Tramonto - Napszállta/Sunset
| | | | | | |
Regia: | Nemes László |
|
Cast e credits: |
Soggetto: László Nemes, Matthieu Taponier; sceneggiatura: László Nemes, Matthieu Taponier; fotografia: Mátyás Erdély; musiche: László Melis; montaggio: Matthieu Taponier; scenografia: László Rajk; costumi: Györgyi Szakács; effetti: Gabor Kiszelly, Multifilm Special Effects Ltd.; suono: Tamas Zanyi; interpreti: Juli Jakab (Írisz Leiter), Vlad Ivanov (Oszkár Brill), Susanne Wuest (la Principessa), Björn Freiberg (uomo in bianco), Levente Molnár (Gaspar), Móni Balsai (Signora Müller), Urs Rechn (Ismael), Judit Bárdos (Szeréna), Evelin Dobos (Zelma), János Kulka (Leopold), Sándor Zsótér (Dottor Herz), Dusán Vitanovics (Balkó), Christian Harting (Otto von König), Mihály Kormos (il custode), Levente Orbán (cocchiere gigante), Zsolt Végh (poliziotto), Péter Fancsikai (Robert), Marcin Czarnik (Sándor); produzione: Laokoon Filmgroup, Playtime Production, Hungarian National Film Fund, Cooproduttore François Yon; distribuzione: ; origine: Ungheria-Francia, 2018; durata: 142’. |
|
Trama: | 1913, Budapest, nel cuore dell'Europa. Il giovane Irisz Leiter arriva nella capitale ungherese con grandi speranze di lavorare come modista nel leggendario negozio di cappelli appartenuto ai suoi defunti genitori, ma viene rifiutata dal nuovo proprietario, Oszkár Brill. Non volendo lasciare la città, la giovane segue le orme di Kálmán Leiter, il suo unico legame con un passato perduto. La sua ricerca la porta attraverso le strade buie di Budapest, dove brilla solo il negozio di cappelli di Leiter, nel tumulto di una civiltà alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra mondiale. |
|
Critica (1): | Lei disegna cappelli, e cerca risposte. Quali? Non importa. Perché non è semplicemente la protagonista di una storia, un'enigma da risolvere, una narrazione lineare con detection e morale. Lei è soprattutto uno sguardo (quello del cinema) che attraversa un'epoca: il suo tempo,certo, il suo spazio, ma anche la sua oscura verità, l'invisibile del suo significato e del suo destino. È l'incarnazione di una metafora, il corpo che ci consente di attraversare un intreccio fatale di luce e buio, vecchio e nuovo, status quo e ribellione anti-sociale. Irisz Leiter (Juli Jacab) si aggira per la Budapest del 1913 cercando di farsi assumere da una cappelleria d'alta moda che un tempo apparteneva alla sua famiglia (i genitori sono morti quando aveva solo due anni). Un edificio labirintico, che si apre su un negozio luminoso, ma è percorso da lunghe scale e corridoi bui, da laboratori piene di gente indaffarata e stanze vuote semi-abbandonate. C'è perfino la camera segreta, in cui un tempo passò la regina Sissi.
Qui si svolge il dramma, che parte dalla scoperta di un misterioso fratello, di cui la gente non osa nemmeno parlare, e di un efferato omicidio. Qui in teoria dovrebbe rimanere Irisz, ora che ha osato "tornare a casa". Ma lei fugge ogni volta verso il fuoricampo, e porta con sé l'occhio del cinema che è ancorato al suo, in un soffocante camera a mano, spesso in piano sequenza, dentro scene che sono formidabili esercizi di montaggio interno all'inquadratura. Lei è il centro attorno al quale ruota un mondo brulicante di cose e persone, che attraversano la scena o rimangono sullo sfondo fuori fuoco, che appaiono e scompaiono all'improvviso, che rimangono legati all'immagine-campo pur rimanendone fuori, o stanno dentro la scena con il loro vociare indistinto, col rumore, ma anche con la loro assenza. Difficile capire cosa accade davvero, se non per sprazzi, rivelazioni, esseri che escono dall'ombra per illuminare con la loro oscurità la finta luce dell'aristocrazia ottocentesca. Il problema è capire cosa si nasconde in quel buio, l'inconscio della storia. L'orrore della guerra mondiale si avvicina. Chi è quell'uomo che guida un manipolo di violenti ed è pronto a scatenare l'inferno? Perché qualcuno dice a Irisz «Ci hai risvegliato»? Cosa accade alle ragazze che "vincono" un viaggio alla corte di Vienna? Irisz è insieme testimone e causa scatenante degli eventi, è il passato che riemerge, con le sue ombre, e il futuro da scrivere.
