Roma ore 11
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Regia: | De Santis Giuseppe |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini, Basilio Franchina, Giuseppe De Santis, Rodolfo Sonego, Gianni Puccini; fotografia: Otello Martelli; scenografia: Lèon Barsacq; montaggio: Gabriele Varriale; musica: Mario Nascimbene; interpreti: Lucia Bosè (Simona), Carla Del Poggio (Luciana Renzoni), Maria Grazia Francia (Cornelia) Lea Padovani (Caterina), Delia Scala (Angelina), Elena Varzi (Adriana), Raf Vallone (Carlo), Massimo Girotti (Nando), Paolo Stoppa (impiegato), Armando Francioli (Romoletto), Paola Borboni (Matilde), Irene Galter (Clara), Eva Vanicek (Gianna), Checco Durante (padre di Adriana), Alberto Farnese (Augusto), Bianca Beltrami, Cabiria Guadagnino, Teresa Ellati, Maria Pia Trepaoli, Fulvia Trozzi, Donatella Trombadori, Hélène Vallier, Nando Di Claudio, Fausto Guerzoni, Michele Riccardini, Renato Mordenti, Pietro Tordi, Ezio Rossi, Henri Vilbert, Marco Vicario, Mino Argentieri (un infermiere dell’ospedale), e con le protagoniste della sciagura Anna Maria Zijno, Maria Ammassari, Renata Ciaffi; produzione: Paul Graetz per la Transcontinetal Film e Titanus; origine: Italia, 1952; durata: 105'. |
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Trama: | «Cercasi dattilografa primo impiego, miti pretese, presentarsi alle ore 11.00, Largo Circense n. 37», recita l’inserzione su un quotidiano della capitale. All’appuntamento si raduna una folla di aspiranti impiegate, che subiscono la prima doccia fredda quando il ragioniere incaricato di esaminarle avverte che di posti ce n’è uno solo. La frustrazione diventa panico quando viene comunicato che soltanto le prime trenta-quaranta saranno ammesse a sostenere il colloquio. Luciana, moglie di un disoccupato, spinta dalla disperazione si fa avanti con un pretesto e riesce ad essere esaminata. Quando esce dall’ufficio le altre donne la affrontano furibonde. Ne nasce un tumulto, la ringhiera cede, alcune rampe di scale crollano, molte ragazze sono trascinate nel vuoto. Giungono i soccorsi e con essi gli inviati della carta stampata, della radio e dei cinegiornali. La corsia dell’ospedale si riempie di ragazze ferite e dei loro parenti. Un radiocronista intervista le une e gli altri, raccogliendo testimonianze, sogni e disillusioni. La notizia che tutte dovranno pagare la retta ospedaliera determina una serie di dimissioni anticipate. E mentre le ragazze rientrano nei ranghi di una quotidianità di stenti, Cornelia, l’ingenua che per far bella figura si era messe le scarpe coi tacchi della sorella, che facendo la fila si è innamorata di un simpatico marinaio, muore in sala operatoria. La polizia apre un’inchiesta, vengono interrogati il ragioniere, l’architetto che ha costruito il palazzo, il proprietario, alcuni inquilini e Luciana che, sentendosi in colpa, coltiva fantasie suicide ma è salvata dal marito. Nessuno, però, viene incriminato. Si è fatta sera. Mentre il maresciallo e i giornalisti abbandonano il luogo della tragedia, una ragazza rimane ferma davanti al cancello, in attesa del ragioniere. «Il posto di dattilografa c’è ancora, forse me lo darà» |
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Critica (1): | Con Non c’è pace tra gli ulivi, De Santis aveva messo da parte quel tipo di costruzione a strati del racconto che aveva contraddistinto la poliforma sostanza di Caccia tragica e di Riso Amaro. Con Roma ore 11 egli, entro certi limiti, pare riguadagnare questa struttura. Perché entro certi limiti? Quel progetto desantisiano di scrittura cinematografica – così felicemente realizzato in Caccia tragica e Riso amaro – era infatti, strettamente legato ad un periodo, ad una situazione storica, a certi equilibri sociali del primissimo dopoguerra, i quali, se nel ’49, cioè all’epoca della realizzazione di Non c’è pace tra gli ulivi, possono interpretarsi come momentaneamente “sospesi”, nel ’50, invece, e tanto più nel ’51, devono considerarsi definitivamente tramontati. Gli anni della conciliazione, della solidarietà nazionale, del C.L.N., sono finiti. Ormai c’è stato il crollo del Fronte popolare nelle elezioni del ’48. Tra il ’48 e il ’49 l’asse politico italiano si sposta decisamente a destra. Entrano così in