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Pugni in tasca (I)


Regia:Bellocchio Marco

Cast e credits:
Soggetto, sceneggiatura
: Marco Bellocchio; aiuto regia: Vittorio De Sisti; fotografia: Alberto Marrama; operatore: Giuseppe Lanci; costumi: Gisella Longo; scenografia: Rosa Sala; musica: Ennio Morricone; montaggio: Aurelio Mangiatotti - (Silvano Agosti); organizzazione: Enzo Doria; direttore di produzione: Ugo Novello; interpreti: Lou Castel (Ale), Paola Pitagora (Giulia), Marino Masé (Augusto), Liliana Gerace (madre), Pierluigi Troglio (Leone), Mauro Martini (Il bambino), Jeannie Mac Neil (Lucia), Gianni Schicchi (Tonino), Alfredo Filippazzi, Stefania Troglio, Gianfranco Cella, Celestina Bellocchio, Irene, Agnelli; direzione del doppiaggio: Elda Tattoli (la voce di Lou Castel è di Paolo Carlini); produzione: Doria Cinematografica; distribuzione: International Film Company; origine: Italia, 1965; durata:107’.

Trama:In una decadente villa della montagna piacentina vive una famiglia borghese la cui direzione è affidata, più che alla madre cieca, al maggiore dei quattro figli, Augusto, che, fidanzato da tempo ad una ragazza di città, attende con ansia il momento di abbandonare la casa per formare una propria famiglia nel capoluogo. Nella casa vivono: Leone, il più giovane dei fratelli, epilettico ed incapace di ragionare; Giulia, la quale, anche se apparentemente più normale, è a sua volta malata e psicologicamente ferma ad una preadolescenza che la lega morbosamente a Sandro. Questi, a sua volta pazzo ed epilettico, ha una mente lucida nel concepire diabolici piani tendenti a sopprimere i familiari. Sandro, quando se ne presenta l’occasione, spinge la madre in un burrone; affoga nel bagno Leone, e, dopo aver rivelato le sue prodezze alla sorella Giulia, si allea con la medesima per uccidere Augusto. Ma la fredda determinazione di Sandro atterrisce Giulia che, temendo di rimanere vittima della mania omicida del fratello, non interviene a salvarlo nel corso di una letale crisi del suo male.

