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Mia droga si chiama Julie (la) - Sirène du Mississippi (La)


Regia:Truffaut François

Cast e credits:
Soggetto:
dal romanzo di William Irish "Waltz Into Darkness" (Vertigine senza fine); sceneggiatura: François Truffaut; fotografia (Eastmancolor - Dyaliscope): Denys Clerval; montaggio: Agnès Guillemot; musica: Antoine Dubamel; suono: René Levert; interpreti: Jean-Paul Belmondo (Louis Mahé), Catherine Deneuve (Julie Roussel/Marion), Michel Bouquet (Comolli), Nelly Borgeau, (Berthe Roussel), Marcel Berbert (Jardine), Rolan Thénot (Richard); produzione: Marcel Berbert per Les Films Du Carrosse, Les Production, Artistes Associés (Paris), Produzioni Associate Delphos (Roma); origine: Francia, 1969; durata: 120’.

Trama:Louis Mahé, ricco produttore di tabacco nell’isola di Réunion, sposa Julie Roussel con la quale ha avuto solo un rapporto epistolare. Quando la ragazza giunge dalla Francia non pare corrispondere alla donna delle fotografie, ma Louis accetta ben volentieri tutte le sue deboli giustificazioni, perché è di una bellezza che cancella qualsiasi ombra. Dopo una breve convivenza vissuta intensamente da entrambi, ottenuto l’accesso ai conti bancari del marito, Julie prende tutto e scappa col malloppo. Solo allora Louis apre gli occhi...

