Enfants du paradis (Les)-Amanti perduti - Enfants du paradis (Les)
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Regia: | Carné Marcel |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Jacques Prévert; fotografia: Roger Hubert, Marc Fossard; musiche: Maurice Thiriet, Georges Mouque'; montaggio: Madeleine Bonin, Henri Rust; scenografia: Léon Barsacq, Alexandre Trauner; costumi: Antoine Mayo; interpreti: Arletty (Garance), Jean-Louis Barrault (Baptiste Deburau), Pierre Brasseur (Frédérick Lemaître), Maria Casarès (Nathalie), Marcel Herrand (Lacenaire), Louis Salou (conte Edouard de Montray), Pierre Renoir (Jéricho, lo straccivendolo), Paul Frankeur (Ispettore), Fabien Loris (Avril), Pierre Palau (Regista funambules), Marcel Preres (Direttore Funambules), Albert Rémy (Scarpia Barrigni), Raymond Rognoni (Dir. Grand Theatre), Jacques Castelot (Georges), Jane Marken (M.me Termine), Louis Florencie (Gendarme), Robert Dhéry (Celestin), Etienne Decroux (Anselme Dubureau) Gaston Modot (Filo di seta); produzione: Pathe' Cinema; distribuzione: Cineteca di Bologna; origine: Francia, 1945; durata: 188’. |
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Trama: | Una compagnia d'artisti ottiene grande successo in un teatrino popolare della Parigi ottocentesca. Vi agisce, tra gli altri, un mimo, Battista, artista dal temperamento romantico e sentimentale, che s'innamora romanticamente di una ragazza belloccia ed equivoca, Garance. Questa l'ama a modo suo e sarebbe disposta a divenirne l'amante; ma non comprende l'amore spirituale del mimo. Della situazione approfitta un amico di Battista, l'attore Federico, artista geniale, ma d'animo grossolano, che non esita a farsi di Garance un'amante. Ma un bel giorno Garance fugge con un ricco conte. Passano alcuni anni: Federico è diventato un grande e celebrato attore, Battista ha sposato senza amore una compagna d'arte, che l'adora, e ne ha avuto un figlio. Garance ritorna al teatrino popolare per rivedere Battista; questi sente rinascere in sè l'antico sentimento. I due s'amano appassionatamente, ma al sopraggiungere della moglie e dei figli, Garance se ne va. Il ricco conte viene ucciso nel bagno da uno sconosciuto; Federico continua a mietere effimeri allori; la vita continua a scorrere tumultuosa e implacabile, mentre ciascuno dei personaggi sopravvissuti continuerà a inseguire una felicità irraggiungibile. |
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Critica (1): | Così Marcel Carné racconta nelle sue memorie (Marcel Carné, Io e il Cinema, Lucarini, Roma 1990), la genesi del film, nei primi mesi del 1943 (la Francia è sotto l'Occupazione nazista da oltre due anni e mezzo, la seconda guerra mondiale dura da ormai oltre tre anni):
"Per parecchio tempo i miei colloqui con Jacques [Prévert] rimasero infruttuosi. Se avevamo un'idea la abbandonavamo subito, per motivi diversi ma sempre validi. Paulvé [André Paulvé, produttore di Les Visiteurs du soir / L'amore e il diavolo, 1942], tenuto conto dell'enorme successo commerciale dell'Amore e il diavolo, senza dirmelo esplicitamente mi aveva lasciato capire che era disposto a fare uno sforzo del tutto eccezionale per il secondo film che intraprendevo per la società.
Io e Jacques dunque cercavamo piuttosto nel genere 'affresco' che in quello intimista. Ci sembrò di aver trovato quando uno dei due – lui? Io? – pensò a un Milord de L'Arsouille interpretato da Pierre Brasseur. Già mi rallegravo all'idea di rievocare la famosa mascherata della Courtille, quando ci rendemmo conto che fare sfoggio di tanta prodigalità, di tanto lusso insolente in un'epoca di penuria pressoché totale sfiorava la provocazione. L'idea fu abbandonata.
