Pauline alla spiaggia - Pauline à la plage
| | | | | | |
Regia: | Rohmer Eric |
|
Cast e credits: |
Riduzione cinematografica: Leo Benvenuti e Piero de Bernardi, dal romanzo omonimo di Ugo Pireo (Bompiani); sceneggiatura: L. Benvenuti, P. De Bernardi, con la coll. di Valerio Zurlini; fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia: Sergio Canevari; costumi: Marilù Carteny; musica: Mario Nascimbene; montaggio: Franco Arcalli; interpreti: Anna Karina (Elenitza), Marie Laforêt (Eftichia), Lea Massari (Toula), Rossana Di Rocco (Panaiota), Valeria Moriconi (Ebe), Milena Dravic (Aspasia), Tomas Milian (ten. Gaetano Martino), Mario Adorf (Castagnoli); Guido Alberti (Gambardella), Aca Gavric (Alessi); produzione: Morris Ergas per la Zebra Film - Debora Film (Roma) / Franco-London Film (Paris) / Avala Film (Bolgrado) / Omnia Deutsch Film; origine: Italia/ Francia/Jugoslavia/Germania Federale, 1965; durata: 120'. |
|
Trama: | Pauline è una graziosa tredicenne, che passa gli ultimi giorni di vacanza settembrina con la seducente zia Marion, in una villetta sulle spiagge di Normandia. Mentre incontra un coetaneo (Sylvain) con cui fa presto a stabilire un franco rapporto di simpatia e di amicizia, essa assiste a tutto il complesso gioco dei sentimenti e delle attrazioni degli adulti. C’è Pierre che, un tempo innamorato pazzo di Marion (che è divorziata) l’ama ancora e in forma gelosamente possessiva; c’è il di lui amico Henri, un play boy vacuo e chiacchierone quanto interessante, che filosofeggia con Marion sull’amore, ma ne diventa ben presto l’amante. Marion vorrebbe addirittura gettare la nipote nelle braccia di Pierre, che tuttavia rifiuta. Intanto Henri tradisce tranquillamente Marion con Rosette, una semplice venditrice da spiaggia. Non mancano gli equivoci, mossi dai sospetti di Pierre, che crede di aver visto Marion nella camera di Henri, allorché quel giorno si trattava invece della disinvolta Rosette. Nell’equivoco viene addossata la colpa dell’incontro sulle spalle di Sylvain (peraltro assolutamente innocente), il che provoca l’amara delusione di Pauline, che in fondo se ne è innamorata. Poiché Henri decide improvvisamente di partire in crociera (ben inteso, con altra sua amica), Marion rimane sola e delusa anch’essa (è la eterna cercatrice dell’amore vero), Pierre termina la sua stagione di "surf" sempre chiuso nel suo inutile e respinto affetto e Pauline è sedotta da Sylvain. Finite le vacanze, zia e nipote rientrano a Parigi. Pauline, senza volerlo espressamente, ha avuto quella iniziazione amorosa, che lo strano clima e i molteplici rapporti umani cui ha assistito hanno, in un certo senso, favorito, tuttavia sciupandola. |
|
Critica (1): | Il tempo immobile
Quando i protagonisti di Pauline à la plage si trovano a discutere sulle diverse specie d’amore, Marion difende tenacemente la sua ipotesi che il "coup de foudre" ne sia la forma superiore. "L’amore che brucia è un amore superficiale" interviene qualcuno. – "No!" – risponde Marion – "È l’amore vero perché permette di cogliere sulla superficie, in un istante, l’invisibile". E tutto il film, del resto, non consiste altro che nell’ossessiva discussione attorno a due diverse concezioni dell’amore, quella cui si riferiscono Pauline e Pierre, che contempla la durata, e quella prediletta da Marion e Henry, che preferiscono il bruciare. Il dialogo sul tempo e la durata rappresenta non solo il cuore tematico del film di Eric Rohmer, ma anche la cifra stilistica che regola scelte di regia dell’autore francese. Il discorso amoroso trasmuta in discorso sul tempo e, in questo senso, il set scelto da Rohmer risulta perfetto: un luogo assolato di villeggiatura, una spiaggia senza riparo dalla luce bianchissima, una porzione di tempo sospesa in cui i personaggi sanno (o non sanno) di vivere una condizione eccezionale.
