Figli della violenza (i) - Olivados (Los)
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Regia: | Buñuel Luis |
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Cast e credits: |
Soggetto: Luis Alcoriza, Luis Buñuel; sceneggiatura: José B. Charles; fotografia: Gabriel Figueroa; musiche: Rodolfo Halfter; interpreti: Alfonso Mejia (Pedro), Roberto Cobo (El Jaibo ), Javier Amezcua (Julián), Miguel Inclan (Don Carmelo, il cieco), Estela Inda (madre di Pedro), Efrain Arauz (Cacarizo), Alma Delia Fuentes (Meche), Francisco Jambrina (direttore del riformatorio), Jorge Pérez (Pelon), Mario Ramirez (Ojitos), Hector Lopez Portillo (il giudice), Jesus Garcia Navarro (bambino); produzione: Ultramar Oscar Dancigers; distribuzione: Cineteca Griffith; origine: Messico, 1950; durata: 88'. |
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Trama: | In una zona periferica di Città del Messico, Jaibo, appena fuggito dal riformatorio, e i ragazzi della sua banda, che vivono tutti una situazione di assoluta miseria e disgregazione familiare, aggrediscono un suonatore ambulante cieco. Rintracciato Julián, che crede responsabile del suo arresto, Jaibo lo uccide a bastonate, sotto gli occhi dell'amico Pedro che gli promette complicità e silenzio. Qualche giorno più tardi il cadavere di Julián è ritrovato e Pedro ne è, nei suoi sogni, ossessionato. Jaibo si nasconde ma, andato a far visita a Pedro dall'arrotino presso cui questi lavora, ruba un coltello con il manico d'argento. Del furto è accusato lo stesso Pedro, costretto così a rifugiarsi in un'altra zona della città, dove trova un nuovo lavoro. Jaibo, che già aveva cercato di prendere la giovane Meche, va a trovare la madre dell'amico e questa lo fa restare chiudendo la porta di casa. Catturato dalla polizia, Pedro è portato in riformatorio dove si comporta in modo antisociale. Il direttore, tuttavia, ha fiducia in lui, gli affida cinquanta pesos e una commissione fuori dalla prigione. Di nuovo in strada, Pedro incontra Jaibo, che tenta di rubargli il denaro. Nella colluttazione che ne segue Pedro uccide Jaibo e viene a sua volta colpito a morte dalla polizia. |
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Critica (1): | Dal 1933 (presentazione di Las Hurdes) al '46, Luis Buñuel si era adattato a lavorare di ripiego. Nato, come regista, ai margini della produzione industriale, aveva pagato la sua indipendenza con l'inazione. Emigrato in Messico, dopo aver trascorso la guerra negli Stati Uniti lavorando presso il Museum of Modern Art, trovò il modo di accostarsi all'industria che aveva sempre aborrito. E lo fece attraverso la porta grande (e dagli intellettuali disprezzata) del film di consumo popolare, dapprima con Gran Casino (1946) e poi, dopo un altro triennio di vani tentativi, con El gran calavera (1949). Los olvidados è immediatamente successivo. Esibito al festival di Cannes del 1951, provocò sorpresa (per la inopinata riapparizione di un regista di cui s'erano perdute le tracce). Buñuel era ancora lui - la stessa carica di "sovversione" anarchico-surrealista - e si mostrava al tempo stesso diverso, almeno in apparenza. Destinato a suscitare polemiche, ne subì molte anche a Cannes: fu allora che si aprì quel dibattito che soltanto negli ultimi anni si è acquetato per lasciare spazio ai bilanci della storiografia. Los olvidados (i dimenticati) sono i ragazzi sbandati che vegetano ai margini della capitale, fratelli dei besprizornje di Putjovka v zizn (Il cammino verso la vita, 1931) del sovietico Nikolaj Ekk e degli sciuscià del film omonimo (1946) di Vittorio De Sica. Piccoli delinquenti e vittime, secondo la concezione umanistica della cultura degli Anni Trenta e Quaranta. Anche per Buñuel, come per i registi che l'hanno preceduto (e altri ve n'erano, oltre i citati), l'approccio alla materia è di tipo sociologico. Il soggetto nasce da una inchiesta e dalla consultazione degli archivi di un riformatorio. "La storia" egli dichiarò "sì basa interamente sui fatti reali." Ma la sociologia non esaurisce il tema. Il resoconto della vita vissuta può giungere all'espressione attraverso il filtro - è un'altra dichiarazione del regista - di quell'"amore per l'istintivo e l'irrazionale" che aveva improntato di sé la precedente attività surrealista. È una storia corale, di adolescenti e di adulti, dalla quale si staccano le vicende parallele di Pedro e di Jaibo. Quest'ultimo è il capo di una banda di teppisti che semina il terrore in periferia. Un giorno la banda aggredisce un sordido individuo - un mendicante cieco - per derubarlo. Lo colpiscono selvaggiamente, a sassate. Se ne faranno un nemico irriducibile. Pedro partecipa alle spedizioni quasi senza volerlo, trascinato dagli altri. E ciò