Grande illusione (La) - Grande Illusion (La)
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Regia: | Renoir Jean |
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Cast e credits: |
Soggetto: Charles Spaak e Jean Renoir; sceneggiatura: Charles Spaak e Jean Renoir; fotografia: Christian Matras; scenografia: Eugène Lauriè; musica: Joseph Kosma (e canzone di Vincent Telly e A. Valsien); interpreti: Erich Von Stroheim (Von Rauffenstein), Jean Gabin (Marèchal), Pierre Resnay (de Boildieu), Marcel Dalio (Rosenthal), Julien Carette (l'attore), Gaston Modot (l'ingegnere), Jean Dastè (l'insegnate) Georges Peclet (un soldato francese), Jacques Becker (un ufficiale inglese), Sylvian Itkine (Demolder), Dita Parlo (Elsa, la contadina), Werner Florian, Claude Sainval, Michel Salina; produzione: R.A.C. (Rèalisation d'Art Cinèmatographique), Frank Rollmer, Albert Pinkovich.; distribuzione: Cineteca di Bologna; anno: 1937; durata: 100'; |
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Trama: | Nel 1917, durante la penultima guerra mondiale, alcuni ufficiali francesi prigionieri sono chiusi in un campo di concentramento tedesco. La loro principale occupazione e preoccupazione è preparare la fuga. Ma quando il lavoro è a buon punto, vengono trasferiti in un altro campo. Questa disavventura capita loro più volte, finchè il comando tedesco, con l'intento di rendere impossibile ogni velleità di fuga, li trasferisce in un vecchio castello, trasformato in fortezza. Comandante della fortezza è un maggiore, ufficiale di carriera, di nobile famiglia, che ha sul corpo i segni di gravi ferite. Egli disprezza i prigionieri di bassa origine e serba le sue simpatie per un capitano di stato maggiore francese, nobile anch'esso. Il capitano, con grande generosità, organizza un tentativo di fuga a favore di due colleghi; per renderne possibile l'attuazione sacrifica la sua vita. I due riescono a fuggire verso il confine svizzero e, esausti dalla fatica, vengono ospitati da una giovane contadina tedesca, vedova di guerra. Tra l'ospite ed uno dei due ufficiali fiorisce un idillio, che però è di breve durata perchè i due devono proseguire il loro viaggio e a stento riescono a passare il confine. |
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Critica (1): | Nel 1973 esce La grande illusione, uno dei film più conosciuti e apprezzati di Renoir, perché portatore - almeno in apparenza - di un messaggio immediatamente e universalmente fruibile: quello dell'antimilitarismo. Proiettato alla Mostra di Venezia, fu al centro di uno scandalo. Il regime fascista - sia che lo trovasse troppo antimilitarista, sia che sopravvalutasse lo spirito nazionalistico e antitedesco che sostiene la trama - fece pressioni sulla giuria perché non gli assegnasse il Leone d'oro, massimo premio della rassegna (che andò a Carnet de bal, crepuscolare film a episodi di Julien Duvivier). Ma l'antimilitarismo e il nazionalismo (questo Marèchal-Jean Gabin che non pensa ad altro che a fuggire per tornare a combattere contro i tedeschi o per la patria, se si preferisce), due sentimenti tra l'altro in contrasto fra loro, sono soltanto la superficie di un ben più articolato nodo drammatico che affonda le radici in un diverso terreno. Gli avvenimenti del film sono solo un pretesto: Marèchal e De Boieldieu, due ufficiali dell'aviazione francese della prima guerra mondiale (di origini borghesi il primo, nobile il secondo) sono abbattuti da un famoso aviatore tedesco, il barone von Rauffenstein, e fatti prigionieri. Prima che essi siano trasferiti al campo di prigionia, il tedesco, con un gesto di inconsueta cavalleria, li vuol salutare e li trattiene a cena. Giunti al campo i due fraternizzano con gli altri prigionieri, che spronati dall'indomabile Marèchal, preparano un'evasione. Scoppia intanto (anzi si accentua) tra Marèchal e de Boieldieu una incomprensione motivata dalla loro diversa origine sociale. Improvvisamente, alla vigilia del giorno in cui dovrebbero fuggire dal campo attraverso una galleria pazientemente scavata per mesi, i prigionieri sono trasferiti. Da quel momento vagheranno di campo in campo, fino ad approdare a uno, ricavato in una vecchia fortezza, dove affluiscono quelli segnalati