n Il figlio di Saul lo stile di Làszlò Nemes era al servizio di un'idea forte, un'esperienza (dis) umana devastante, il fuori fuoco apparteneva alla coscienza del protagonista, ci rendeva partecipi del suo modo di abitare l'orrore, dentro un luogo reale. Qui invece quella implacabile semi-soggettiva è al servizio di un'immersione quasi astratta, di un attraversamento simbolico, in cui i controcampi a specchio finiscono per esaltarne la claustrofobia; invece di ancorarti a un luogo, ti fa scivolare dentro una dimensione intangibile, quasi onirica, che però è fisica, si sente addosso, scatena sensazioni tumultuose, produce il senso di uno spaesamento totale e di un orrore sommerso pronto a rivelarsi. Da qui il disagio, se non il fastidio, vissuto da tanti spettatori di fronte a questo film, inteso da qualcuno come uno sterile esercizio di maniera, quando in realtà è l'esatto opposto. Perché lo stile-sguardo di Nemes, qui particolarmente ambizioso, sembra cercare (e trovare!) qualcosa che sta sul margine dell'immagine (e oltre), che ha a che vedere con la crisi novecentesca della soggettività e con la nascita della modernità (e del cinema!), la fine dell'impero, della nobiltà corrotta, della sua narrazione fatta di mitiche imperatrici e cappelli sontuosi, e l'inizio di un'Europa costruita sulle macerie, con la sua tenebra inquietante, pronta a riemergere se evocata.
Troppo ermetico questo cinema? Può darsi. Ma a suo modo indispensabile, per ciò che osa e per come lo fa. Difficile immaginare un pubblico per questo film? Fortunatamente esiste anche un cinema che "ci supera".
Fabrizio Tassi, Cineforum n. 577, 9/2018
Il suo secondo film l’ungherese László Nemes l’ha girato come il primo, Il figlio di Saul: pellicola 35mm, camera a mano incollata al personaggio principale, piani sequenza elaborati, confluenza nell’inquadratura di un fuoricampo brulicante di voci, rumori, persone, movimenti. Una forma che è già maniera, ma che concettualizza la Storia e il suo divenire circolare e profetico.
Oggi il cinema politico ha due strade possibili: sviscerare la parola dei documenti e scorgere i conflitti nella battaglia delle idee, come in Peterloo, o interpretare i processi storici come spazi narrativi, messinscene di una forza oscura e ingovernabile. Come fa Sunset, che è ambientato a Budapest all’inizio degli anni ’10, nell’Impero austroungarico splendente e decadente, crogiolo di lingue e tensioni sociali, e rappresenta in chiave formale l’inevitabile, irresistibile avvicinamento alla Guerra mondiale, che porrà fine a quel mondo e darà il via al Novecento.
È un horror, come è fin troppo facile annotare, e prima ancora un racconto sulla ciclicità del male costruito con un meccanismo a McGuffin: c’è una protagonista – Irisz, una giovane ragazza che torna a Budapest per lavorare nella cappelleria un tempo proprietà dei suoi genitori, morti nell’incendio del loro negozio – e uno spazio, la cappelleria stessa, che fanno da centro fisico e narrativo del film. La traccia narrativa è segnata dall’inchiesta della ragazza e dal mistero celato dalle mura della cappelleria (c’entrano un fratello di cui s’ignorava l’esistenza, un omicidio efferato commesso dal ragazzo anni prima, una lotta in clandestinità che minaccia la nobiltà di Budapest e la stessa famiglia imperiale, cliente della cappelleria…), ma il racconto si dipana come una continua fuga verso l’esterno, verso il fuoricampo nel quale la protagonista s’immerge – filmata in primissimo piano o di spalle – o dal quale viene aggredita, richiamata, sorpresa da voci, uomini, cavalli, esplosioni, assalti.
Mano a mano che Irisz si muove sfuggendo al continuo richiamo della cappelleria (delle colleghe che la rimproverano di non lavorare, dell’ambiguo responsabile che dopo aver provato ad allontanarla la vuole al suo fianco) la tensione narrativa del film e quella sociale del mondo rappresentato salgono, si avvicinano alla rivelazione, si preparano alla rivoluzione. Irisz è testimone del cambiamento e causa scatenante degli eventi; in una città di sconosciuti, tutti la riconoscono, tutti sanno tutto di lei, tutti la vogliono, guardano, giudicano. Il fuoricampo entra nel suo campo fisico e visivo non per soverchiarla ma per restituirle un’immagine che lei non sa di avere: Irisz è una forza oscura che viene dal passato, è il presagio manipolatore del futuro, è l’energia incontrollata del presente.