crisi la fondatezza, la necessità storica, l’attualità di quell’epica nazionale, contadina e popolare, che sta tanto a cuore a De Santis; entra in crisi pure quella scrittura desantisiana intesa come modello di integrazione di istanze e bisogni culturali diversi, integrazione legata alla volontà di riunire, di mettere insieme, di affratellare le parti sociali in vista del raggiungimento di obiettivi comuni. Questi obiettivi comuni non ci sono più. Eppure, nonostante la messa in crisi del modello e dei suoi fondamenti, De Santis pare ancora muoversi nella direzione di un cinema in cui si stratificano diverse istanze. Un livello di racconto elementare si risolve nei tanti bozzetti attraverso i quali ci vengono presentate Simona, Luciana, Cornelia, Caterina, Clara, Angelina, Adriana e le altre ragazze di Roma ore 11. Questo livello è arricchito da un delicato intreccio di storie d’amore, che ora appaiono ora scompaiono. Forse Roma ore 11 è il primo film d’amore di De Santis. Ciascuna delle piccole storie d’amore ha un suo risvolto particolare e tutte conducono al Largo Circense, luogo fatale, punto d’incontro dei destini. Adriana lavorava nello studio di un avvocato, ha avuto una relazione con lui e adesso è incinta. È stata, così costretta a lasciare l’impiego (una storia simile a quella di Anna Zaccheo). Simona è l’amante di un pittore squattrinato ed ha abbandonato la sua ricca famiglia: solo “per amore” è costretta a cercarsi un impiego. La puttana Caterina, stanca di vendere il suo amore viene a cercare lavoro per cambiare vita. Cornelia in Largo Circense ha appena trovato il suo amore. La piazzetta è il luogo nel quale il Destino – motore primo della storia per molti personaggi desantisiani, qui e altrove – gioca diversi scherzi: una ragazza muore, un’altra s’innamora, una cambia vita, un’altra decide di tornare al suo paesino. Questo luogo-integralmente ricostruito in teatro di posa- fu progettato dal grande scenografo francese Lèon Barsacq, che aveva appena ottenuto un prestigioso riconoscimento a Venezia per il lavoro svolto nel film di Clair La beauté du diable. I diversi livelli di Roma ore 11. Un secondo livello, nel quale si situa solamente l’evento spettacolare del crollo, separa il primo da un terzo livello, al quale viene concesso un più ampio respiro. Su quest’ultima De Santis situa lo sviluppo delle sue riflessioni sui mass-media. Questa volta è soprattutto il giornalismo ad attrarre il regista. Roma ore 11 è un film pieno di allusioni al giornalismo, come pratica di manipolazione dell’informazione, a cominciare dal titolo stesso del film che sembra citare l’inizio di un articolo di cronaca. Anche la colonna sonora che ascoltiamo mentre passano i titoli di testa, imperniata sul ticchettio di una macchina da scrivere, allude alla pratica giornalistica. Poi, il film prende l’avvio proprio dal dettaglio di un annuncio economico comparso su un quotidiano. C’è un’edicola che troneggia al centro di Largo Circense. Ci saranno i giornalisti accorsi a raccogliere notizie sulla tragica vicenda. Inoltre, in Roma ore 11 compare anche il giornalismo radiofonico – è ormai un’autocitazione che De Santis fa di se stesso; basta pensare alle prime inquadrature di Riso amaro – attraverso un cronista che s’introduce nella corsia dell’ospedale e passa in rassegna le ragazze coinvolte nel crollo. è una presenza invadente, che occupa una lunghissima sequenza del film. C’è infine, il giornalismo cinematografico: un’operatore della “Settimana Incom” raggiunge Largo Circense per effettuare delle riprese. Stampa, radio, cinema: la notizia, l’evento, filtra attraverso i media. De Santis analizza il rapporto tra informazione e società. Muovendo dalla vicenda del crollo, egli descrive i differenti riflessi della trasmissione delle notizie su personaggi appartenenti a diversi strati della società italiana, dal sottoproletario alla signora dell’alta borghesia, dal piccolo borghese al proletario. Ma non gli interessa solo una campionatura sociologica; vuole soprattutto comprendere le pulsioni provocate dal passaggio delle informazioni. Per esempio, dov’è la felicità? Nell’Italia del 1951, per la figlia diciasettenne di un impiegato statale in pensione, la felicità è cantare Amado mio alla Radio.