Il vaso con i pesci rossi che rifrange luce nella penombra della stanza di La femme de l’aviateur (1981) e la pioggia che batte insistente, Parigi, sempre nel primo film della serie Comedies et proverbes; l’analisi minuziosa del fondo marino e i corpi folgoranti nella luce solare di La collezionista (1967): ecco le suggestioni acquatiche predilette da Rohmer (un teorico, non dimentichiamolo, della "trasparenza" cinematografica) e che ritornano, enfatizzate, in Pauline à la plage. Così come la giovanissima Haydée, mentre si bagnava nei mare limpido de La collezionista, veniva sezionata dalla macchina da presa, allo stesso modo il corpo di Marion, protagonista di Pauline, è presentato nella luce abbagliante dell’estate e dei mezzogiorno, luce cruda e senza possibilità di riparo; una sorta di arena soffocata, insomma, in cui i sentimenti vengono spinti al parossismo e la nudità spinge gli interpreti a dichiararsi. Se la trasparenza dell’acqua in estate e i tagli di luce che rifrange nell’aria possono divenire motivi-chiave del cinema di Rohmer è perché rispondono ad una precisa strategia di teatralizzazione e riduzione a "vetrina" dello spazio, mentre, contemporaneamente, fingono di adempiere ad una esigenza di realismo ben radicata, riassunta da Rohmer in una affermazione del 1971: "La fotografia di Almendros (da allora suo operatore preferito. n.d.r.) tende a legare i personaggi allo sfondo, a bagnarli di luce. Sempre. È una fotografia più sulle modulazioni che sui contorni (...) non mi piace affatto quella maniera surrealista di staccare l’oggetto, di isolarlo, di farne, se volete, un’entità". A questa predilezione per un certo tono fotografico, va accostata quella per il 16 mm., quando gonfiato, produce una sgranatura che preserva, secondo Rohmer, dalla laccata perfezione cartolinesca dei 35 mm colore. E non è tutto: il regista si ostina anche in una dura polemica sul formato, che, almeno per quanto riguarda il suo cinema, deve respingere l’artificiosa magniloquenza del panoramico, a favore, invece, dei vecchio standard 1:33, ormai totalmente in disuso, ma dall’aspetto più artigianale ed equilibrato in proiezione.
(...) L’episodio centrale di Pauline à la plage, quello in cui si dispiega l’equivoco più intrigante, è anche il momento in cui, più esplicitamente il cinema di Rohmer dichiara la sua predilezione per lo sguardo incompleto e ingannevole. Così come può accadere che i personaggi di Rohmer dimentichino di vedere, cadendo addormentati come la Marchesa Von 0 e favorendo, dunque, l’intreccio e l’equivoco con la loro incoscienza, allo stesso modo si potrebbe dire che il sistema di sguardi che regola il cinema dei regista francese è interamente costruito sulla pregnanza significante dell’invisibile, di ciò che rimane fuori campo. La femme de l’aviateur, ad esempio, esibisce una continua fuga in avanti dello sguardo, che prevede anche una irresolvibile e fatale incompiutezza (basti pensare alla Polaroid che non riesce a fissare i due amanti e alle fotografie strappate cui mancano frammenti fondamentali) e pregiudica l’investigazione. Per questo, nello stesso film, Lucie poteva rispondere a François che le chiedeva cosa stesse guardando: "Je vous regarde en train de regarder". Pauline à la plage superbamente completa questo intreccio di sguardi furtivi, rubati o incompiuti che sembra essere la caratteristica della serie "Comédies et proverbes" e vi aggiunge la idea forte di questo corpo mancante alla finestra, sottolineato dall’apparizione del corpo nudo della ragazza che sembra, invece, voler dire tutto e che Pierre considera un indizio sicuro. L’illusione dura un attimo, il tempo di lasciarci intendere che proprio la finestra è l’elemento feticcio dei cinema – di – sguardo di Rohmer: la finestra luogo di luce e di inganno, trappola invitante per l’ingenuo cacciatore di indizi.
