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Brutti, sporchi e cattivi


Regia:Scola Ettore

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Ruggero Maccari, Ettore Scola, con la consulenza ai dialoghi di Sergio Citti; fotografia: Dario Di Palma; scenografia: Luciano Ricceri, Franco Velchi; costumi: Danda Ortona; musica: Armando Trovajoli; montaggio: Raimondo Crociani; interpreti: Nino Manfredi (Giacinto Mazzatella), Francesco Annibaldi (Domizio), Maria Bosco (Gaetana), Giselda Castrini (Lisetta), Alfredo D'Ippolito (Plinio), Giancarlo Fanelli (Paride), Marina Fasoli (Maria Libera), Ettore Garofalo (Camillo), Marco Marsili (Marco), Franco Merli (Fernando), Linda Moretti (Matilde), Luciano Pagliuca (Romolo), Giuseppe Paravati (Tato), Silvana Priori (la ragazza di Paride), Giovanni Rovini (nonna Antonecchia), Adriana Russo (Dora), Marisa Luisa Santella (Iside), Mario Santella (Adolfo), Francesco Crescimone (il commissario), Beryl Cunningham (la baraccata di colore), Zoe Incrocci (la madre di Tommasina), Ennio Antonelli, Marcello Battisti, Silvia Ferluga, Franco Marino, Marcella Michelangeli, Clarisse Monaco, Aristide Piersanti, Assunta Stacconi; produzione: Carlo Ponti per la Compagnia Cinematografica Champion, Roma; origine: Italia, 1976; durata: 116'.

Trama:Giacinto Mazzatella, immigrato pugliese, orbo e ubriacone, vive con la sua "tribù" (la moglie, una decina di figli e un mucchio di parenti) in una borgata romana. La sua principale preoccupazione è quella di difendere dall'avidità dei familiari il milione che gli è stato dato per la perdita dell'occhio. Per far dispetto alla moglie, si porta in casa una imponente prostituta obbligando la consorte a farle posto nel letto matrimoniale. Furente per l'affronto, la donna organizza, con tutta la famiglia, l'avvelenamento del vecchio con mezzo chilo di topicida mischiato col sugo di un'abbondante pastasciutta. Giacinto, però, riesce a salvarsi.