Stefano Masi, De Santis Il Castoro cinema 1981 |
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Critica (2): | Come è noto, lo spunto di Roma ore 11 nasce da un evento luttuoso. Il 14 gennaio 1951 il crollo di una rampa di scale su cui si ammassava un consistente numero di ragazze disoccupate provocò la morte di una di esse e il ferimento di altre 77. «Il fatto di cronaca – ha dichiarato più tardi De Santis – ...mi sembrò emblematico di una certa condizione di disoccupazione femminile in un grande centro urbano come Roma e, affidandomi anche al fatto di essere stato il regista di un film come Riso amaro dipanato in una ambientazione di tutte donne, ritenni che mi fosse abbastanza facile fare un film che a protagonista avrebbe avuto un coro di donne». Il “dato” sociologico di partenza sembra iscriverlo a pieno titolo in area rigorosamente neorealista, tantopiù che il regista, su consiglio di Zavattini, che firma la sceneggiatura assieme a Franchina, Sonego, Puccini e De Santis stesso, affida al ventitreenne Elio Petri, allora giornalista dell’“Unità”, un’inchiesta tra le ragazze coinvolte nel crollo, che dovrà servite da base allo script. È sempre Zavattini a proporre una “provocazione” preliminare: la pubblicazione di un annuncio analogo a quello che aveva causato la tragedia. Ma subito dopo l’autore di I poveri sono matti si disinteressa alla sceneggiatura, tanto che nel prodotto finito la sua mano è avvertibile in piccoli tratti tutto sommato marginali, come il personaggio di «un buffo marinaio totalmente estraneo alla vicenda... un folletto che ricorda un po’ Harpo Marx», anche perché De Santis, che non è De Sica, non rinuncia ad imporre la sua progettualità: rifiuta di utilizzate le vere protagoniste della vicenda se non come comprimarie in un cast sovraccarico di nomi, punta sulla «varietà dei caratteri come superamento dell’estetica del tipo», infine parte «dalla materia dell’inchiesta per costruire il romanzo, la storia, anzi le storie intrecciate di giovani donne di diversa estrazione sociale che si ritrovano, come in un film giallo, in un luogo trappola dove accade qualcosa che le rende interdipendenti» Ad accentuare questo carattere della messa in scena contribuisce la scelta antinaturalistica di ricostruire sul set l’ambiente della vicenda, affidando la scenografia a Léon Barsag, già art director di Renoir e Clair. «Qui non si tratta più di neorealismo – scrive un osservatore acuto come Corrado Alvaro – Il tema che si è dato De Santis lo supera, richiede invenzione, tanto più che l’ispirazione del regista ha un’esigenza di narrazione del più alto ordine letterario».
Come è stato più volte ricordato, Roma ore 11 è il primo film urbano di De Santis, dopo la trilogia contadina di Caccia tragica, Riso amaro e Non c’è pace tra gli ulivi e quello che avrebbe dovuto diventare Noi che facciamo crescere il grano, l’opera sull’occupazione delle terre in Calabria la cui mancata realizzazione appare oggi sintomatica del mutato clima politico, che mette in discussione «quell’epica nazionale, contadina e popolare» con la quale il cinema del regista si è fino a questo momento identificato. La città, raggelata nelle immagini dell’incipit, poi sintetizzata nella quasi simbolica artificiosità del set, diventa il luogo in cui «i valori e lo spazio della collettività sono sostituiti dai frammenti di vita di una folla solitaria. La dialettica campagna-città si risolve in una opposizione schematica (bene-male). Nella collettività contadina il male può essere vinto ed estirpato ovvero espulso dal corpo sociale, nella città il male identificato con il potere responsabile della catastrofe – quel potere invisibile che appunto qui ha la sua sede – opprime direttamente la scena e la distrugge». Conseguentemente, anche la coralità subisce un procedimento di frantumazione: come ha scritto il già citato Stefano Masi, il coro-massa di Riso amaro si trasforma qui in un coro fatto di tante individualità. Nel delinearne le figure costitutive, De Santis si affida più alla rappresentatività sociale che non a quella psicologica, anteponendo la rapidità del bozzetto alla programmaticità un po’ schematica del “tipo”. Il suo set è attraversato da un pullulare di esempi muliebri, ciascuno dei quali sembra oscillare tra ambizioni di riscatto e sintomi di rassegnazione. Dalla prostituta che ogni mattina si alza pensando che quello sarà il giorno buono per cambiar vita alla servetta che pateticamente tenta di imparare a scrivere a macchina per sottrarsi ad un lavoro ingrato, dalla ragazza di buona famiglia che rifiuta gli agi della sua classe per seguire i sentimenti alla moglie del disoccupato la cui esasperazione si trasforma, dopo la tragedia, in ineliminabile senso di colpa, il regista offre una campionatura di situazioni che rimandano tutte con forza, magari anche eccessivamente “diretta” nelle argomentazioni, ad un sociale di miserie e ingiustizie «smascherato» dal fatto di cronaca. A dividere le donne dovrebbe intervenire la competizione, quella stessa molla che spinge Luciana a “barare” per poter