Fu allora che, sfaccendati e in preda all'irritazione ben nota ai registi in cerca di un soggetto che sfugge, incontrammo Jean-Luis Barrault che bighellonava col naso per aria sulla Promenade des Anglais. Il tempo di rallegrarci dell'incontro, ed eravamo seduti sulla terrazza di un caffè. Le domande piovvero fitte, finché, calata un po' la febbre della curiosità, cominciammo a parlare del più e del meno. Barrault naturalmente ci parlava di teatro. Ancora di teatro. Sempre di teatro. Gli aneddoti si susseguivano, quando uno in particolare ci fece drizzare le orecchie. Si trattava di un fatto di cronaca accaduto al mimo Deburau. Un giorno passeggiava sottobraccio a una donna sul famoso Boulevard du Crime; era allora all'apice della sua gloria. Improvvisamente un ubriacone si mise ad insultare la ragazza. Non la conosceva, e non aveva nessun motivo, se non l'ubriachezza, per comportarsi così. Deburau cercò di allontanarlo. Ma lui, con la tenace ostinazione degli ubriachi, si accaniva ad ingiuriare sempre più volgarmente l'amica del mimo. Questi, infuriatisi, colpì l'ubriaco con il bastone che aveva in mano. Gli diede una botta in testa così violenta che l'uomo ne morì. Non so se la scena è autentica, la riporto come ce la descrisse Barrault. L'originalità del fatto risiedeva in questo: tutta Parigi si era precipitata al processo per sentir parlare il mimo!
L'idea ci parve sensazionale. Ma ben presto il nostro entusiasmo decadde. O Deburau veniva impersonato da Barrault, e allora dov'era per lo spettatore l'interesse – e la novità – nel sentirlo parlare? Oppure ricorrevamo a uno sconosciuto, e chi si sarebbe curato della sua voce? Jacques, scoraggiato, parlò di abbandonare il progetto. Ma io mi impuntai. Mi piaceva l'epoca, e in particolare mi seduceva l'idea di far rivivere il Boulevard du Crime come esisteva allora. – Senti – dissi a Jacques - io faccio un salto a Parigi per andare al museo Carnavalet e consultare i documenti del Gabinetto delle Stampe del periodo che ci interessa.
Fa' come vuoi – rispose Jacques. – Io da parte mia voglio vedere se ho un'altra idea".
(in ilcinemaritrovato.it) |
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Critica (2): | (…) Con Les enfants Carné sembra aver raggiunto un nuovo e compiuto « sentimento del tempo ». Il respiro narrativo del film è ampio come quello dei grandi romanzi della tradizione ottocentesca francese, anche se i suoi ingranaggi laboriosi lo apparentano più a Hugo, Dumas e Sue che non, ad esempio, alla letteratura balzacchiana (rinunciando ai riferimenti strutturali alla tragedia – Le jour se lève –, il "narrato" carnéano di Les enfants du paradis si iscrive senz'altro nell'area del romance (…)
Regista e sceneggiatore trovano qui la loro dimensione più congeniale. Laddove il Carné trascrittore per immagini del populismo anarchicheggiante di Prévert o del fantastico sociale di Mac Orlan non era riuscito a interpretare correttamente il dramma del proletariato francese tra le due guerre, deformandolo in mélo populista, Les enfants du paradis ottiene invece una completa credibilità romanzesca. La scrittura dell'autore si libera da quanto di convenzionale e retorico era solito appesantirne il tratto e il suo consueto pessimismo appare in certo modo purificato e decantato. Come indica la didascalia iniziale, la morale del film è di ascendenza shakespeariana: «Il mondo è un palcoscenico in cui uomini e donne sono gli attori. Essi vi fanno i loro ingressi e le loro uscite» (As You Like It). Donde il classico rapporto vita reale/vita immaginaria (teatro), fondato sul principio dell'arte che crea la vita. Tutta la vicenda non è altro che un complesso e ricco "gioco delle part –, le cui implicazioni si dislocano a ogni livello della rappresentazione. (…) Il tema centrale del film – enunciato, del resto, nel titolo – è impostato sulla relazione attore/spettatore. Entrambi sono enfants du paradis: gli attori, figli degli dèi, e gli spettatori, appassionata popolazione dell'empireo teatrale (gli ultimi ordini di posti, il loggione, il paradis, appunto). Il titolo fonde le due presenze essenziali di attore e spettatore, che entrambi abitano l'universo intrafilmico, e presuppone una terza istanza, necessaria alla celebrazione dell'evento: lo spectator cinematografico, successore nel ventesimo secolo dell'habitué plebeo dei "paradisi" del diciannovesimo. La relazione attore/spettatore si estende nei rapporti dramma/copione, attore teatrale/attore schermico, udienza del teatro/pubblico cinematografico. I livelli di riflessività sono qui moltiplicati, negando