Ma l’episodio dell’equivoco (chiamiamolo così, anche se, in realtà, Henry era davvero con un’altra donna), allude anche al ruolo del caso, al suo affiorare ineluttabile dentro tutta la produzione del regista francese che appunto al caso affida il compito di far, prima o poi, vacillare le verbose e labirintiche certezze degli interpreti, distruggendo anche, con la propria inconsistenza, le variegate ipotesi di indagine messe in piedi dai protagonisti dei suoi film (che sono, quasi sempre, delle strutture ("detective-story"). Neppure la parola, insomma – sovrana nel cinema di Rohmer – si rivela veritiera e capace di resistere agli assalti della casualità: il caso introduce l’ambiguo, contrasta con la attenta messa in scena teatrale dei personaggi. E poi la parola si consuma e distrugge da sola, per abuso. Rohmer ci avverte del pericolo in cui incorrono i suoi salottieri personaggi, completamente immedesimati nel "discorso amoroso", quando premette al film la frase di Chretien de Troyes "Qui trop parole il se mesfait" ("Chi parla troppo, finisce per ingannarsi", più o meno). Tutti i personaggi di Rohmer – e in particolare quelli della serie Comédies et proverbes – stabiliscono attraverso il dialogo, la parola, il "bavardage", un mondo di desideri e di volontà, propongono la propria identità etica di riferimento, che precipita poi in un attimo a causa dell’intervento di un elemento qualsiasi e casuale. Ed è proprio dal contrasto tra il realismo quotidiano dei dècor e la fredda determinazione di ciò che i personaggi espongono di se, che nasce la malizia accattivante del cinema di Rohmer.
Un classico contemporaneo
Tutti i personaggi – adorabili intellettuali dall’abito casual ma un po’ dandy – si ostinano in qualche amore, in qualche strategia, in qualche fallace ipotesi, ma soprattutto si ostinano a parlarne e a parlarcene, come se il desiderio potesse, attraverso la parola, tramutarsi in realtà. Dediti alla "fantasticheria e ai castelli in aria" come recita il proverbio iniziale di Le beau mariage, i personaggi si dedicano all’ostinata enunciazione dei propri desideri e delle proprie personali ideologie. In campo sentimentale, ogni dichiarazione d’intenti si rivolta contro chi la pronuncia. "Je vais me marier" ripeteva Sabine in Le beau mariage, allontanando così da sè ogni possibilità di riuscita; "Je veux tomber amoureuse", pronuncia Marion in Pauline à la plage con la stessa ostinazione, durante quegli incontri con gli amici che si trasformano, immediatamente, nella messa in scena consapevole dei diversi movimenti dell’economia sentimentale. In una dichiarazione di molto tempo fa, Rohmer aveva detto: "I personaggi dei miei film partono sempre da una idea forte e il finale si rivolta contro di loro. Cioè si conclude su una disillusione".
È sorprendente come la "classicità" di Rohmer, perlomeno nell’ambito del "discorso amoroso", sembri capace di virare verso una lucidissima contemporaneità d’analisi dei comportamenti: i personaggi che abusano della parola come mediazione conoscitiva verso quell’oggetto invisibile e inavvicinabile che è l’amore, alludono, è vero, al vizio intellettuale, ma, soprattutto, fungono da pedine simboliche di quel gioco generazionale con cui si è tentato vanamente di consumare e delimitare il desiderio entro un apparato circoscritto di regole. Si parla di noi, insomma, e dei nostri ultimi dieci anni di vita. Non a caso Pauline, la fredda e tranquilla adolescente del film di Rohmer, rifiuta i giochi amorosi dei grandi e approda autonomamente alla propria scoperta erotica e sentimentale. Pauline è il silenzio, è l’occhio che osserva, senza replicare, le strategie inutili degli adulti: "Alla mia età non si parla, si ascolta", risponde a chi le chiede la sua opinione sull’opposizione amore duraturo/ coup de foudre. Ed è nel suo silenzio il punto critico del film, quel fuori-campo narrativo che non smette di denunciare l’incessante bla-bla esistenziale di Marion, di Henry e di Pierre.
Piera Detasiss, Cineforum n. 243, aprile 1985 |
|
Critica (2): | |
|
Critica (3): | |
|
Critica (4): | |
| Eric Rohmer |
| |
|