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Mani sulla città (Le)


Regia:Rosi Francesco

Cast e credits:
Soggetto: Francesco Rosi, Raffaele La Capria; sceneggiatura: Francesco Rosi, Raffaele La Capria, Enzo Forcella, Enzo Provenzale; fotografia: Gianni Di Venanzo; sce­nografia: Angelo Canevari; costumi: Marilú Carteny; montaggio: Mario Serandrei; musica: Piero Piccion; fonico: Vittorio Trentino; intepreti: Rod Steiger (Edoardo Nottola), Salvo Randone (De Angeli), Guido Alberti (Ma­glione), Angelo D'Alessandro (Balsamo), Carlo Fermariello (De Vita), Marcello Cannavale, Alberto Canocchia, Gaetano Grimaldi Filioli (amici di Nottola), Terenzio Cordova (il commissario), Dante Di Pinto (il presidente della commissione d'inchiesta), Dany Paris (l'aman­te di Maglione), Alberto Amato, Franco Rigamonti (consiglieri comu­nali), Vincenzo Metafora (il sindaco), Pasquale Martino (il capo del­l'archivio), Mario Perelli (il capo dell'ufficio tecnico), Renato Terra (un giornalista); produzione: Lionello Santi per la Galatea Film; distribuzione: Cineteca di Bologna; origine: Francia-Italia, 1963; durata: 105’.

Trama:Il crollo, con morti e feriti, di un palazzo in un vicolo di Napoli, provoca la denuncia del costruttore Eduardo Nottola, consigliere comunale di un partito di destra. Un'inchiesta viene svolta nei suoi confronti, ma non approda a nulla, anche se egli ne esce irrimediabilmente compromesso agli occhi dell'opinione pubblica, fino al punto che i compagni del suo stesso partito lo pregano di ritirare la candidatura alle imminenti elezioni comunali. Ma Nottola è un uomo che conosce l'ambiente in cui si muove e sa bene che, perso il potere, un uomo come lui no conta più nulla e sarà sempre alla mercé di quelli che comanderanno. Perciò, proprio sotto le elezioni, passa, con quattro consiglieri suoi amici, nelle file del partito di centro. Provoca con questo suo atto il rovesciamento della maggioranza in consiglio comunale e la sconfitta del suo partito d'origine. Ma l'odio dei suoi compagni cederà di fronte al pericolo di compromettere la realizzazione di un grandioso progetto edilizio in cui tutti hanno più o meno confessabili interessi. E perciò Nottola, aiutato dai suoi amici e da quelli stessi che ha tradito, sarà nominato possessore all'edilizia e continuerà a costruire con i soliti sistemi; mentre soltanto le sinistre, cui aderisce un unico consigliere del centro, continueranno a battersi per l'onesta gestione della cosa pubblica.