Critica (1):Louis Mahé, proprietario di una fabbrica di sigarette nell’isola della Réunion, attende al porto l’arrivo della promessa sposa, Julie. Non l’ha mai vista, si sono conosciuti tramite un’inserzione matrimoniale. La Julie Roussel che sbarca da "La sirène du Mississippi" non assomiglia affatto alla fotografia che aveva ricevuto in precedenza. Ma è così bella... E poi spiega disinvolta di aver inviato il ritratto della sorella per essere sicura che lui non l’avrebbe sposata solo per la bellezza. Si sposano. I primi tempi sono molto felici, malgrado qualche atteggiamento un po’ bizzarro della donna: poi, giunge una lettera preoccupata di Berthe, la sorella di Julie. Infine, la fuga di lei, con tutti i soldi di Louis. Si scopre che Julie si chiama invece Marion: è un’avventuriera, il suo complice Richard ha ucciso la vera Julie sulla nave e lei ne ha preso il posto. Louis parte per la Francia alla sua ricerca. Vuole ucciderla: ma, quando la ritrova che fa l’entraineuse in un locale notturno di Antibes, scopre di amarla. Il suo complice l’ha abbandonata senza un soldo: Louis fugge con lei per una seconda luna di miele. In uno chalet alla periferia di Aix-en-Provence sono raggiunti da Comolli, il detective privato che era stato incaricato di indagare sulla scomparsa di Julie. Louis lo uccide, poi lo sotterra in cantina; i due fuggono a Lione. Marion ama i soldi, così Louis svende la sua fabbrica al socio. Al ritorno dall’isola, nuova precipitosa fuga: la polizia ha scoperto il cadavere di Comolli. Abbandonando tutti i soldi, i due si dirigono verso la frontiera. Bloccati dalla neve, si riparano in un capanno abbandonato. Marion tenta di avvelenare il suo uomo con il topicida. Louis se ne accorge e invoca una dose maggiore di veleno. Non rimpiange nulla. Marion scopre di amarlo veramente. Partono insieme, abbracciati nella tormenta di neve, verso il confine della Svizzera. Antoine Doinel, sorvegliante notturno nell’hotel di Baci rubati, trascorre le monotone ore di lavoro leggendo romanzi. Lo spettatore, in realtà, ne vede uno solo, così che non può fare a meno di ricordarne il titolo: La sirène du Mississippi. Truffaut annuncia in questo modo il suo prossimo film, di cui ha già pronta la sceneggiatura: il libro che Jean-Pierre Léaud tiene in mano è la versione francese di Waltz Into Darkness, opera di quel William Irish, già autore de La mariée était en noir.
In generale, La sirène non piace alla critica e neppure tanto al pubblico: "Il film non ha avuto alcun successo, tranne che in Giappone. È rassicurante il nostro mestiere perché c’è sempre un paese dove anche il film più assurdo può avere successo". Il pubblico occidentale appare piuttosto conquistato dal realismo trasognato e dalla grazia un poco manierata di Baci rubati. Eppure, tra i due, è la Sirène il film più importante. "La verità è che ho girato Baisers volés per guadagnare soldi che mi permettessero di acquistare i diritti di adattamento della Sirène". (...)
"Per me, l’interesse di questo film è d’aver rovesciato una coppia e filmato una iniziazione al rovescio. Volevo raccontare la storia di un giovane che non conosce nulla della vita e soprattutto delle porcherie della vita. Alla ricerca della donna ideale, gli capita il contrario di ciò che cercava, ma l’amerà ugualmente di un amore così forte che a sua volta lei lo amerà, dopo essersene infischiata di lui per la durata della storia. Attraverso di lei, egli scopre la realtà". L’amore come conoscenza, come principio di realizzazione dell’individuo in una dimensione autenticamente umana, al di là e contro i condizionamenti e i pregiudizi, le abitudini che soffocano l’esistenza, riducendola ad un umiliante e pallido riflesso, mortale apparenza di ciò che dovrebbe essere e non è. La rivolta, la fuga, il salto nel buio e la vertigine senza fine di questo film sono l’espressione radicale del rifiuto di un ordine che umano non è, scansione tragica di una traiettoria verso l’ignoto che è invocazione del "diverso", desiderio dell’impossibile, condizione per la liberazione che un’ansia enorme di verità sorregge e differisce senza posa.Perdersi è, per i due protagonisti, condizione per ritrovarsi. La degradazione di Louis Mahé, il capitalista sicuro di sé e dei propri incrollabili valori, inizia con la comparsa di Julie Marion, l’angelo del male destinato a turbare l’ovattata tranquillità di un ritmo coniugale i cui tempi sono segnati da antichi, scrupolosi rituali domestici. Insieme attraverseranno le esperienze più violente: la fuga dallo squallore del quotidiano non conosce che il segno dell’abiezione, dell’avvilimento progressivo. La menzogna, il furto, l’inganno, l’assassinio sono le tappe obbligate di un itinerario spirituale che un itinerario geografico parallelo sembra raddoppiare: La Réunion - Nizza - Antibes - Aix-en-Provence - Lione e, infine la frontiera confusa nel fiabesco candore di una tormenta di neve. Nel rifiuto radicale di tutta la loro vita e del loro passato risiede la possibilità della salvezza: ad un passo dall’estremo delitto (l’avvelenamento-suicidio di Louis), la condizione della liberazione cercata. La duplice identità ritrovata (Louis con l’accettazione della morte per amore, Marion con il rifiuto di compiere l’assassinio premeditato, affermano se stessi – per la prima volta sino in fondo – nell’estrema negazione del proprio egoismo), scopre l’ardua necessità dell’imprevisto, la dura costrizione del provvisorio: il film si arresta – interrogativamente – sull’immagine dei due folli amanti che, l’un l’altro abbrancati, procedono nella neve, segno non ambiguo di un incerto futuro presagio rassegnato di una perpetua fuga come condizione di libertà. Un film d’amore, dunque, come tutti i film di Truffaut. Ma un fatto nuovo stupisce, con la forza dell’inusitato: le dichiarazioni d’amore, così rare negli altri film, abbondano in questo, pullulano in tutti i dialoghi, conquistano lo spazio sonoro di un universo che cede ai segni della violenza la propria dimensione visiva. "Ti penso molto, sai?" "Pure io" "Ti bacio" "Pure io" "Ti voglio bene" "Pure io". La ripetizione ossessiva, l’iterazione insistita diventano la denuncia di un linguaggio frusto: l’esasperazione del già detto manifesta l’usura di parole abusate, incapaci di comunicare qualcosa, di nuovo. Estendendo questo procedimento a tutti gli elementi costitutivi del film, Truffaut agisce contemporaneamente su due fronti contigui, e complementari; la riproduzione esasperata di una serie di modelli culturali (narrativi, tematici) e di categorie linguistiche che partecipano della consuetudine spettacolare, da un lato ne smaschera la convenzionalità, la sostanziale vacuità; dall’altro, procede al loro effettivo straniamento in virtù di un mutamento di prospettiva che sorprende la diversità in ciò che è familiare, la verità nella falsità del convenzionale. La dilatazione stilistica decifra e distrugge nel momento stesso in cui scopre nelle scorie di un linguaggio espropriato la parola nuova, per esprimere il non detto. La rivisitazione dei modelli convenzionali procede dal giallo al romanzo d’appendice, dal fotoromanzo al fumetto d’avventure: una serie di luoghi comuni destinati a sfiorare continuamente il ridicolo. Ma l’intenzionalità catalogatrice li accomuna, nell’ideologia che li fonda, per dirne altro; e il lessico tradizionale esaspera la propria convenzionalità sino a farla esplodere. Nel momento stesso in cui la struttura mostra il proprio ordito, il film si riscatta dalla banalità del modello referenziale, grazie agli scarti improvvisi, agli slittamenti quasi impercettibili che aprono paurosi squarci nel tessuto degli stereotipi spettacolari, moltiplicando le prospettive, depositandoci sull’orlo di un baratro di cui non scorgiamo la fine.
Questo baratro è la straordinaria ricchezza e complessità della Sirène: il suo rifiutarsi ad una logica speculare della rappresentazione per concedersi interamente agli effetti di una scrittura cinematografica che si riconosce, in prima istanza, come lavoro di segni su e con altri segni. La radicalizzazione di una domanda sulla scrittura già presente in La mariée e in Baisers volés, istituisce precisamente il film. La prima immagine della Sirène, dopo i titoli di testa, è una citazione de La Marseillaise di Jean Renoir: la sequenza dell’abbraccia che unisce la guardia nazionale e i rivoluzionari armati serve a darci numerose informazioni sull’isola della Réunion. Il senso di questa citazione non si esaurisce nella funzione di dedica (analoga alla sequenza d’apertura di Baci rubati): essa ha l’effetto di richiamare l’attenzione sul valore "produttivo" della scrittura, per cui un insieme di segni (il film di Renoir, o una sua parte), diviene mezzo di produzione di altri segni (di una parte di quell’insieme di segni che è La sirène), Un duplice movimento istituisce dunque il film in quanto testo; l’uno, puramente negativo, fa si che il film acceda ad un vuoto di senso, che è quanto resta della distruzione sistematica dei clichés messi in gioco (esibiti); l’altro, affidato all’esercizio delle connessioni impreviste, produce il film come tessuto di citazioni, referenze intertestuali, allusioni, che – costituendone la catena significante – ne determinano la polivalenza semantica.
Alberto Barbera, François Truffaut, Il Castoro Cinema, 1976

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
François Truffaut
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