Critica (1):Ettore Scola è un regista dal nome non risonante, in rapporto ad altri suoi colleghi, ma che sarebbe un grosso errore non includere fra quelli che, oggi, nell'ambito dei nostro cinema danno segno di maggior vitalità I suoi film possono anche non persuadere del tutto, ma è un fatto che Scola ha delle idee e, sia pure in modo talvolta ambiguo, sfuggente, le fa diventare cinema: pensiamo a Riusciranno i nostri eroi..., Dramma della gelosia, La più bella serata della mia vita (uno dei suoi risultati più compatti), Trevico-Torino, C'eravamo tanto amati (sottovalutato dalla critica).
Anche Brutti, sporchi e cattivi testimonia nel suo autore l'esistenza di un uomo che ha delle cose da dire, e allo stesso tempo lascia incompiuta l'attesa. Questa pellicola è una specie di scommessa: riuscire a capovolgere certi schemi sul conto dei poveri. Sono loro ad essere brutti, sporchi e cattivi, una proposizione impopolare su due fronti, quello dell'umanesimo religioso-letterario, per il quale i poveri entrano diritti, e con le scarpe, nel regno dei cieli, e quello della ideologia populistica, per la quale i poveri sono sani e belli, e splendenti. Scola ce l'ha con i poveri, dunque? Non proprio.
Dal di fuori, quel che succede nel film ce li fa considerare con ribrezzo, i poveri, questi poveri della storia, almeno. Si tratta di una composita e numerosa famiglia di baraccati romani, che vive in una specie di accampamento tra altre decine di poveracci accampati su un terreno abbandonato, ed è capitanata da un vecchiaccio ingordo e balordo il quale, avendo riscosso un milione dall'assicurazione per la perdita di un occhio, passa la giornata (e la nottata) a difendere il suo gruzzolo dagli avidi assalti dei suoi congiunti. L'odio più animalesco divide i membri della bella famiglia, tanto che moglie e figli e cognati, tutti d'accordo, decideranno ad un certo momento di sbarazzarsi del tiranno e gli metteranno del veleno nei maccheroni, veleno al quale, come Rasputin, il vecchiaccio si dimostrerà refrattario, per cui continuerà a insultare e a maltrattare i suoi, con i soldi sempre ben stretti e il fucile a portata di mano.
Una storia così o la racconti in tono realistico - naturalistico, o la prendi sottogamba. Scola ha scelto una terza via, quella del grottesco. Cioè quella che attraverso una rappresentazione giuliva delle sconcezze porta ad una riflessione seriosa sulla tragicità di certe condizioni di vita e magari ad una riflessione sulle cause dei fenomeni ritratti. E allora eccolo premere il pedale dell'esagerazione, esasperare i toni, spingere personaggi e avvenimenti nel limbo dell'assurdo, entrando appunto nell'orbita della deformazione grottesca. Si arriva però, per questa via, se sotto non c'è un solido traliccio strutturale-morale, alla corte dei miracoli, vista con una specie, in definitiva, di compiacimento; cioè si arriva alla letteratura, alla contemplazione. Il che è il contrario del risentimento etico. In questo universo monotono, dove gli unici personaggi sono fornicatori animaleschi, prostitute, scippatori, travestiti, ladri, ruffiani, persino i cani non hanno tutte le loro gambe e persino il paesaggio si disfa. Sottoproletariato? No, Semmai una "commedia degli straccioni", capitanata da un Nino Manfredi benissimo truccato da vecchio orbo cencioso, ma che "recita" in modo addirittura urtante.
L'ambiguità è qui, tra la smorfia determinata dallo sdegno e il ghigno cinico. Le intenzioni si indovinano, e non sono quelle di far ridere. Ma vengono fuori faticosamente e, direi episodicamente, a tratti, come vien fuori il surrealismo di certe situazioni dal realismo dell'impianto.
Anzitutto la sequenza dei ragazzini del sito che, da mattina a sera, vengono rinchiusi in un pollaio, una grande gabbia con tanto di lucchetto, dove possono restare al riparo dai pericoli degli adulti (e qui parole e suoni sono aboliti, si incarica la musica di indicarci la situazione da "terzo mondo", come farà poi per l'"invasione" degli immigrati calabresi, equiparati nel sonoro ai negri o agli indios). Poi la presenza della ragazzina che, andando a prendere l'acqua alla fontanella quando albeggia e tutti ancora dormono, apre e chiude il film, solo che nel finale è incinta (l'ultima immagine, agghiacciante - è ancora una bambina, quella che vediamo inarcarsi sulle reni per bilanciare il peso della pancia - viene "congelata"). Poi l'incontro del protagonista con il donnone che si porta in casa, avvenuto dietro un cartellone pubblicitario che si erge su una Roma lontana e indifferente, un incontro di poveracci che sotto lo squallore della situazione lascia indovinare il bisogno di una solidarietà e di un sentimento autentico.
Insomma il film è il tentativo, riuscito solo in alcune parti staccate, di smitizzare la figura del povero com'è idealizzato da tante retorica, e anche dalle generose utopie, arrivando alla condanna delle situazioni socioeconomiche che costringono certa gente ad essere com'è, cioè ad essere sprovveduta di ogni dignità ed espressione di una bestialità sub-umana. Ma Accattone è lontano, anche se il riferimento pasoliniano non è del tutto fuori posto visto che consulente nel doppiaggio dei dialoghi in dialetto romanesco è Sergio Citti.
Ermanno Comuzio, Cineforum n. 159, novembre 1976

Critica (2):Scherzare sulla miseria, si dice, è roba di cattivo gusto. Perciò il film di Ettore Scola, fin dalla sua presentazione al Festival di Cannes (dove ha ottenuto il premio per la regia), è stato accolto con un certo sospetto dalla nostra critica. Ma la storia della commedia italiana (che è altra cosa dalla commedia "all'italiana") contempla la fame fra le molle più frequenti dell'intrigo; e un gran piatto di maccheroni fumanti è ha meta agognata di molti eroi del teatro di Eduardo. Per non parlare del neorealismo cinematografico, dove campeggia un film come Miracolo a Milano che fonde gli stracci e l'umorismo. Alla lezione di De Sica si rifà Scola, mettendo in scena una comunità di baraccari di quella cintura dove Roma si trasforma "da capitale a periferia" (secondo il titolo di un bel libro del sociologo Ferrarotti). Il patriarca Nino Manfredi si gode il suo potere assoluto al centro della tribù, ma deve sventare le continue insidie di chi lo ammazzerebbe per strappargli il denaro che tiene nascosto. A onta del trucco ripugnante e delle connotazioni subumane che conferisce al personaggio, Manfredi è simpaticissimo; e la gran farsa che gli si muove intorno ha il ritmo, la fantasia e la spietatezza di una rinnovata Via del tabacco. Anche qui si ride forte, ma di un riso sempre più amaro; e alla fine ciò che rimane più impresso è lo sguardo dei bambini (un altro tocco alla De Sica) che si traduce in una muta e quasi ignara protesta.
Tullio Kezich, Il Corriere della Sera