Critica (1):Nel 1963 il « secondo neorealismo » mostra chiaramente la corda dei suoi limiti e delle sue ambiguità (…);si consolida invece, sull'onda del successo de Il sorpasso, la rinnovata fortuna della commedia di costume, in fragile equilibrio tra moderato impegno e plateale svaccamento (…).
L'impressione di fondo è che la spinta al rinnovamento si sia, se non esaurita, certo insabbiata nelle sue stesse incertezze, oltre che negli ostacoli frappostigli. E i riscontri con la situazione politica sono piú che mai eloquenti. Sta per aprirsi la fase del centrosinistra (il primo governo Moro con la partecipazione dei socialisti si costituirà nel dicembre di questo stesso 1963), ma ci si arriverà attraverso una gestione tanto faticosa e contrastata da farlo nascere già stremato. Le « convergenze parallele » con cui si era usciti alla bell'e meglio dalla crisi del luglio '60, infatti, sono state impiegate da Fanfani per coltivare prima il parallelismo di destra, poi quello di sinistra (governo con l'appoggio dei liberali sino agli inizi del '62, tripartito DC-PRI-PSDI con l'appoggio esterno dei socialisti dal febbraio '62 al giugno '63) onde giungere alla proclamazione della teoria della « reversibilità » delle formule governative: che, detta in parole povere, significa il diritto della DC di governare comunque, appoggiandosi di volta in volta a chi le fa piú comodo, senza porsi troppi problemi di linea politica. In compenso, Moro ha fatto la sua parte di fine tessitore, continuando a sostenere la necessità dell'« incontro storico » fra cattolici e socialisti, ma favorendo nel contempo la completa e definitiva doroteizzazione della DC. Cosí, anche se le elezioni generali del giugno '63 fanno registrare una notevole flessione democristiana e contribuiscono quindi a far risultare inevitabile l'ingresso dei socialisti nel governo, le cose sono state messe in modo che la nuova alleanza sia gestita da una DC meno «progressista» che mai, per quella sua consolidata trasformazione in partito di « occupazione del potere » di cui l'imperante doroteismo è simbolo inequivocabile e garanzia concreta. Resistono dunque, e in certa misura si ravvivano, le speranze di una svolta, ma affiora anche l'inquietante sensazione che questa sia già stata castrata in partenza di quel tanto o poco di innovatore che poteva esserle attribuito.
Il quarto film di Rosi, Le mani sulla città, riflette forse più le speranze – molto meno ingenuamente, però, di quanto sostenuto da alcuni – che i timori del momento, ma coglie con estrema lucidità proprio il problema di fondo con cui bisogna misurarsi: quello della occupazione del potere, non solo praticata, ma addirittura teorizzata come l'essenza stessa della politica, a giustificazione del regime che è andato e va sovrapponendosi alla forma democratico-parlamentare con sempre maggior decisione. A prima vista, infatti, il film si occupa delle tragiche conseguenze di un caso di speculazione edilizia (il crollo, con vittime, di un vecchio edificio nel cuore di Napoli, a causa dei lavori per una nuova costruzione che gli sta sorgendo a fianco e per la quale l'impresario interessato è riuscito ad ottenere tutte le autorizzazioni necessarie, in spregio ad ogni norma di sicurezza, giovandosi del fatto di essere egli stesso consigliere comunale nelle file della Destra, che detiene la maggioranza assoluta) e delle manovre messe in atto per insabbiare la relativa inchiesta. Da questa parte di denuncia e di documentazione, però, emerge ben presto una diversa tematica, quella che si sviluppa attorno all'operazione che porta il responsabile del crollo a staccarsi dalla Destra, colpevole ai suoi occhi di non sostenerlo con sufficiente decisione dagli attacchi della Sinistra, e ad ottenere l'appoggio del Centro, in cambio dei voti che porta con sé e che consentono al Centro stesso di prendere in mano l'amministrazione.
È questa operazione, che si conclude con la nomina dello stesso impresario ad assessore ai lavori pubblici, a costituire l'asse portante del film ed il vero personaggio centrale non è neanche l'impresario (Nottola), ma il leader del Centro (De Angeli), che si serve abilmente delle accuse della Sinistra per dividere la Destra e riuscire in tal modo ad installare il suo partito ai vertici dell'Ente locale. Il suo accordo con Nottola, che pure ha contribuito a far mettere sotto inchiesta e di cui riconosce le responsabilità e le mire speculative, è completato e perfezionato da una riuscita manovra di recupero della Destra, che viene indotta a rappacificarsi con il transfuga e ad appoggiare la nuova amministrazione attraverso la prospettiva di spartizione della torta costituita da uno stanziamento di 300 miliardi da parte del governo centrale per lo sviluppo edilizio della città. È, insomma, un capolavoro di machiavellismo della peggior specie (ma non certo frutto di fantasia scandalistica: a Napoli, in effetti, il passaggio dall'amministrazione laurina a quella democristiana, destinata a lasciare sulla città l'impronta della dinastia Gava, avviene proprio attraverso una scissione del gruppo monarchico manovrata dalla DC, che peraltro non mancherà di trovare comprensione ed appoggio presso i monarchici in piú di un'occasione), che potrebbe spingere il regista a fare di De Angeli un bieco personaggio da romanzo d'appendice.