allo spettatore la possibilità di una lettura puramente "drammatica" o di un eccesso di semplificazione, escluso per programma dalla ambiguità determinata del film. Se la vita del viale e la vita del teatro, lo spettatore e l'attore, la realtà e l'illusione interferiscono e si intersecano fino a risultare non distinguibili, altrettanto evidente risulta la coincidenza tra universo del palcoscenico e universo dello schermo. Le maschere adottate dagli attori per definire le loro persone cinematiche e quelle assunte dai "caratteri" cinematici sui palcoscenici teatrali del film sono indossate, rimosse e cambiate continuamente, tanto che i ruoli del palcoscenico si intercambiano senza soluzione di continuità con quelli della "vita" dei personaggi. I quali, del resto, sono i classici caratteri della commedia all'italiana, Baptiste, Garance e Frédérick ricostituendo il classico trio Arlecchino, Colombina e Pierrot (…). Le pantomime di Dubureau rappresentano un'ulteriore conferma della intercambiabilità palcoscenico/vita, riassumendo e stilizzando le vicende che si svolgono al di fuori della scena e fornendo finanche anticipazioni degli sviluppi a venire. Resuscitata da Carné e da Prévert in tutta la sua affascinante ingenuità, la pantomima non è altro che il cinema delle origini che, vincitore stanco, ha soppiantato fin dalla prima apparizione quel teatro al quale il cineasta Carné dedica un commosso omaggio. Nel mimo Dubureau scompare una tradizione, mentre si annuncia con segni aurorali la non lontana nascita del cinema.
La struttura di Les enfants du paradis è conseguente a simili premesse. Dalle presenze umane che popolano il boulevard du crime, dove ogni giorno accadono tante storie simili tra loro, gli autori hanno estratto una vicenda particolare, seguendone gli sviluppi in due successive fasi temporali, prima di farla ritornare nell'anonimato della folla (si è osservato, giustamente, che Les enfants du paradis non ha un autentico finale). Il punto di partenza della story fu, lo sappiamo, la figura di Jean-Baptiste Dubureau, cui si aggiunsero altri due personaggi di estrazione storica: Frédérick Lemaitre, grande attore shakespeariano soprannominato «il Talma del boulevard» e Lacenaire, assassino anarchico e dandy assai noto all'epoca. Vennero quindi creati i personaggi immaginari: l'affascinante Garance, il conte di Montray e la piccola attrice Nathalie. Il motivo unificante dei personaggi, autentici e di finzione, è il comune gusto del teatro, nella rappresentazione (Frédérick, Baptiste) o nella vita (Lacenaire, Montray). Tutti i "caratteri" della vicenda sono, in qualche modo, attori (non a caso i titoli del film scorrono su un sipario, che si apre poi a mostrare il boulevard). Ed è precisamente questa loro qualità ad amalgamare la composita materia del film, a giustificare la recitazione sempre un poco artefatta, il limite fluttuante tra finzione e realtà (simbolo e realismo), l'intrecciarsi di situazioni e personaggi presi-abbandonati-ripresi con la trasognata disinvoltura di una favola, le epigrammatiche battute prévertiane sull'arte, la vita e lo spettacolo, specchio della vita. L'atmosfera filmica creata da Carné consente al regista di immettere liberamente i personaggi nel milieu del boulevard du crime, microcosmo dello spettacolo, perché essi si incontrino, si amino, si odino e si uccidano in maniera accettabile e quasi plausibile, senza ricorrere a espedienti o ad effetti melodrammatici.
Il tema unificante della vicenda, invece, è l'amore di quattro uomini per Garance, amore dalle fenomenologie assai diverse e che non avrà in alcun caso un esito felice. Sensuale in Frédérick, cerebrale nell'intellettuale anarchico Lacenaire, protettivo nel ricco Montray, appassionato e puro nel dolce Baptiste, l'amore porterà quattro conseguenze divergenti, determinando gli sviluppi drammatici dell'azione. Del proprio sentimento, infatti, l'attore farà un ruolo (l'esperienza della gelosia, a lui prima ignota, gli consente di recitare Otello con immenso successo), l'assassino un crimine (Lacenaire uccide Montray, che lo ha offeso), l'aristocratico balzacchiano una questione d'onore e di orgoglio di casta e il mimo una grande passione infelice. (…) Carné riuscì a compiere efficacemente la sintesi – abbastanza problematica – fra tre istanze fondamentali: l'evocazione di un'atmosfera, consistente nella ricreazione di un milieu storicamente definito; lo studio dei costumi, condotto su caratteri minutamente tipizzati; la vicenda drammatica vera e propria, incentrata sul grande amore del mimo Baptiste.