essere selezionata. E viceversa la solidarietà ad informare i loro rapporti, ben prima del verificarsi del crollo. «Mi piacerebbe proprio che il posto lo dessero a te» o «Mamma mia, mi verrebbe voglia di aiutarla» sono le frasi ricorrenti, quasi che ciascuna candidata si identificasse totalmente nelle altre, sentisse la sintonia profonda che deriva dal partecipare alla stessa condizione, umana e sociale. Evitati gli stereotipi in fondo verosimili della Struggle for Life, De Santis sciorina un repertorio di tipologie femminili che confermano non senza ambiguità la sua fama di Women Director. Clara che canta bene e vorrebbe avere successo con le canzoni, Giorgetta che sogna di viaggiare e si può concedere al massimo una passeggiata domenicale al Tritone, Adriana che ha avuto una storia col principale e, rimasta incinta, è stata scaricata in maniera brutale («Chi lo dimostra che so’ stato io?»), raccolgono ciascuna un brandello di verità di una condizione doppiamente subalterna («Te ne approfitti perché sono una serva», dice Angelina a Romoletto che le mette le mani addosso, e sono padre e figlio, con un’occhiata carica di significati, a dare il loro consenso alla ragazzona che si è offerta di sostituirla). Prevaricazione sociale e abuso sessuale – che ha come corrispettivo quello che Alvaro chiama «lo sfogo di un’erotica male indirizzata» sono per il regista inscindibilmente connessi, anche se, come già abbiamo accennato, il suo atteggiamento è attraversato da contraddizioni irrisolte, tanto che, almeno sotto questo punto di vista, il suo cinema rimane profondamente ambiguo. Ci sono, al proposito, due sequenze esemplari in Roma ore 11. La prima è quella, magnifica, della scala fatale e del crollo, con quel magistrale dolly che quasi scava tra le macerie per compiacersi dei corpi denudati dalla sciagura, cosparsi di polvere e calcinacci, in bilico sul baratro o sotto la minaccia incombente di travi e ringhiere. La seconda, più di maniera, racconta la corsia dell’ospedale e indugia con sensualità screziata di feticismo sull’esibizione della biancheria intima che drappeggia le fattezze generose della Bosé, della Gater e della Varzi. C’è in entrambe quella esaltazione della fisicità femminile che rappresenta una costante di De Santis, quel “senso plastico” di cui parla Alvaro per cui «la condizione povera che egli ci descrive è sempre in qualche modo arricchita da quel certo lusso naturale che è la bellezza e la forma della donna». Il voyeurismo del regista acquista, in tale contesto, valenze neppur tanto larvatamente sadiche, quasi preannunciate dal ragioniere che fa schioccare l’accendino prima di comunicare che di posti ce n’è uno solo e che sogghigna appena uscito dall’ascensore davanti alle ragazze che hanno aggredito sgomente le scale. La “moralità” di De Santis è ovviamente fuori discussione, tanto più che nel film stesso viene introdotta una discriminante forte, un termine di paragone, se non omogeneo, almeno parallelo, su cui misurare deontologia professionale e scelta di campo. Nato da un fatto di cronaca e “costruito” attraverso un’inchiesta giornalistica, Roma ore 11 non poteva che essere anche un film sui media. A partire dal “concerto per quattro macchine da scrivere e orchestra” dei titoli di testa, che allude al mestiere di dattilografa, certo, ma anche a quello di giornalista, tutto lo sviluppo dell’opera è segnato dai mezzi di comunicazione di massa, da Bolero Film alla Settimana Incom, dai quotidiani alla radio. Giornalismo e radiofonia assumono particolare importanza, oltreché come occasione-pretesto per registrare pubblicamente il vissuto delle protagoniste (Clara può finalmente esibirsi nel suo cavallo di battaglia, Amado mio, dopo aver coinvolto in El Cumbanchero il corpo delle colleghe), come informazione adulterata (i tagli nelle interviste), infine, come esempio di cinismo professionale questo sì sadico nell’accezione più ampia e negativa, come quello del cronista che deve mandare l’articolo in redazione e aspetta dal maresciallo il nome di un responsabile qualsiasi, «un povero disgraziato che paga per tutti, da mettere sul giornale». E se De Santis non nasconde l’ambivalenza del rapporto che lega i suoi personaggi femminili al medium – la ragazza che va a fare la serva al posto di Angelina, prima ancora di informarsi dell’essenziale («se magna?») chiede se in casa dei padroni ci sia la radio – mette in bocca a Caterina, la prostituta che pure ha cercato invano di farsi riprendere da un cineoperatore, una delle battute più caustiche e amare del film. Tornata al suo quartiere di baracche, dice al suo compagno occasionale che i giornali, quelli vecchi, lì servono solo a turare le finestre. È, da parte del neorealista De Santis, un’anomala intrusione nel sottoproletario e nel presociale, una suggestiva anticipazione di temi che qualche anno più tardi apparterranno a Pier Paolo Pasolini.
Paolo Vecchi, Cineforum n. 310, dicembre 1991 |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
| Giuseppe De Santis |
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