per i loro tentativi di fuga. La fortezza è comandata da von Rauffenstein, il quale, gravemente ferito alla colonna vertebrale e costretto in una "Minerva" (un busto che gli sorregge il capo con una placca d'argento), ha accettato l'incarico per continuare a servire la patria. Ispirato dalle virtù di "cavalieri antiqui", il barone tratta i due ufficiali francesi con magnanimo rispetto (è lui la causa della loro cattura, se ne sente responsabile). Ma la ragione profonda di questa tacita simpatia è un'altra. Rauffenstein fraternizza soprattutto con de Boieldieu, perché appartiene alla sua stessa classe. Marèchal e gli altri sono invece lo sgradito prodotto della rivoluzione francese, la causa prima del fatto che ora loro due, nobili, si trovano su fronti opposti a combattersi. De Boieldieu non è insensibile a questo richiamo di classe, ma non può d'altra parte rinnegare la sua bandiera, la patria, e avverte di avere su di sè i sospetti dei compagni di prigionia per l'equivoco flirt intellettuale con l'ufficiale tedesco. Sconterà la sua ambigua posizione offrendosi di distrarre l'attenzione delle guardie durante un nuovo tentativo di fuga di Marèchal e di un altro prigioniero (un ebreo). L'evasione riesce, ma de Boieldieu pagherà con la vita (e per mano di Rauffenstein) il suo atto di coraggio e di patriottismo. Intanto i due evasi, sfiniti, si sono rifugiati in una fattoria abitata da due donne: una vedova di guerra e sua madre. Non saranno denunciati, ma ospitati fino a che l'ebreo non guarisca da una storta alla caviglia che gli impedisce di camminare. Fra Marèchal e la giovane vedova fiorisce un idillio che si conclude con una separazione senza apparenti drammi, quando gli evasi si sentiranno in grado di guadagnare la vicina frontiera Svizzera. Il film si chiude su una inquadratura e una battuta giustamente famose: i due francesi che arrancano su per una montagna e lo schermo tagliato da una canna di fucile puntata dietro di loro. Una mano abbassa la canna e una voce dice, in tedesco, "Non sparare: sono già in Svizzera".
Carlo Felice Venegoni, Renoir, il castoro cinema |
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Critica (2): | Renoir visse con passione l'avventura di questo film “pacifista” (la definizione è sua) girato quando già l'Europa si avviava alla seconda guerra mondiale.
La grande illusion è la parabola di tre personaggi in guerra: il tedesco barone von Rauffenstein, asso dell'aviazione, i francesi capitano de Boïeldieu e tenente Maréchal, aviatori anch'essi. Abbattuti da Rauffenstein in combattimento, BoïeIdieu e Maréchal sono trattati civilmente. Il tedesco li vuole conoscere. Ma le loro strade subito si separano. Gli ufficiali francesi sono internati in i campo di concentramento, insieme a soldati di diverse nazionalità. Maréchal, piccolo borghese patriota (meccanico nella vita civile), ha una segreta aspirazione, quella di evadere e di tornare a combattere. Con un gruppo di compatrioti della più varia estrazione sociale (le caratterizzazioni sono puntuali e spiritose: c'è un artista di varietà, il professore, un ingegnere; e ci sono i loro piccoli problemi, le preoccupazioni per la famiglia, le speranze), organizza un tentativo di fuga. Scavano una galleria sotto la baracca in cui sono alloggiati, superano coraggiosamente i momenti di panico (uno rimane intrappolato sotto terra), giungono quasi ai bordi del campo. Tutto questo mentre continua la vita monotona della reclusione, rallegrata una volta da una rappresentazione teatrale allestita dai prigionieri. Sono i giorni in cui si combatte furiosamente intorno a Douaumont: un manifesto affisso al muro annuncia che i tedeschi l'hanno conquistata. Proprio durante lo spettacolo si apprende che i francesi l'hanno ripresa e Maréchal irrompe sul palcoscenico per dare la notizia e intonare con i compagni la Marsigliese. Il tenente è messo agli arresti. Quando torna nella camera, dopo aver scontato la pena, ritrova gli amici sul punto di evadere. È ridotto assai male; persino Boïeldieu, che l'ha sempre trattato con distacco, si impietosisce. Ma non c'è tempo né per la commozione né per l'ansia della fuga imminente: i tedeschi annunciano loro che saranno trasferiti in un altro campo.