Se un limite si può imputare al film, esso risiede nella insistenza sul tema favorito della coppia regista-sceneggiatore, quello cioè dell'amore impossibile e della felicità irrealizzabile in un mondo oppresso dalle convenzioni e dalla incomprensione reciproca. La figura del Destino, impersonato dall'ambiguo Jéricho – ma anche Nathalie ne sembra, più di una volta, l'incarnazione –, resta senza alcun dubbio datata. Possono, del resto, far sorridere alcuni espedienti narrativi un po' meccanici (incontri occasionali assai improbabili come quello di Baptiste e Garance al « Rouge Gorge » o di Garance e Frédérick nel palco dei Funambules), troppo facilmente attribuiti alla compiacenza del Fato. Anche questi limiti sono però decantati rispetto alla pratica consueta, quasi insinuati tra le righe della narrazione. I personaggi, benché restino sostanzialmente sempre uguali a se stessi, non subendo un'evoluzione neppure nello scarto temporale che separa le due epoche, non mancano del tutto di spessore psicologico.
La frontiera tra bene e male, tra buoni e cattivi, è una volta tanto incerta e sfumata. Si pensi alla figura di Lacenaire, l'anarchico romantico assassino per gusto dell'atto gratuito, e all'evidente simpatia manifestatale dagli autori. L'espressività del film consegue da un ben calibrato impiego del contrasto e del simbolo. Il contrasto investe tanto i rapporti tra i diversi personaggi del dramma e le loro relazioni con l'ambiente, quanto le situazioni della fiction (nella sequenza finale, la disperazione di Baptiste si contrappone alla gaia indifferenza del carnevale), fino a condizionare la stessa successione linguistica delle scene. Dai contrasti, appunto, prende origine in Les enfants du paradis la felice coesistenza di generi e "stili" diversissimi tra loro. Il film, infatti, oscilla costantemente tra dramma e commedia, senza iati né dissonanze, ma anzi toccando disinvoltamente le corde del grottesco come del sublime, del comico come del terrificante. Se mimo, melodramma e tragedia realizzano insieme la trama compositiva del film, l'accennata intercambiabilità dei ruoli e dei sensi ne sottolinea l'eclettismo. Tanto che Frédérick, il grande attore, può strappare fragorose risate al pubblico del melodramma, mentre Baptiste, il mimo, induce i suoi spettatori alle lacrime. Quanto al simbolo, ogni dettaglio e ogni gesto presenti nel film assommano al valore letterale un valore simbolico, che oltrepassa il primo livello di lettura per attingere a una significazione generale. In tal modo si struttura un rapporto continuamente teso tra immagine e immaginazione (il simbolo della luna, che accompagna Pierrot-Baptiste; le tre lunghe pantomime, veri e propri "film al secondo grado").
L'inusitata complessità di Les enfants du paradis indusse la critica a parlare addirittura di una «terza fase» del cinema. Il film tentava in effetti di riassumere sullo schermo esperienze mutuate dalle altre arti, se non dalla cultura in genere. Umberto Barbaro ipotizzò che la cosiddetta «terza fase» potesse «significare morte del film stesso» (U. Barbaro, Servitù e grandezza del cinema, Roma, Editori Riuniti, 1962). La polemica, tuttavia, si chiuse presto, benché la struttura insolita dell'opera giustificasse in qualche modo le affermazioni di chi vedeva in essa i prodromi di una possibile svolta nel linguaggio filmico (…). Per parte nostra, riteniamo più realistico considerare Les enfants du paradis una straordinaria eccezione, un risultato difficilmente ripetibile dell'espressione cinematografica piuttosto che non un'opera-chiave capace di aprire nuove vie. Autentico monumento del cinema, il film di Carné è il capolavoro che segna la consacrazione di uno stile storicamente determinato. Uno stile fatto di perfezione plastica, di puntiglioso lavoro d'équipe, di rigido e lucidissimo controllo su ogni elemento della rappresentazione. Les enfants du paradis ottenne la « Victoire », premio della critica messo in palio dalla rivista «Cinémode».
Roberto Nepoti, Marcel Carné, il Castoro cinema, 10/1979 |
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