Processo (Il) - Procès (Le)
| | | | | | |
Regia: | Welles Orson |
|
Cast e credits: |
Sceneggiatura: Orson Welles; soggetto: dal romanzo Der Prozess di Franz Kafka; fotografia: Edmond Richard; scenografia: Jean Mandaroux; costumi: Hélène Thibault; musica: Jean Ledrut e Adagio in sol minore per organo e archi di Tommaso Albinoni; montaggio: Yvonne Martin, Denise Baby, Fritz Mueller; voce dei narratore: Orson Welles; interpreti: Anthony Perkins (Joseph K.), Orson Welles (Hastler), Jeanne Moreau (sig.na Burstner), Romy Schneider (Leni), Elsa Martinelli (Hilda), Suzanne Flon (sig.na Pittl), Madeleine Robinson (sig.ra Grubach), Akim Tamiroff (Block), Arnoldo Foà (Ispettore), Fernand Ledoux (cancelliere del tribunale), Michel Lonsdale (prete); produzione: Alexander Salkind, Michel Salkind per Paris Europa Productions / FI-C-IT / Hisa Films; origine: Germania occidentale, Francia, Italia, 1962; durata: 120'. |
|
Trama: | Il mistero comincia con 16 tavole animate di Alexeieff che illustrano la storia dell’uomo di campagna e del guardiano della porta della Legge. Dissolvenza sul nero. Joseph K. è svegliato improvvisamente, una mattina, daIl’Ispettore che lo accusa di qualcosa che non motiva. Sconcertato, K. parla del suo problema con la padrona e con l’occupante della stanza contigua, la signorina Burstner. K., un impiegato come tanti, in ufficio è ammonito dal capo perché frequenta sua cugina. All’Opera, K. è trascinato via da due funzionari che lo portano ad un tribunale affollatissimo. K. ritrova nel suo ufficio i poliziotti che lo avevano vessato in uno sgabuzzino, a loro volta picchiati e torturati selvaggiamente. Lo zio Max gli fa conoscere l’avvocato Hastler che potrebbe aiutarlo. Di nuovo in un tribunale, stavolta vuoto: Hilda lo seduce, forte della sua condizione di moglie di uno dei guardiani. Un guardiano lo manda di nuovo all’ufficio di Hastler dove incontra Block, un cliente trasferitosi in casa dell’avvocato in attesa della causa. Joseph rinuncia all’avvocato e si rivolge al pittore Titorelli, ma è costretto a fuggire dal suo studio invaso da una turba di bambine frenetiche. Finisce in una chiesa dove un prete gli comunica che è stato condannato e dove Hastler, sopraggiunto, gli racconta l’allegoria dell’uomo e la Legge che apre il film. Fuori incontra due sicari che lo costringono a scendere in una grande buca. K. rifiuta il coltello che gli viene offerto per uccidersi. Gli viene gettato nella buca un candelotto di dinamite: K. ride lanciando qualcosa fuori dalla buca mentre una spaventosa esplosione chiude il film. |
|
Critica (1): | [...] Welles si è posto di fronte al Processo di Kafka in una posizione estremamente concreta. Ne ha abolito tutta la parte metafisica, religiosa, di grosso apologo ebraico, la riflessione filosofica, il dato spirituale della storia e dei rapporti che vi sono dentro. Nel romanzo di Kafka K. è l’uomo di fronte alla legge, ma la legge è un qualcosa di assoluto. La legge può essere Dio che l’ha fatta, può essere la società, può essere il destino dell’umanità, può essere interna all’uomo stesso. Siamo comunque sempre a termini metafisici, astratti. Welles si è servito di Kafka, anche “tradendolo” volutamente, per riportare su un terreno estremamente reale, concreto, l’ingranaggio in cui K. resta preso. Il film ha di nuovo la struttura dell’inchiesta; è di nuovo un’inchiesta come così spesso in Welles sulla scia di Conrad e della sua influenza, ma è operata dal personaggio in causa, questa volta non sulla sua identità o su chi sia in realtà, ma sulle ragioni per le quali egli viene processato. La legge è questo sistema di rapporti, questo tipo di società sviluppata in cui si vive, rappresentata in simboli viventi come la macchina calcolatrice, l’enorme ufficio, i palazzi mostruosi dei tribunali, cioè il sistema disumano e meccanizzato in cui l’uomo è ridotto a pedina e in cui la legge, che nel romanzo di Kafka non si sa bene cosa sia e da che parte venga, è invece molto concreta: la legge è il tipo di rapporti determinato dalla società in cui il personaggio è inserito. La legge, se vogliamo, è l’America, è la società sviluppata del giorno d’oggi. Tutto ciò si rileva anche nella scelta del protagonista, Perkins, che non è l’uomo medio che siamo abituati a immaginare leggendo il romanzo di Kafka, l’impiegato un po’ misero, meschino. È