Lo stile ossessivo e asfissiante di Nemes trova qui una soluzione che mancava al Figlio di Saul: il controcampo, la totalità circolare del piano che traduce visivamente la circolarità del racconto, con gli eventi che si ripetono e l’origine familiare di Irisz che s’impone come un male inestirpabile. Il viaggio di Irisz è spezzato da continui stacchi di montaggio; le sue azioni ripetitive non portano a nulla, costringono a un incessante ritorno alla cappelleria e a una ripartenza della ricerca; lo spazio della fiorente Budapest, nella piazza dove sorge la cappelleria, è chiuso da una quinta di palazzi bruciati e diroccati, come un palcoscenico dove ogni cosa è a portata di mano e da tempo sono presenti i segni della caduta.
In Sunset gli elementi del racconto sono pesantemente simbolizzati – i cappelli, i vestiti, le acconciature – ma tutto confluisce narrativamente e figurativamente nello spazio oscuro da cui Irisz si muove e da cui si genera il suo movimento senza sosta. E i simboli diventano tasselli di un mosaico con una trama precisa e inevitabile da racconto classico. «Tergiversi», dice a un certo punto a Irisz uno dei membri delle forze cospiratrici guidate dal fratello. «Cerchi qualcosa di cui sei responsabile». Irisz gira a vuoto, fallisce ogni azione, ma nonostante ciò il mistero procede verso il proprio svelamento. Come se tutti i protagonisti della storia del primo Novecento, che un tempo chiamavano belle époque, fossero in realtà sonnambuli (da una splendida espressione coniata dallo storico Christopher Clark) artefici della propria tragedia.
Attorno al campo visivo della protagonista l’impero decade, la corruzione morbosa dei suoi uomini sfregia e violenta, le forze antisociali, dalla plebe alla borghesia alla nobiltà rivale della corona, preparano la rivoluzione: ma il mondo, quel mondo, non crollerà per uno scontro di due forze antistanti. C’è un terzo elemento nel doppio sogno asburgico chiaramente ispirato a Schnitzler: il vuoto, il centro sempre eluso, il McGuffin finalmente svelato, del quale Irisz è espressione emblematica e indefinibile, anche sessualmente. E quel vuoto è la guerra, la fine e l’origine del male, la femmina e il maschio, la vittima e il carnefice. Il campo e controcampo. Come nel Signore del male di Carpenter, da una parte e dall’altra dello specchio.
La circolarità della Storia è la circolarità della forma, così compressa, tesa, ossessiva da inglobare la sua stessa ridondanza. Nemes sdoppia la sua protagonista; con un raccordo sul suo sguardo ne fa la spettatrice delle sue stesse azioni; con la forza rivelatrice del montaggio spezza il realismo estremo della messinscena e con i suoi movimenti di macchina complessi e orchestrati costruisce l'ultima sinfonia di un’epoca che proprio per la sua riconoscibilità replica strutture eterne.
Il buio s’avvicina, la luce bianca che solo la pellicola sa restituire come materia ne è il presagio.
Roberto Manassero, cineforum.it, 10/9/2018 |
|
Critica (2): | Il suo secondo film l’ungherese László Nemes l’ha girato come il primo, Il figlio di Saul: pellicola 35mm, camera a mano incollata al personaggio principale, piani sequenza elaborati, confluenza nell’inquadratura di un fuoricampo brulicante di voci, rumori, persone, movimenti. Una forma che è già maniera, ma che concettualizza la Storia e il suo divenire circolare e profetico.
Oggi il cinema politico ha due strade possibili: sviscerare la parola dei documenti e scorgere i conflitti nella battaglia delle idee, come in Peterloo, o interpretare i processi storici come spazi narrativi, messinscene di una forza oscura e ingovernabile. Come fa Sunset, che è ambientato a Budapest all’inizio degli anni ’10, nell’Impero austroungarico splendente e decadente, crogiolo di lingue e tensioni sociali, e rappresenta in chiave formale l’inevitabile, irresistibile avvicinamento alla Guerra mondiale, che porrà fine a quel mondo e darà il via al Novecento.