Critica (3):Scomodo Pasolini, che sarebbe morto di lì a poco, ucciso nei luoghi dove si tenta di avvelenare Giacinto, e scomodo Scola che con Brutti, sporchi e cattivi disorienta critica e pubblico, pur guadagnando il premio per la regia al Festival di Cannes. Il regista di Accattone avrebbe voluto un finale ancora più amaro, convinto che «gli abitanti delle baracche erano, essi stessi, responsabili della loro evoluzione, essendosi voluti far colonizzare e distruggere». Scola ritiene che non ve ne sia bisogno, essendo di per sé già eloquente l'impietosa descrizione di luoghi, personaggi e situazioni. Ignoranti e avidi, i borgatari del film testimoniano abbondantemente che la povertà non è più una virtù (chissà se lo è mai stata) e neppure una condizione per dividere valori e giudizi.
I conti con il populismo del neorealismo sono presto fatti nell'epoca delle omologazioni mediologiche e non consentono di trarre alcun positivo bilancio. Tutto è monetizzato e monetizzabile sul filo di un istinto di sopravvivenza che ha del tribale, dell'animalesco. Senza identità, i «brutti, sporchi e cattivi» del film, confinati ai margini del cosiddetto «vivere civile», incarnano come possono lo «spirito del tempo». La loro "mostruosità" è indubbia ma le ragioni per cui sono pronti a scannarsi sono del tutto simili a quelle che scatenano gli appetiti della «società civile», con la differenza che qui, almeno, non ci sono paraventi ideologici o alibi sociali. Essi stessi non sono più il paravento o l'alibi di nessuna coscienza. Chi si era illuso di trovarli «belli, puliti e buoni», con le carte in regola per accedere alle vie del Signore, o del Socialismo, ha ampia materia per ricredersi e per capire che le contraddizioni di una società moderna sono ben più complesse e intricate della «lotta di classe» studiata sui classici dell'altro secolo.
Su questa strada, inevitabili le contestazioni «Scola non si rende conto – osserva Morando Morandini – che non basta ribaltare meccanicamente i modi del populismo per uscire dal populismo, perché, come spesso succede, gli estremi si toccano» («II Giorno», 22 gennaio 1976). «Una storia così o la racconti in tono realistico-naturalistico, o la prendi sottogamba – gli fa eco Ermanno Comuzio – Scola ha scelto una terza via, quella del grottesco. (...) Per questa via, se sotto non c'è un solido traliccio strutturale-morale, si arriva però alla corte dei miracoli, vista con una specie, in definitiva, di compiacimento; cioè si arriva alla letteratura, alla contemplazione. Il che è il contrario del risentimento etico. In questo universo monotono, dove gli unici personaggi sono fornicatori animaleschi, prostitute, scippatori, travestiti, ladri, ruffiani, persino i cani non hanno tutte le loro gambe e persino il paesaggio si disfa. Sottoproletariato? No. Semmai una "commedia degli straccioni"» («Cineforum», n. 159, novembre 1976). Soluzioni (il grottesco) che altrove potrebbero divenire pregi, sono qui censurate in nome di un «risentimento etico» che, altrove, non è affatto richiesto. A Scola viene da più parti rimproverata la volgarità con cui è resa la... volgarità, quasi che nel film il suo uso non fosse quanto mai funzionale alla connotazione d'ambiente. Fra tanti risentiti (re)censori, qualche voce a favore. Alberto Moravia, ad esempio, che fotografa con esattezza la "filosofia" del film: «C'è stato quello che Pier Paolo Pasolini chiamava il cambiamento antropologico del consumismo; e che noi, più modestamente, definiremmo la scomparsa dei tempi migliori» («L'Espresso», 10 novembre 1975).
