Umberto D
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Regia: | De Sica Vittorio |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini; fotografia: Aldo Graziati; scenografia: Virgilio Marchi; montaggio: Eraldo Da Roma; musica: Alessandro Cicognini; interpreti: Carlo Battisti (Umberto Domenico Ferrari), Maria Pia Casilia (la servetta), Lina Gennari (la padrona della pensione); produzione: Giuseppe Amato per Rizzoli-De Sica-Amato; origine: Italia, 1951; durata: 89'. |
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Trama: | Umberto Domenico Ferrari è un vecchio statale in pensione. Partecipa a una manifestazione per l’aumento del miserevole assegno che la categoria percepisce. La polizia la disperde. Umberto D. è ormai alle strette per i debiti cui non sa come far fronte. Vende tutto quello che può, ma non riesce a placare la padrona della casa dove abita da venti anni. L’unico suo amico è un cagnetto bastardo, che lo segue ovunque e spesso (come alla mensa economica) lo mette nei guai. Tornato a casa, scopre con raccapriccio che la sua camera è stata momentaneamente ceduta a una coppietta. Si scontra per l’ennesima volta con la padrona, che ha deciso di sfrattarlo. Trova comprensione nella servetta, sola e indifesa come lui. Ha la febbre, si mette a letto non appena gli restituiscono la stanza. E proprio allora la servetta gli confida di essere incinta (di un militare che presta servizio nella caserma di fronte, ma lei ne frequenta due e non sa bene chi sia il padre). Umberto un poco si scandalizza e un poco si commuove. Ma ora deve pensare a se stesso, ai suoi debiti e alla tonsillite che lo affligge. Si alza per andare a vendere un vocabolario a un ambulante che ha una bancarella nelle vicinanze. Ne ricava qualche soldo, ma la padrona non accetta acconti. Torna a letto, la febbre sempre più alta. All’alba telefona all’ospedale per essere ricoverato. La servetta, svegliata dalla voce, si alza meccanicamente, come tutte le mattine, e, meccanicamente si accinge alle faccende di casa. Arrivano gli infermieri. Umberto raccomanda il cane alla ragazza e si fa condurre via. All’ospedale trova la maniera di restare più del necessario, per rimpannucciarsi un poco. Quando rientra, vede i muratori che rinnovano tutti i locali (la padrona sta per sposarsi) e si accorge che il cane è scomparso. Corre al canile comunale, lo cerca affannosamente ed ha la fortuna di ritrovarlo. Che altro gli rimane adesso? Per strada tenta, goffamente, di trasformarsi in accattone. È disperato. A casa, la sua camera è ormai tutta sottosopra. Per un attimo ha la tentazione di gettarsi dalla finestra. Al mattino raccoglie le sue poche cose, saluta la servetta, e se ne va. Ha preso la sua decisione. Prova a lasciare il suo Flik presso una pensione per cani ma gliene manca il coraggio. Con la bestiola stretta al petto, a un passaggio a livello, attende l’arrivo del treno. Nel momento in cui sta per buttarsi sotto le ruote, il cane si divincola e fugge. Umberto si riscuote. Insegue Flik, gioca con lui. |
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Critica (1): | Vittorio De Sica (Sora, 7 luglio 1901 – Parigi, 13 novembre 1974) usciva dalla controversa esperienza di Miracolo a Milano (1951), con cui aveva tentato di diluire l’amaro sentimentalismo della sua ricognizione della realtà quotidiana in un clima favolistico e surreale. Cesare Zavattini (1902), che gli aveva già fornito la materia per due puntuali “ricostruzioni” neorealistiche (Sciuscià e Ladri di biciclette), continuava a sollecitarlo in varie direzioni. Miracolo a Milano parve una divagazione, appunto, tutta zavattiniana: proveniva da un breve romanzo (Totò il buono) che raccontava le gesta d’una sorta di folletto deamicisiano alle prese con i trabocchetti della vita cittadina. Il sapore scanzonato di quelle avventure non riusciva a soffocare la vena di sottile perfidia (di scetticismo appena temperato da una bonaria vernice umanistica), che sembrava costituire il nucleo della personalità dello scrittore: quella che si era manifestata nella ambivalenza di pessimismo e di spietato umorismo in due “stravaganze” letterarie di tono divergente ma di eguale efficacia (I poveri sono matti del 1937 e Io sono il diavolo del 1942). De Sica accolse la “bontà” di Totò come un dato assoluto e ne fece il centro di un film che rappresentava l’ottimistica celebrazione dei sentimenti di solidarietà che legano gli uomini fra loro. Ma non bastò questo per cancellare la sotterranea ferocia della storia dei “barboni” perennemente in guerra l’uno con l’altro. Miracolo a Milano lasciò interdetta la critica neorealistica e non convinse il pubblico. De Sica e Zavattini tornarono all’antico.(...)