invece un giovane aitante: è il personaggio medio tipo della nuova società, nettamente diversa da quella rappresentata da Kafka: non siamo nella Praga degli anni Trenta, che è anche un “nessun luogo,” ma nella New York, Parigi o Londra, nella supercittà magari un po’ fantascientifica di una società molto meccanizzata. Il personaggio rifiuta in certo modo la legge, che vorrebbe, per assurdo, che ci si pieghi a essa anche senza ribellarsi e reagire quando ci condanna al processo e alla morte. Joseph K. reagisce, ma in modo molto confuso. Reagisce non capendo e cercando di capire, prima di tutto. Di qui la sua affannosa ricerca, drammaticamente concentrata. Il film è rapidissimo: la ricerca comincia ed è già finita, si svolge in un arco di tempo molto breve; sono incontri di un’unica giornata in cui K. sa che la sera arriverà presto e con la sera la condanna e la morte, e deve capire prima, se vuole avere un minimo di speranza di salvarsi. Il rapporto tra il personaggio e questo meccanismo è un rapporto in movimento, dinamico. C’è una certa comprensione, ma appena accennata, nel gesto finale di K.: quando sta per essere giustiziato egli ha un gesto di rivolta, tira qualcosa, non si capisce bene che cosa sia, verso i suoi giustizieri. È un gesto, non è neanche terminato che la scena viene interrotta per passare a quella successiva e finale da apocalisse; però in quel gesto vi è il minimo di presa di coscienza [...] non è la ribellione aperta, ma un inizio di ribellione proprio quando è troppo tardi. Questo porta anche a vedere Joseph K. un po’ come responsabile della sua stessa situazione [...]. In Kafka si sa che la legge esiste in quanto gli uomini la portano dentro di sé. Welles riduce questo discorso metafisico all’apologo che è messo al prologo del film, fatto con scene d’animazione che presenta il discorso sulla legge che nel romanzo è fatto dal prete nella scena della chiesa. Nel film, il prete appare solo per un attimo e il suo discorso, che sarebbe stato per forza di veste metafisico e religioso, viene affidato, sempre però nella cattedrale, all’avvocato (attore Welles) che non è più, come l’avvocato di Kafka, un personaggio meschino, che non capisce niente neppure lui e cerca di tirare a campare in questa situazione assurda, ma è già uno che è partecipe della legge, è già dentro, è uno che sa e che dice chiaramente a K.: se la legge c’è e se sei arrivato a questo punto è anche colpa tua. Questo è un dato interessante perché, assieme al finale, alla concretezza della situazione, della vicenda che Welles rappresenta, ci porta a vedere il personaggio come vittima e, nello stesso tempo, artefice del proprio martirio. Un critico ha chiamato il film “una descrizione clinica dell’alienazione” e la definizione è piuttosto esatta. K., che si è lasciato “alienare” e che, al momento in cui la sua corresponsabilità lo ha portato a essere vittima di questa situazione, cerca di muoversi, di capire, di ribellarsi e non ce la fa più, è destinato a perire, anche se ha avuto un breve momento di possibile ripresa, di possibile ripartenza. Il processo porta a un discorso sui limiti di Welles nella sua visione del mondo. Egli mostra l’assurdo nel modo più dialettizzato possibile, più complesso, quindi meno manicheo; dà una rappresentazione dell’assurdo, ne mostra il meccanismo, ma non va fino al punto di spiegarli veramente, di dire in un modo più chiaro il perché di tali meccanismi, il loro funzionamento più profondo. Welles ci ha mostrato da L’orgoglio degli Amberson al Processo l’evoluzione di un certo tipo di situazione moderna in cui noi viviamo. È arrivato via via a rappresentarla in modo molto preciso, chiaro, però senza mai vederne possibilità di contrapposizione. Welles si ferma in fin dei conti dove si ferma Joseph K. – lo diciamo per paradosso, perché evidentemente Welles è molto più avanti, non è K., è Welles che fa il film su K. –, cioè non riesce ad andare oltre e a vedere che cosa in questa situazione c’è di possibile lotta per quella difesa dell’uomo che egli mette al centro del suo film. Il personaggio più “suo” è O’Hara de La signora di Shanghai, cioè l’uomo preso nel meccanismo, che alla fine ne vede i difetti e se ne tira fuori.
Goffredo Fofi, Capire con il cinema, Feltrinelli, 1977 |
|
Critica (2): | |
|
Critica (3): | |
|
Critica (4): | |
| Orson Welles |
| |
|