Le delusioni sono sempre amarissime per chi si era illuso. Per questo in Brutti, sporchi e cattivi – a differenza del Dodes'ka-den di Kurosawa o del buñueliano Los olvidados, analogamente ambientati nella suburbia del sottoproletariato – non c'è posto per la pietà, i sentimenti, il sogno. «In questa sinfonia dell'orrore tutto è oltranza, brutalità, esasperazione. Non c'è sfumatura, ambiguità, mistero. Qualcuno ha avanzato il sospetto che dietro la crudeltà e il sarcasmo si nasconde una fondamentale insincerità. Una cosa è certa: Brutti, sporchi e cattivi è uno di quei film che forza l'adesione o il rifiuto» (Aldo Tassone, Parla il cinema italiano, op. cit.). Vero è piuttosto che ad una materia così profondamente pasoliniana manca la capacità di cogliere la poeticità del dramma. Tutto è reso immediatamente esplicito e sopra le righe. Ma proprio il paragone con l'ultimo Pasolini (le polemiche sull'oltranzismo di un film come Salò o le 120 giornate di Sodoma) dovrebbe indurre a riflettere. Non è soltanto questione di sensibilità culturale o di qualità stilistico-espressive: sono i tempi di Accattone ad essere improponibili prima ancora che il film. Pochi si sono ad esempio interrogati, aldilà degli unanimi riconoscimenti sull'interpretazione di Nino Manfredi nel ruolo di Giacinto Mazzatella. Perché proprio il più semplice e meno ambiguo dei tre o quattro mostri sacri della commedia in un ruolo così spregevole e sudicio? Esattamente perché è la sua immediata fisicità popolaresca, da «eroe positivo», ad entrare immediatamente in crisi. Nulla del genere sarebbe successo con Gassman, Tognazzi o Sordi, tutti – per una ragione o per l'altra – campioni di ambiguità. E neppure Mastroianni, la cui "tristezza" drammatica sarebbe parsa quasi una scusante. Se Manfredi è un perfetto borgataro, avido e vendicativo, ubriacone e manesco, persino incestuoso, è perché sa mantenere il "vitalismo" popolaresco nella cifra degradata che gli viene richiesta. Una "maschera" destinata a divenire memorabile, piegando le tradizionali virtù dell'interprete (la bonomia, il buon senso, la pazienza – le virtù dell'Antonio di C'eravamo tanto amati) ai "vizi" del personaggio. Il contrasto che ne deriva è sicuramente grottesco, ma di un grottesco sempre molto "umanistico", quasi mai offensivo.
Quanto a Scola, accusato ancora una volta di fare del razzismo antipopolare, di fornire della degradazione borgatara una visione di fondo compiaciouta, preferisce accostarsi ai classici del "paradosso" sociale: «Quando Swift fa la "modesta" proposta di cucinare i bambini poveri perché non sono che un peso alle famiglie e comunque sarebbero destinati a crescere male, quindi è meglio mangiarseli, e fornisce una serie di ricette tremende, fa un discorso assai spietato ma di estrema tenerezza perché chiaramente si cruccia per la povertà dei bimbi irlandesi lasciati nell'indigenza, nella fame, nelle malattie. E allora? Diciamo che la mia tecnica – senza volermi minimamente paragonare a Swift, sia chiaro – è stata un po' di quel tipo» (in Franca Faldini & Goffredo Fofi, Il cinema italiano d'oggi 1970-1984, op. cit.). Ovvio che questa "tenerezza", pur tirando in ballo le cause sociali, non possa sfociare nella difesa d'ufficio: tanti, troppi film sui "poveri" se la sono cavata risolvendosi nel più scontato "j'accuse" e sublimando, magari melodrammaticamente, i sensi di colpa. Con le sue indubbie forzature ed esagerazioni, il film di Scola si tiene a debita distanza da tutto ciò; preferisce "dividere" le opinioni piuttosto che unirle in nome di un farisaico e rassicurante "impegno" di pura facciata. Torna in mente una frase di Bazin, del '43, citata da Truffaut nella prefazione a Il cinema della crudeltà (Il Formichiere, Milano, 1979): «Che non ci si venga a dire che il film deve essere buono per tutti i gusti, quando siamo ancora molto al di sotto del gusto. La verità, al contrario, è che la crisi del cinema è molto meno di ordine estetico che intellettuale. Ciò di cui soffre essenzialmente la produzione è la stupidità, una stupidità così macroscopica che le discussioni sull'estetismo vengono relegate in secondo piano». Pur non essendo né Stroheim né Bunuel (o Hitchcock, o Kurosawa), lo Scola di Brutti, sporchi e cattivi sfida i gusti narrando di una realtà sociale al di sotto del gusto. In ciò la sua lucida «crudeltà», dietro la quale si cela il rigore di un moralista che ha perso la voglia di «fare la morale». (…)
Roberto Ellero, Ettore Scola, Il Castoro cinema, 1995

Critica (4):
Ettore Scola
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