sino a quando non gli accade di assistere all'uccisione di Julián, un ragazzo della banda, che Jaibo compie con selvaggia ferocia. Da quel momento, i due diventano inseparabili, uniti dal delitto. Pedro è ormai il succube del compagno, che finisce anche per sedurgli la madre (vedova, piacente ancora e assetata di amore) nella misera casa dove abitano. Intorno ai due ruota uno squallido mondo di criminali in erba, di giovani non più recuperabili, come la piccola Macha, troppo presto costretta a misurarsi con le insidie della vita. Pedro trova lavoro in un negozio. Sembra avviato a un destino differente, ma Jaibo lo perseguita. Per il furto di un coltello, il ragazzo è arrestato e inviato al riformatorio. La speranza del giudice è che si ravveda, ma Pedro non ne è piú in grado. Rifiuta la disciplina, respinge il lavoro, si comporta con gratuita crudeltà verso gli animali. Il direttore gli dà fiducia, nonostante tutto. Gli concede un permesso per tornare in famiglia (da quella madre che aveva accolto nel suo letto Jaibo e che non aveva mai cibo sufficiente da dargli; quella madre che una notte, in sogno, si alzò dal letto e gli si presentò - minacciosa e invitante insieme - con un grande pezzo di carne sanguinante in mano). Di nuovo, Pedro ha la possibilità di riscattarsi. Ma Jaibo, che lo incontra per strada, gli sottrae il denaro che ha con sé e, in un accesso improvviso di follia, lo ammazza. Il mendicante cieco, che ha sentito e compreso tutto, avverte la polizia. Jaibo, circondato, resiste furiosamente. I poliziotti fanno fuoco. Il ragazzo cade, colpito a morte. Si ode la sua stessa voce esprimere il terrore del "grande buco nero" che lo sta attirando a sé, mentre in sovraimpressione appare un cane randagio ("Il cane rognoso" continua la voce. "Sono solo. Solo." "Come sempre, piccino mio" interviene la voce della madre, di cui egli aveva perduto persino la memoria. "Come sempre. Dormi. Dormi..."). Un "fermo" di fotogramma immobilizza il volto di Jaibo, gli occhi aperti al cielo: una trovata altrettanto impressionante quanto quella di Dziga Vertov per il funerale in Tri pensi o Lenine o quella di Solanas e Getino, che avrebbero chiuso La hora de los hornos (1968) con la lunghissima inquadratura della foto del Che Guevara morto. Per evitare di essere coinvolto nelle indagini, il nonno di Jaibo, intanto, mette in un sacco il corpo di Pedro e lo va gettare in uno scarico dell'immondizia.
"L'amore per l'istintivo e per l'irrazionale" non solo conferma la fedeltà del regista alle sue origini surrealiste, ma chiarisce anche la ragione di questo impasto di attenta sociologia e di crudeltà qualche volta intollerabile. Una crudeltà che "osa" come osservò André Bazin in un saggio su "Eprit" "liberare e rivelare la realtà con oscenità chirurgica". Lo stesso Bazin, del resto, indicò quali fossero le fonti piú sicure di Los olvidados, una esterna e generale (vale per tutta l'ispirazione cinematografica dell'autore) e una interna. La prima risiede nel "senso tragico dell'umano" presente nella tradizione figurativa spagnola e in particolare in Goya. La seconda risale all'esperienza documentaria di Las Hurdes, a quello sguardo fermo che il regista posò sulle miserie ataviche dei montanari d'una regione tagliata fuori dalla vita civile.
Per Buñuel la crudeltà non è sadismo. Non si può essere testimoni e cronisti della realtà se non si accetta di dire tutto, senza timore e senza commozione. Qui sta la differenza che separa lo spagnolo dal sovietico Ekk o dall'italiano De Sica. Buñuel non ha le inclinazioni del primo per il pathos e la pedagogia, e respinge il pur misurato (in Sciuscià) sentimentalismo del secondo. Non concede nulla né all'ottimismo programmatico né alle consolazioni di una possibile (o auspicata) solidarietà fra gli umili. Nessun omaggio a Rousseau, né nei caratteri dei personaggi né nelle immagini, gli uni e le altre predisposti per scoprire la verità di superficie (la degradazione provocata dalla miseria) e ad aprire qualche spiraglio sulle zone oscure (la sessualità, il sadismo, le rimozioni) della coscienza. Goya, sul fondo, offre l'avallo della cultura da cui Buñuel proviene. L'orrore dentro la vita quotidiana, che il regista riproduce, contrariamente al suo modello, con perfetta indifferenza. Non si preoccupa neppure delle forzature inevitabili del melodramma popolare: fanno parte anch'esse del quadro di questa surrealistica "obiettività".
Fernaldo Di Giammatteo, 100 film da salvare, Mondadori, 1978 |
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Critica (2): | «Oscar Dancigers voleva fare un film sui bambini poveri e semiabbandonati, che vivevano di espedienti (quanto a me, mi era piaciuto molto Sciuscià di Vittorio De Sica).