È un horror, come è fin troppo facile annotare, e prima ancora un racconto sulla ciclicità del male costruito con un meccanismo a McGuffin: c’è una protagonista – Irisz, una giovane ragazza che torna a Budapest per lavorare nella cappelleria un tempo proprietà dei suoi genitori, morti nell’incendio del loro negozio – e uno spazio, la cappelleria stessa, che fanno da centro fisico e narrativo del film. La traccia narrativa è segnata dall’inchiesta della ragazza e dal mistero celato dalle mura della cappelleria (c’entrano un fratello di cui s’ignorava l’esistenza, un omicidio efferato commesso dal ragazzo anni prima, una lotta in clandestinità che minaccia la nobiltà di Budapest e la stessa famiglia imperiale, cliente della cappelleria…), ma il racconto si dipana come una continua fuga verso l’esterno, verso il fuoricampo nel quale la protagonista s’immerge – filmata in primissimo piano o di spalle – o dal quale viene aggredita, richiamata, sorpresa da voci, uomini, cavalli, esplosioni, assalti.
Mano a mano che Irisz si muove sfuggendo al continuo richiamo della cappelleria (delle colleghe che la rimproverano di non lavorare, dell’ambiguo responsabile che dopo aver provato ad allontanarla la vuole al suo fianco) la tensione narrativa del film e quella sociale del mondo rappresentato salgono, si avvicinano alla rivelazione, si preparano alla rivoluzione. Irisz è testimone del cambiamento e causa scatenante degli eventi; in una città di sconosciuti, tutti la riconoscono, tutti sanno tutto di lei, tutti la vogliono, guardano, giudicano. Il fuoricampo entra nel suo campo fisico e visivo non per soverchiarla ma per restituirle un’immagine che lei non sa di avere: Irisz è una forza oscura che viene dal passato, è il presagio manipolatore del futuro, è l’energia incontrollata del presente.
Lo stile ossessivo e asfissiante di Nemes trova qui una soluzione che mancava al Figlio di Saul: il controcampo, la totalità circolare del piano che traduce visivamente la circolarità del racconto, con gli eventi che si ripetono e l’origine familiare di Irisz che s’impone come un male inestirpabile. Il viaggio di Irisz è spezzato da continui stacchi di montaggio; le sue azioni ripetitive non portano a nulla, costringono a un incessante ritorno alla cappelleria e a una ripartenza della ricerca; lo spazio della fiorente Budapest, nella piazza dove sorge la cappelleria, è chiuso da una quinta di palazzi bruciati e diroccati, come un palcoscenico dove ogni cosa è a portata di mano e da tempo sono presenti i segni della caduta.
In Sunset gli elementi del racconto sono pesantemente simbolizzati – i cappelli, i vestiti, le acconciature – ma tutto confluisce narrativamente e figurativamente nello spazio oscuro da cui Irisz si muove e da cui si genera il suo movimento senza sosta. E i simboli diventano tasselli di un mosaico con una trama precisa e inevitabile da racconto classico. «Tergiversi», dice a un certo punto a Irisz uno dei membri delle forze cospiratrici guidate dal fratello. «Cerchi qualcosa di cui sei responsabile». Irisz gira a vuoto, fallisce ogni azione, ma nonostante ciò il mistero procede verso il proprio svelamento. Come se tutti i protagonisti della storia del primo Novecento, che un tempo chiamavano belle époque, fossero in realtà sonnambuli (da una splendida espressione coniata dallo storico Christopher Clark) artefici della propria tragedia.
Attorno al campo visivo della protagonista l’impero decade, la corruzione morbosa dei suoi uomini sfregia e violenta, le forze antisociali, dalla plebe alla borghesia alla nobiltà rivale della corona, preparano la rivoluzione: ma il mondo, quel mondo, non crollerà per uno scontro di due forze antistanti. C’è un terzo elemento nel doppio sogno asburgico chiaramente ispirato a Schnitzler: il vuoto, il centro sempre eluso, il McGuffin finalmente svelato, del quale Irisz è espressione emblematica e indefinibile, anche sessualmente. E quel vuoto è la guerra, la fine e l’origine del male, la femmina e il maschio, la vittima e il carnefice. Il campo e controcampo. Come nel Signore del male di Carpenter, da una parte e dall’altra dello specchio.
La circolarità della Storia è la circolarità della forma, così compressa, tesa, ossessiva da inglobare la sua stessa ridondanza. Nemes sdoppia la sua protagonista; con un raccordo sul suo sguardo ne fa la spettatrice delle sue stesse azioni; con la forza rivelatrice del montaggio spezza il realismo estremo della messinscena e con i suoi movimenti di macchina complessi e orchestrati costruisce l'ultima sinfonia di un’epoca che proprio per la sua riconoscibilità replica strutture eterne.
Il buio s’avvicina, la luce bianca che solo la pellicola sa restituire come materia ne è il presagio.
Roberto Manassero, cineforum.it, 10/9/2018 |
|
Critica (3): | |
|
Critica (4): | |
| |
| |
|