Critica (1):Il paesaggio, il nord collinare della pianura padana, tra la zona industriale già milanese e l’appennino. L’ambiente, una piccola borghesia agraria decaduta, meschina. I personaggi, una famiglia tarata: epilettici, idioti, ciechi; assente il padre, sostituito senza troppa convinzione da un fratello maggiore "normale", cioè mediocre, integrato, passabilmente cinico. Nell’insieme, vige "un bordello di sentimenti", come dice appunto il fratello maggiore. L’incesto è in agguato: Giulia è innamorata di Augusto, il fratello sano"; Alessandro, l’eroe del fìlm, epilettico, è innamorato di Giulia: e consumerà – si presume – l’incesto dopo il suo secondo delitto, di cui sarà vittima Leone, il fratello cretino. Ogni liberazione è impossibile, e tuttavia si deve cercarne una, non fosse che per salvare una speranza, oppure la vita continuerà immutabile, tra due crisi, tra due scenate, senza soluzione. Questa liberazione si presenta dunque ad Alessandro con la logica lucida della malattia, sotto forma di eliminazione delle "bocche inutili", vista sotto due diversi aspetti: quello economico è il primo, giustificazione coerente e matematica (eliminazione della madre, tot milioni risparmiati sulle medicine, il cibo, ecc.; eliminazione del fratello, ancora tot milioni per anno, il che su più anni dà...) ma si estende in senso più vasto, come aspirazione all’abbandono di uno standing piccolo borghese tradizionale, come passaggio a una condizione diversa. Dal carattere passivo dei redditi delle magre proprietà, al carattere attivo di un’impresa di allevamento di cincillà. Ma dietro questo calcolo – che a tratti potrebbe apparentare Ale a un Verdoux formato ridotto – quel che è più pressante è il bisogno, solo episodicamente cosciente, di una liberazione psicologica totale: dalla famiglia, dalla madre, dai sacri doveri, dai grandi principi.È questo a motivare la formidabile sequenza che fa seguito all’uccisione della madre cieca (cieca: tutte le madri sono cieche di fronte ai problemi dei figli): l’aspetto spavaldo della confessione accanto alla bara, la gioia liberatoria (che esige forme di esplosione fisica, concreta, in Ale e poi in Giulia, o che è meschina e bassamente ipocrita in Augusto, il quale vede dalle economie ora possibili profilarsi un matrimonio gretto con una ragazza gretta e "sana" come lui), la complicità tra Giulia e Ale, nata dall’orgoglio dell’uno e dall’ammirazione dell’altra, la distruzione del "vecchio": si gettano dalla finestra, nel cortile sporco di neve, mobili e riviste, ritratti di famiglia, i simboli del passato borghese come ne L’Age d’Or, e attorno ai rottami s’aggirerà desolato Leone, il cretino, alla ricerca dei segni e dei ricordi di una comunione materna. Ma dietro la distruzione può spesso nascondersi un’angoscia progressiva di autodistruzione e dietro la rivolta senza speranza, la ricerca sotterranea di un suicidio simbolico, che peraltro Alessandro mima tra due manifestazioni di narcisismo (lo specchio, l’opera, il gusto del proprio corpo, del movimento irriflesso). E la morte infine giungerà: la non assistenza della sorella non tradirà che un’ambigua impotenza. "Chi è causa del suo mal pianga se stesso", diceva in sostanza il cartone finale poi, soppresso, citando ironicamente un vecchio proverbio. Nella confusione adolescente di Ale c’è sempre, di fatto, la coscienza nascosta dì una assenza di sbocco. La malattia è allo stesso tempo il suo alibi e la sua condanna, gli permette una continua giustificazione delle proprie mancanze, ma allo stesso tempo è là, con le sue manifestazioni improvvise, ad annunciare la fine.
Il film di Bellocchio, oltre le dichiarazioni d’intenzioni è profondamente impregnato di queste ambiguità. Non sorprende dunque che la critica italiana e straniera ne abbia proposto una doppia lettura; da un lato quella del blasfemo e della rivolta, ma da un altro richiamandosi compiacentemente a una visione in sostanza spiritualistica della "tragedia dell’esistenza’ citando in modo perfettamente erroneo altri "grovigli di vipere" e altre Tragedie Adolescenti. Ma siamo certi che i prossimi film di Bellocchio finiranno per rendere più difficili certe sottili operazioni di recupero.
Lo si voglia o no, c’è una cosa che bisogna pur vedere in questo primo (e grande) film: Bellocchio ha, checche ne dica, rapporti ancora aspri e non distanziati con un’età a cui è ancora vicino e che ha compreso come pochi I pugni in tasca è dunque un film partecipato, vissuto nonostante tutte le trasposizioni simboliche di un soggetto spinto alle sue estreme conseguenze (malattia, crimine, incesto) e fino al limite del grottesco. E peraltro questo a dargli tutta la sua ricchezza e originalità, la sua profondità poetica dentro una narrazione tutta prosastica e di lontana base naturalistica. Totalizzando in sé problemi e difficoltà solitudini e slanci di una "stagione della vita", Ale diventa così, per lo spettatore, un punto di riconoscimento che non può essere, dopo le prime reazioni, altro che "compromettente," e diremmo quasi lirico. In questo senso, si tratta veramente di un’opera prima": in germe, su un terreno non solo volontaristico, vi sono gli elementi di un’opera che vuol divenire sempre più "pubblica" e in cui la rivolta vuole dunque avere il primo posto affrontando i nodi, politici e umani, di una società determinata; si profondono nella regia tutta una serie di elementi autobiografici, naturalmente non diretti come troppo spesso capita ai giovani registi (e qui un paragone col bel film di Bertolucci Prima della rivoluzione sarebbe illuminante), ma con un bisogno, un’esigenza di catarsi e quasi d’esorcismo.
Quel che importa è che questa ambiguità sia stata canalizzata e controllata in un’opera che, nella sua estrema sincerità, è di straordinaria ricchezza e di una maturità quale il giovane cinema ha raramente raggiunto. Parlavamo di prosa, ma sarebbe meglio precisare che il punto di forza del film è proprio la oggi così vituperata sceneggiatura. Bellocchio sa costruire il suo film con una sicurezza inabituale; il suo cinema è fatto di azioni, movimenti, che si risolvono in crescendo e in pause intense, calcolate. Qui, veramente, più che la lezione dei Bresson-Antonioni cui Bellocchio ha dedicato la sua tesi, si avverte la conoscenza e influenza di certo cinema americano (Kazan, Brooks, Fuller, per esempio, o, per gli, interni domestici, le tempeste attorno al tavolo, il Penn di Anna dei miracoli), e infine, oltre l’eco comune di Stroheim, Buñuel. Come Buñuel, Bellocchio rinuncia alle prodezze della macchina da presa e muove solo lo stretto necessario: a preoccuparlo è innanzitutto la necessità - ma anche il piacere – di raccontare una storia, lasciandone la interpretazione agli esegeti, dicendo tutto e purtuttavia tacendo, perché i fatti devono parlare da soli, con le loro molte implicazioni e i loro molti linguaggi, secondo risonanze determinate da associazioni non sempre coscienti. Questa sicurezza, stavolta più che adulta, puo provocare in Bellocchio pagine per le quali sarebbe difficile trovare riferimenti e precedenti. Prendiamo il finale. Dopo il secondo omicidio e la paralisi della sorella, Ale si lancia in un grottesco gioco provocato dall’audizione di un disco di Verdi: e dopo qualche accordo ecco la voce di Violetta riempire la piccola stanza: "sempre libera degg’io / folleggiar di gioia in gioia...". L’autoesaltazione di Ale raggiunge il suo culmine, ma già la musica di Verdi è pervasa da interni annunci di catastrofe: i giorni (per Ale i secondi) sono contati. Poi l’attacco epilettico, gli spasmi della crisi che diventano agonici, mentre la musica non è più fatta che di acuti senza fraseggio : è la resistenza disperata, inutile, alla morte. E nella stanza vicina Giulia inchiodata (inchiodata?) al suo letto è tutta tesa, con espressione di opaca curiosità, a percepire ì suoni di queste estreme convulsioni.
Goffredo Fofi, Capire con il cinema, Feltrinelli, 1977

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Marco Bellocchio
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