Uno dei meriti fondamentali di Rosi, invece, è quello di non rendere «antipatico» questo personaggio e di dargli anzi modo di esporre ampiamente le proprie ragioni, mettendogli in bocca argomentazioni problematiche e tutt'altro che prive di una loro innegabile forze di suggestione: le stesse, per intenderci, che si sono sentite fare mille volte dai piú alti esponenti democristiani per giustificare le piú ibride alleanze ed i peggiori intrallazzi, in nome del « dovere di governare » che incomberebbe su una DC riluttante, ma costretta a «farsene carico» per «salvare la libertà» e per non venir meno all'obbligo morale di « costruire una società cristiana ». Semmai, si dovrebbe dire che, espresse da Salvo Randone (l'attore che impersona De Angeli) suonano piú credibili e convinte di quanto non risulti dallo stile tortuoso di un Moro e dall'immagine di uomo sofferente sotto il peso di responsabilità non volute che questi ha saputo creare di sé. Il fatto è che tutto il film è costruito in termini di riflessione sul rapporto tra potere e politica (che senso ha il potere, indipendentemente da quell'insieme di orientamenti ideologici, programmi, obiettivi, alleanze, scelte di campo, forze sociali rappresentate e mobilitazione delle medesime, che costituiscono la politica? non significa forse, proprio per questo, fare il gioco di determinati interessi e svolgere quindi una ben definita politica? è possibile scindere le responsabilità morali da quelle politiche? sino a che punto il fine giustifica i mezzi? e il fine - ecco che il cerchio si chiude - può essere l'occupazione del potere di per se stesso, indipendentemente dagli obiettivi, dai programmi, dalle forze, ecc?) . Questa riflessione si sviluppa in forma di ampio e articolato dibattito, di cui fatti e personaggi diventano altrettanti argomenti.
In questo senso, Le mani sulla città si pone sulla linea di ricerca dei precedenti film, ma con una fisionomia nuova e originale. Come in Salvatore Giuliano, è essenziale il rapporto tra l'oggettività (tendenziale, perlomeno) del documento ricostruito e la partecipazione soggettiva dell'autore; ma, mentre là era in primo piano il documento, qui è la presenza dell'autore a farsi maggiormente avanti e a dare un senso al documento, facendone argomento di discussione. Si potrebbe parlare di arte oratoria, e infatti i suoi piú feroci oppositori ritengono di sbarazzarsi del film definendolo un comizio, come se la cosa fosse di per sé squalificante e nella storia non esistessero esempi di «comizi» ad altissimo livello, da Demostene e Cicerone a Mirabeau e Fichte. E come se non fosse un «comizio» quello di Antonio sul corpo trafitto di Cesare, nella tragedia di Shakespeare. Questo per dire che certe accuse centrano involontariamente l'originalità di linguaggio del film, che sta appunto nella sua calcolata struttura oratoria, tendente a superare la freddezza didascalica e l'artificio inconfessato di certo cinema-verità con il calore e la sincerità oggettiva della discussione che si dichiara apertamente tale. Ne Le mani
sulla città, cioè, si parla molto, perché è l'opera che vuol parlare molto, vuol mettere a confronto in ogni momento idee e posizioni fatte parole, come avviene in ogni dibattito.
È sintomatico, riguardo alla portata innovatrice e per ciò stesso provocatoria di questa impostazione, il pesante giudizio del Centro Cattolico Cinematografico: «Se il film si fosse limitato a prendere energicamente posizione e a condannare il fatto denunciato e cioè l'operato di quanti sfruttano la loro autorità civile e politica per attuare colossali speculazioni economiche a proprio vantaggio, potremmo senza dubbio aderire alla tesi che vede prevalere l'impegno sociale su quello politico, e accoglierlo con tutta la simpatia che può suscitare un'opera che seriamente e coraggiosamente richiami gli uomini politici ai loro doveri. Ma il film di Rosi è tendenzioso ed equivoco, e la polemica contro la speculazione edilizia diventa un pretesto per fare della propaganda, e faziosa per di piú, come è facilmente ricavabile sia dal tono comiziesco che il film spesso assume, sia dal modo in cui è congegnato il racconto, sia, infine, dal modo in cui sono stati prospettati i personaggi e i rapporti che tra di loro vengono ad instaurarsi. Nette riserve».
Proprio cosí: la condanna dipende da come « congegnato il racconto», è questo che sconvolge. Se Rosi si fosse limitato a mostrare la speculazione edilizia, mettendola nella cattiva luce che merita (solo, a buon conto, se gli speculatori operano « a proprio vantaggio »: forse, se lo facessero per qualche grande istituzione, che magari in altri campi svolge attività caritativa, bisognerebbe ripensarci...), andrebbe tutto bene. Tanto, nessuno ignora l'esistenza della speculazione edilizia, perché il cemento che invade le aree verdi, o quelle che andrebbero destinate a servizi pubblici, non si può nascondere. Si ribadiscano, dunque, le fiere condanne che sono state espresse piú volte al riguardo, anche da cattedre e pulpiti autorevoli, e saremo tutti d'accordo. Quel che dà fastidio è il fatto che si vada al di là della speculazione edilizia, toccando il sistema che la rende possibile e inevitabile, facendolo parlare, dando voce anche alle «ragioni» degli speculatori e di chi li protegge e mettendole a confronto con quelle di chi subisce le conseguenze drammatiche della speculazione, di chi la mette sotto accusa e la combatte, come di chi pensa di poterla ingabbiare senza fare i conti con la «libera iniziativa» o di chi, semplicemente, è incerto sul da farsi. Queste «ragioni» ci sono tutte nel film, ma ne nasce una discussione in cui anche il regista dice la sua, senza nascondere quel che pensa: ecco allora le «nette riserve», perché non si può sopportare che le cose siano «congegnate» in modo da discutere e far discutere certi temi, meno abituali e consumati delle rituali condanne alla speculazione edilizia. Bisogna riconoscere, insomma, che il giudizio del C.C.C. centra esemplarmente, senza volerlo, l'originalità del lavoro. (…)
Sandro Zambetti, Francesco Rosi, Il Castoro cinema, 7-8/1976

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