In una fortezza inaccessibile ritroviamo Rauffenstein. Comanda un campo di prigionia: ha accettato un mestiere che gli ripugna per poter continuare a servire la patria (è mutilato: un corpetto metallico gli sostiene la colonna vertebrale e sorregge il capo sotto la gola). Gli conducono i prigionieri appena arrivati, fra cui Boïeldieu, Maréchal e l'ebreo Rosenthal. Con il nobile francese ritrova immediatamente quella cordialità che già gli aveva dimostrato. Con gli altri è diverso, sono soltanto nemici. Mostra a tutti la fortezza, luogo tanto isolato e protetto che ogni tentativo di fuga sarebbe una pazzia. Ma Maréchal non si arrende. Occorre una corda per calarsi dai bastioni, e per questo è sufficiente arrotolare le lenzuola. Ma occorre anche distrarre le sentinelle, ed è più difficile. Boïeldieu - che s'è incontrato più volte con Rauffenstein (scambi di cortesie fra i due gentiluomini: “perché mi ricevete nei vostri appartamenti?”, “perché voi vi chiamate de Boïeldieu, ufficiale di carriera dell'esercito francese, e io von Rauffenstein, ufficiale di carriera dell'esercito imperiale tedesco”) - è pronto a sacrificarsi: terrà lui occupata la guarnigione organizzando una sommossa, mentre i due salteranno dal muro. Così avviene. Maréchal e Rosenthal gettano la fune oltre il bastione, Boïeldieu correndo sui camminamenti attira l'attenzione delle guardie. Accorre Rauffenstein, che lo supplica di scendere.
Il francese rifiuta, e Rauffenstein è costretto a ucciderlo.
Il resto (il lungo episodio finale) ha l'aspetto di una variazione incongrua. Maréchal e Rosenthal, dopo aver vagabondato per strade coperte di neve, trovano ospitalità nella casa di una contadina che ha avuto il marito ucciso a Verdun. Vive con una bambina. Rosenthal non può proseguire, ha una caviglia in disordine. La donna li accoglie umanamente. Fra lei e Maréchal nasce un breve idillio. Maréchal, la notte di Natale, abbraccia la piccola (“Lotte hat blaue Augen” nel suo tedesco approssimativo, che la donna dolcemente corregge: un tocco patetico, inserito con sobrietà in una sequenza poco sobria). Rosenthal è guarito, ora possono partire. Raggiungono la frontiera. Un vasto pendio coperto di neve. soldato tedesco (il fucile in primo piano) sta per far fuoco sui due che arrancano poco lontano “Non sparare” gli dice il compagno, “sono in Svizzera.”
La grande illusion (3500 metri, oltre due ore proiezione) fu presentato a Parigi nel giugno del 1937 con molto successo. Alla Mostra di Venezia dello stesso anno fu in predicato per la Coppa Mussolini, ma la giuria, sottoposta alle pressioni dell'autorità, dovette ripiegare su un premio minore, istituito per l'occasione.
Nel clima del “fronte popolare”, Renoir ave realizzato, l'anno precedente, La vie est à nous prodotto dal Partito comunista. Dopo La grande illusion, farà La Marseillaise. Nel primo si accosta ai valori della solidarietà di classe, in omaggio alla quale sembra rinunciare alla sua ideologia anarco-borghese; negli altri due fa leva sull'interclassismo, unione di tutte le forze progressive (proletarie e borghesi) per fronteggiare il nemico comune. In questo contrasto si riflettono certo le oscillazioni della politica comunista del tempo, ma sopra tutto i dubbi di una personalità contraddittoria come quella di Renoir, libertario, populista e idealista nello stesso tempo. L'ideologia della solidarietà interclassista è quella che prevale in La grande illusion. Ma altrettanto forte appare il sentimento di rispetto (la nostalgia, forse) per le antiche virtù perdute dell'aristocrazia, per una società dove il piacere della vita si era cristallizzato in forme armoniose. Le pagine migliori del film oscillano fra questi due poli e trovano talvolta un equilibrio che, proprio per essere così precario e complesso, produce una grande intensità espressiva.
Fernaldo Di Giammatteo, 100 film da salvare, Mondadori, 1978 |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
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