Per quattro o cinque mesi, insieme al mio scenografo, il canadese Fitzgerald, o insieme a Luis Alcoriza, ma più spesso da solo, ho girato nelle "città perdute", nelle periferie improvvisate, cioè poverissime, che circondano Città del Messico. Un po' mascherato, con gli abiti più vecchi, guardavo, ascoltavo, facevo domande, amicizie. Alcune cose che ho visto, le ho trasferite di peso nel film. Fra i vari insulti piovutimi addosso all'uscita del film, Ignacio Palacio scrisse per esempio che era inconcepibile piazzare tre letti di bronzo in una baracca di assi. Ma era la verità. Quei letti di bronzo, li avevo visti sul serio, in una baracca di assi. Certe coppie si privavano di tutto per acquistarli, dopo le nozze. Avrei voluto inserire nella sceneggiatura qualche immagine inspiegabile e rapidissima, che avrebbe fatto dire agli spettatori: "Ma ho visto bene?". Quando i ragazzi inseguono il cieco nel terreno incolto, per esempio, passano davanti a un edificio in costruzione dove volevo sistemare un'orchestra di cento musicisti che suonano sulle impalcature una musica che non si sente, Oscar Dancigers, che aveva paura di un fiasco, me lo impedì.
Mi impedì anche di far vedere un cappello a cilindro quando la madre di Pedro - il protagonista - butta fuori di casa il figlio che torna. Dicendo che nessuna madre messicana si sarebbe mai comportata così. Pochi giorni prima, avevo letto in un giornale che una madre messicana aveva buttato un figlioletto dallo sportello di un treno. Del resto, tutta la troupe, pur lavorando con grande impegno, manifestava la sua ostilità nei confronti del film. Un tecnico per esempio mi domando: "Ma perché non fa un vero film messicano invece di una roba del genere?". Pedro de Urdemalas, uno scrittore che mi aveva aiutato a inserire nel dialogo delle espressioni messicane, rifiutò di mettere il nome nei titoli di testa.
Il film fu girato in ventun giorni. Puntualmente, come tutti gli altri. Credo di non aver mai superato neanche di un'ora i tempi previsti. Aggiungo che non mi ci sono mai voluti più di tre o quattro giorni per il montaggio di un film, grazie al mio metodo di lavoro, e che non ho mai adoperato più di ventimila metri di pellicola: il che, devo dire, è molto poco.
Per la sceneggiatura e la regia di I figli della violenza ho preso duemila dollari in tutto. E non ho un'ombra di percentuale. Uscito in malo modo a Città del Messico, il film rimase in cartellone per quattro giorni, suscitando reazioni immediate e violente.»
Luis Buñuel, Dei miei sospiri estremi, Milano, Rizzoli |
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Critica (3): | «Durante i tre anni che rimasi senza lavorare (1947/1949) potei percorrere da un estremo all'altro Città del Messico, e la miseria di molti suoi abitanti mi impressionò. Decisi di impostare Los olvidados sulla vita dei bambini abbandonati; per documentarmi ho consultato pazientemente gli archivi di un riformatorio. La storia si basò su fatti reali. Decisi di denunciare la triste condizione dei poveri senza abbellirla, perché odio raddolcire il carattere dei poveri.»
«Per me? Los olvidados, è effettivamente, un film di lotta sociale. Perché credo semplicemente di essere onesto con me stesso, io dovevo realizzare un'opera a carattere sociale. So di andare in questa direzione. A parte ciò, non ho voluto fare in nessun modo un film a tesi. Ho osservato cose che mi hanno lasciato attonito e ho voluto trasferirle sullo schermo, però sempre con quell'amore che ho per l'istintivo e l'irrazionale che possono apparire ovunque. Mi sono sempre sentito attratto dagli aspetti sconosciuti e strani che mi affascinano senza sapere perché.»
citati in Aranda, pagg. 209-210 |
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Critica (4): | «(...) Sadoul mi amava più di ogni altro, ma non capì mai i miei film. Quando vide I figli della violenza, mi spedì un telegramma-lampo dandomi un appuntamento nel bar dei Campi Elisi. Era distrutto, piangeva: "Ma non è possibile che tu abbia fatto questo!". "Ma perché no?". "Un poliziotto che protegge un bambino! E quei discorsi...". "Senti, non nego che ho dovuto fare qualche concessione al Governo messicano, ma se un rapinatore ti assale, se uno ti buca la pancia con un coltello e arriva la polizia e lo prende a manganellate, è giusto. Ma non per questo, non certo per affondare il coltello nella ferita, sto lì a difendere il capitalismo ...". Non si lasciava convincere, gli sembrava brutto, e non soltanto a lui, furono tutti contrari. Finché a Mosca, credo sulla "Pravda", Pudovkin pubblicò un articolo molto elogiativo, parlando della tenerezza de I figli della violenza, e portando il film al settimo cielo. Allora cambiarono tutti, compreso Aragon che aveva dichiarato le sue riserve, e da allora I figli della violenza diventò uno dei miei grandi film. Sadoul non capì mai nulla, pero mi voleva un bene dell'anima, ed io a lui.»
Tratto da Max Aub, pag. 150 |
| Luis Buñuel |
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