteratura mondiale, simbolo universale di intellettuale militante ed esule politico, è raccontato per ciò chi era già in vita, un simbolo, una figura storica, e non come corpo sacro, immobile e sviscerato, come succedeva inevitabilmente ad Allende. Larraín Io rinchiude dentro le immagini, lo traveste, lo trucca lo camuffa, lo nasconde e lo confonde con il décor o con le altre figure in scena. Il poeta, la star, il senatore, il comunista, il fuggitivo (dopo il mandato d'arresto del presidente Videla nel 1948) passa inosservato sotto parrucche e baffi finti, dentro cornici e specchi, dietro altre personalità e altri documenti. Sconfitto dalla Storia, cacciato dalla sua terra, Neruda si rifugia inevitabilmente in un mondo immaginario, dove lui è la preda e al tempo stesso il cacciatore, il creatore e il distruttore.
Larraín certifica un fallimento storico, che non riguarda solamente Pablo Neruda ma, finalmente, l'intero popolo cileno, e dunque se stesso, come cittadino, artista, regista, creatore. Mai come in questo film, infatti, concepisce la storia come un inevitabile dialogo a due fra l'individuo e la figura, l'io e l'icona. Lo spazio chiuso dell'immagine diventa lo spazio chiuso del racconto, dove la cronaca non trova scampo rispetto alla dittatura dell'immaginazione e ogni personaggio è vittima di una narrazione da cui è impossibile liberarsi. Neruda è l'icona di se stesso, così come il poliziotto che gli dà la caccia, il commissario Peluchonneau, è una creatura del poeta, la sua nemesi, il suo volto specchiato.
Oltre ogni immaginabile approdo del cinema di Larraín, Neruda è così un film alla Michael Mann, una sfida fra mito e normalità, narrazione e documento, e al tempo stesso, sul piano letterario, un lavoro degno di Operazione Shylock di Philip Roth o Fantasmi di Paul Auster e della loro riflessione sul doppio e su tutto ciò che si può nascondere dentro la realtà e che può vivere dentro le pieghe di un racconto. Soprattutto, proseguendo lungo la linea tracciata da Tony Manero e Post mortem, porta alle estreme conseguenze il tema della responsabilità individuale nei confronti della Storia, mettendo ogni singolo cittadino, non solo cileno, di fronte alla prospettiva di essere egli stesso una figura storica imprigionata dalla narrazione di sé.
Roberto Manassero, Cineforum n. 555, giugno 2016 |
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