Mai De Sica aveva raccontato con tanta impassibile esattezza fatti così atroci. Umberto D. (poco più di un’ora e mezza di proiezione; la “prima” avviene il 20 gennaio 1952) ha il rigore di un resoconto clinico. Ai personaggi, e alla loro tragedia quotidiana (i fatti si accumulano insensibilmente gli uni sugli altri, l’ambiente è quanto di più banale si possa immaginare), va l’attenzione di un occhio che scruta con fredda metodicità. Quel che era implicito nella bizzarria favolistica di Miracolo a Milano qui diventa esplicito: la perfidia zavattiniana di poveri sono matti e di Io sono il diavolo perde il tenue alone di pietà che l’avvolgeva (ingannevolmente) e si traduce in crudele indifferenza. Tranne che in qualche punto, o dove è più violenta la tensione drammatica (l’attimo in cui Umberto sta per gettarsi dalla finestra) o dove affiora il “nonsenso” comico dello Zavattini più corrivo, Umberto D. si avvicina alla oggettività del nouveau roman. Non serve cercare un senso alla vita. Il pessimismo è una semplice constatazione, da accettare per tale. Il rigore del film – risultato unico nella carriera di De Sica – è tutto espresso nella durezza delle immagini e dei suoni (che la patetica musica del mediocre Cicognini contraddice ma non annulla). Il neorealismo desichiano smentisce le sue origini populistiche, e trova una dimensione che solo all’inizio degli anni sessanta avrebbe avuto spazio (a cominciare dalla Francia) nelle tematiche e nel linguaggio di un nuovo cinema.
Fernaldo Di Giammatteo, 100 film da salvare, Arnoldo Mondadori Editore, 1978 |
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Critica (2): | [...] Umberto D. può riuscire sgradevole a chi detesta di solito la crudeltà non giustificata delle passioni. Comunque, che sia crudele, non c'è dubbio. È problematico. E bello (nonostante qualche forzata polemica, come le scene dell'elemosina e della suora). Umberto D. non è, come si riteneva, il dramma del pensionato. È il dramma della solitudine. Più precisamente, il dramma della vecchiaia solitaria e povera. Che Umberto Domenico Ferrari sia un pensionato, è una condizione non necessaria. Non è neppure il caso di sostenere che i pensionati siano ridotti come lui. D'altra parte sarebbe molto sciocco, anche se squisitamente moderno, cercare l'universalità nella categoria. Umberto D. è un personaggio universale semplicemente perché è vecchio, è solo e può contare per vivere su diciottomila lire mensili. La sua storia è molto semplice. De Sica e Zavattini hanno sempre avuto la capacità rara di identificare e isolare i problemi dominanti del tempo che viviamo, riducendoli alla semplicità di una parabola. In questo caso, lo sforzo di ridurre la vicenda entro le linee essenziali è più palese che nel passato. Il vecchio pensionato resiste come può e finché può alle angherie del mondo a lui ostile: la padrona di casa, lo Stato, le autorità d'un ospedale, gli stessi compagni di sventura. La società per lui è un campo di eliminazione, una camera a gas, con l'aggravante dell'ipocrisia, una società civile tormentata da oscuri rimpianti di barbarie. E non accade quasi nulla, nel film: lenta azione, scarso intreccio, lievissima concatenazione di fatti. E che diavolo potrebbe mai accadere? C'è un vecchio che non si risolve a morire, c'è gente che aspetta che muoia. Si può discutere a parte se tutto questo corrisponda o no a una verità umana, sociale. Certo è che il costruire così il film è un atto di enorme coraggio; e il coraggio diventa stile. Questo impossibile scorrere delle immagini mi par bellissimo, un passo dopo l'altro, come Macbeth, fino all'ultima battuta del tempo assegnato. Al vecchio non rimane che uccidersi. Ma egli aveva un cane, era il suo unico, morboso amore, ragione di vita e di non vita. Anche senza il cane il personaggio sarebbe stato uguale. Non mi sembra: quell'amore è la cristallizzazione della solitudine, anzi della follia solitaria. Fatto sta che il problema del vecchio è sistemare il cane, non ci riesce, decide di portarlo con sè alla morte; ma il cane avverte il proposito, il suo istinto di conservazione lo fa guizzare tra le braccia del morituro mentre il treno si avvicina rombando: la bestiola addirittura si rivolta, rinnega l'essere amato. E allora accade il prodigio: per riconquistare il cane, il vecchio riacquista uno stato gioioso, infantile, che può essere speranza finalmente ritrovata. Li vediamo allontanarsi in un viale di giardino pubblico, il vecchio sgambettando, forse felice. In quel finale è forse la chiave del personaggio. Cioè l'avevamo visto sino a quel momento in una luce urtante: pedante, fastidioso, egoista (sebbene con mille ragioni per esserlo). Se è vero che la gente non era buona con lui, è anche vero che lui non faceva nulla per accattivarsi la bontà altrui. Era ferocemente attaccato alle sue piccole cose, era isterilito dalla povertà. E adesso, sul viale, butta all'aria tutto, dimentica cappello e valigia, se ne va chi sa dove, felice per questo, perché non sa dove. Per dirla in linguaggio evangelico, ha buttato la vita e l'ha ritrovata. Personaggio interessantissimo, estremamente complesso, come vedere, nonostante l'apparenza. E potete aggiungere l'interpretazione marxista dell'uomo declassata, dell'ex borghese, che non ha più rapporti sociali. O quella diversa dell'uomo che sconta una intera vita privata di generosità sentimentali, perciò è solo, perciò "non sa" che all'angolo di ogni strada esiste anche per lui un brandello di generosità. E questo significherebbe che il mondo così inverosimilmente cattivo rappresentato da De Sica non è obiettivamente cattivo, non soggettivamente. A proposito dimenticavo la serva. È il contrappunto al vecchio, una creatura istintiva, incosciente, brutalmente animale nella sua lievità, che vive nel perpetuo richiamo sessuale d'una caserma dirimpetto e che non ha altro problema che quello di vivere. Meravigliosa, asprigna creatura, fra le più felici del cinema italiano [...]
Vittorio Bonicelli, Il tempo, febbraio 1952 |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
| Vittorio De Sica |
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