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Mò better blus - Mò better blus


Regia:Lee Spike

Cast e credits:
Sogetto e sceneggiatura: Spike Lee; fotograf a: Ernest Dickerson; musica: composta e diretta da Bill Lee e arrangiata da Bill Lee e Frank Foster. "Say Suono (Dolbystereo); Skip Lievsay; montaggio: Sani Pollard; Art Director: Wynn Thomas; costumi: Ruth E. Carter; interpreti: Denzel Washington (Bleek Gilliam), Spike Lee (Giant), Wesley Snipes (Shadow Henderson), Giancarlo Esposito (Left Hand Lacey), Robin Harris (Butterbean Jones), Joie Lee (Indigo Dovnes), Bill Nunn (Bottom Hammer); produzione: Forty Acres and a Mule Production (Spike Lee); distribuzione: UIP; durata: 129 ; origine: Usa, 1990.

Trama:Un film sul jazz disorientante. Bleek Gilliam, un trombettista di talento che sacrifica tutto alla musica, ha due amanti senza darsi mai anessuna delle due e un manager con il vizio del gioco.

Critica (1):Negli ultimi anni, due film di notevole spessore ed impatto emotivo, 'Round Midnight e Bird, ci hanno consegnato un'immagine del musicista jazz credibile e commovente, ma tutto sommato ancora mitica, "bianca" ed "esterna" nel suo oscillare tra filologia e adorazione. Praticando anch'egli la strada del biopic, il fratello nero Spike Lee mette subito le carte in tavola, nel rischio calcolato di chi, non indulgendo agli stereotipi, rinuncia alla porzione di verità che essi indiscutibilmente presentano. Il suo jazzista, Bleek Gilliam, è infatti morigerato e "quadrato": si esercita a lungo ogni giorno, con applicazione sistematica, impiegatizia, agli stessi orari, tanto che si arrabbia con Clarke che osa disturbarlo; non beve, non fuma e non si droga; pratica lo sport (baseball e bicicletta); si alza presto la mattina e medita canticchiando A Love Supreme; ha una visione sufficientemente positiva di sé e della propria carriera professionale; infine, fa da balia ad un manager scombinato, approssimativo e incapace di badare a se stesso. Al quarto lungometraggio, la progettualità complessiva del cinema di Spike Lee sembra ormai evidente. Il suo intento è quello di fornire un'interpretazione attuale degli aspetti sociali e culturali salienti del popolo neroamericano, anche attraverso il riferimento a figure carismatiche - Malcolm X e Martin Luther King in Fa' la cosa giusta, John Coltrane in Mo' Better Blues - secondo un'ottica per cui la religione (o la religiosità) diventa componente imprescindibile di qualsiasi analisi della black culture, dai movimenti politici alla musica, finanche alla sessualità. Di più, è forse il tentativo ambizioso di gettare le basi per un cinema nero d'autore non destinato all'angusto circuito "di razza". Se infatti sono ormai numerosi gli esempi di un cinema africano d'autore (i vari Cissé e Ouedraogo), Spike Lee è probabilmente il primo regista americano di colore statutariamente votato alle " pratiche alte". Via tutti gli stereotipi, dunque. Lee non indulge all'autocommiserazione, non fa del pauperismo e se parla di razzismo lo colloca tra la gente di colore (School Daze) o tra realtà etniche comunque minoritarie ed emarginate (Fa' la cosa giusta). Il paesaggio non somiglia tanto al ghetto, quanto ad una ordinata periferia con il suo corredo di viali alberati, teatro di scorribande di bimbi variopinti e chiassosi che sollevano turbini di foglie secche al loro passaggio e possono scrivere con i gessetti colorati sull'asfalto, come in una commedia familiare anni quaranta. La famiglia, appunto, appare uno dei cardini ideali del cinema di Spike Lee. L'impossibilità della ricomposizione familiare costituisce perenne disgrazia per il protagonista di Fa' la cosa giusta e la minaccia all'unità etnico-familiare scatena, con effetti devastanti, la sua frustrazione repressa. La famiglia come sola ancora contro il dissolvimento per Bleek, che non può vivere senza la musica, ma localizza immediatamente - e lucidamente - l'unica via di salvezza. La donna capisce, tuttavia si rende complice, senza troppi interrogativi, e accetta il passaggio ad una nuova fase del rapporto, ad un nuovo tipo di intimità, che non contempla più, apparentemente, una doppia verità. Il tema del rapporto tra Bleek e e due donne si presta comunque a considerazioni a se stanti, si regge anche senza jazz e negritudine, toglie il film dall'ambito etnico-razziale. È questo uno dei punti focali del cinema di Spike Lee: far dimenticare il colore dei suoi attori, universalizzare il contesto narrativo pur nell'inserimento di una realtà e di "modi" inconfondibilmente neri. Anche il leggendario potere sessuale del "popolo del blues" non è più di tanto enfatizzato, è piuttosto la sapienza compositiva delle scene erotiche (una volta tanto al termine rendono giustizia le immagini) a raccontare una sessualità goduta senza nevrosi, come piacere tutto sommato sereno, accettato anche nei suoi limiti ed esplicitato nelle valenze estetiche, come esercizio atletico di corpi di differenti tonalità cromatiche che sembrano danzare al ritmo della ellingtoniana Black, Brown and Beige. Sessualità, dunque, e famiglia. Se la protagonista di Lola Darling concludeva sorridendo le vicende quasi scherzose di una ragazza che ama tre uomini senza sapersi decidere, il Bleek di Mo' Better Blues conclude senza sorridere la storia di uomo che deve decidere per sopravvivere. Decidere significa crescere, come gli ripetono continuamente le sue donne. Il musicista è quindi una figura tragica e la musica un sopramondo ideale per chi non vuole nemmeno vedere la realtà (Bleek lascia che Giant venga massacrato pur di finire il suo "a solo", a un certo punto non capisce più con quale delle donne sia a letto e guarda smarrito in macchina, potendo solo cercare aiuto nello spettatore, che è confuso quanto lui). Finalmente, senza ombra di retorica, Lee analizza davvero il mondo del jazz. Certe notazioni per il clima nei camerini e durante le prove, le dinamiche di potere all'interno del gruppo, le accese rivalità "on stage" che costringono il leader ad una continua affermazione della propria superiorità sono tra le più sorprendentemente realistiche mai viste in un jazz movie. E' l'alone mitico quello che viene sfrondato con determinazione, per fare posto a una storia sufficientemente complessa e sufficientemente semplice per poter essere definita "vera". Con un finale che lascia tutto sommato a bocca asciutta, normale nella sua emblematicità così cinematografica. Che riporta, tra l'altro, al tema della famiglia, qui allargato a dismisura: la famiglia è nel cottage, è nel quartiere popolare solo di bambini, è nel matrimonio, con il padre della sposa che è davvero il padre dell'attrice e del regista, che è davvero un musicista jazz come lo era la madre del protagonista nell'incipit (Abbey Lincoln), ed è ora attorniato da attori che recitano da jazzisti, la grande famiglia che festeggia un suo membro non più attivo ma comunque autorevole, la famiglia è infine in tutta la città, nel sole che sorge sulle note del coltrane di A Love Supreme, possente inno unificatore che innerva tutto il film.

Marco Vecchi -Paolo Vecchi, Cineforum n. 302 marzo 1991

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