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Incontri a Parigi - Rendez-Vous de Paris (Le)


Regia:Rohmer Eric

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Eric Rohmer; fotografia: Diane Baratier; montaggio: Mary Stephen; suono: Pascal Ribier; interpreti: Clara Bellar (Esther), Antoine Basler (Horace), Judith Chancet (Aricie), Mathias Mégard (il "dragueur"), Aurore Rauscher (Lei), Serge Renko (Lui), Michael Kraft (il pittore), Bénédicte Loyen (la donna giovane), Veronika Johansson (la visitatrice svedese); produzione: Françoise Etchegaray, per Compagnie Eric Rohmer; distribuzione: Bim; origine: Francia, 1995; durata: 102’.

Trama:Tre episodi distinti, connessi solo dagli intermezzi musicali. Nel primo Esther è tradita da Horace ma non lo sa. Dopo aver avuto dei dubbi, indaga grazie alla casualità di un portafoglio rubato e ritrovato proprio dalla (ancora presunta) rivale. Nel secondo un giovane professore e una ragazza si incontrano nei parchi di Parigi, di settimana in settimana. Lei sta tradendo il suo attuale compagno, ma non sa decidersi a lasciarlo, anzi in fondo non le va. Infine sarà chiaro che il professorino è solo un’appendice al suo amore per l’altro, in una interdipendenza che non salva nessuno dei due. Nel terzo episodio un giovane pittore deve accompagnare al museo una ragazza svedese in visita, ma è attratto da un’altra donna. Cerca di conoscerla, ci riesce, ma lei non starà al gioco.

Critica (1):"Il dramma di Picasso è di non poter rappresentare allo stesso momento quello che si vede di fronte e quello che si vede di profilo, l’interno e l’esterno". Così il giovane pittore protagonista del terzo (e ultimo) episodio del film spiega un quadro del periodo cubista, durante una visita al Museo Picasso di Parigi che ha per unico scopo inseguire la bella sconosciuta appena incrociata per via. C’è in questa frase gran parte della ricerca del professor Eric Rohmer, classe 1920, che fin dagli anni della Nouvelle Vague resta coerente all’idea di "un cinema che dipinge gli stati d’animo, i pensieri così come le azioni", con una costante attenzione a "quello che la gente pensa mentre fa una cosa, piuttosto che a quello che la gente fa" (Rohmer, 1971). Nel suo ultimo film si mettono in scena l’incontro, il caso, il tradimento, ma anche l’immaginazione, o meglio i risvolti immaginati e possibili di questi eventi nella storia personale. La scelta dell’individuo tra esitazione e dubbio, tra destino e libero arbitrio, nella vita come nelle relazioni amorose, sono da sempre temi cari al regista.
Parlando di Le genou de Claire, quinto dei suoi Six Contes Moraux, Rohmer spiegava uno dei modi trovati per risolvere la distanza tra pensiero e azione, tra interno e esterno: "Io mi occupo innanzitutto di presentare i fatti, in modo diretto, oggettivo, tacendo sui pensieri del mio personaggio, poi, nel corso di una conversazione, faccio sì che sia proprio lui a raccontarli". È un po’ quello che succede nel primo episodio del film, L’appuntamento delle sette, e in quello di chiusura, che usa il titolo di un quadro di Picasso "dai toni rossi molto difficili a riprodurre", al contempo innovativo (nei colori e nelle forme) e classico (nel tema): Madre e bambino, 1907. La ragazza protagonista della prima storia d’amore racconta alla sua compagna di studio, prendendosi molto sul serio, il proprio dubbio sulla fedeltà del fidanzato. L’amica le consiglia una strategia da adottare, e l’intrigo continua grazie al caso e all’astuzia, in un tono scanzonato che rimanda alla comédie classique di Corneille o di Marivaux, ma occhieggia a Moliere, grazie alla leggerezza di chi sa benissimo come condurre il gioco delle parti. Anche il pittore del terzo episodio si racconta alla bella sconosciuta, ritornando così con le parole a un turbinio di pensieri che non potevamo supporre mentre lo vedevamo all’opera di fronte al suo quadro. Solo che qui la strategia delle regole esplicitate, degli scenari immaginati, non funziona, e la "donna ideale" appena incarnatasi non accetta di portare fino in fondo il gioco di seduzione che l’aveva, tutto sommato, incuriosita. Diverso è il movente della coppia d’amanti della seconda storia del film, Le panchine di Parigi. Il dialogo sulle possibilità è presente fin da subito, prendendo a pretesto le distanze tra le periferie di Parigi ed il sogno di una casa in centro in cui stabilizzare la propria relazione. Ma lei sta con un altro e gioca a non lasciarlo, lui la idealizza paragonandola a una ninfa greca, mentre si incontrano all’aperto, nei parchi della città o in cimiteri illustri. Le parole d’amore si colorano dei toni cangianti dell’autunno, in quella luce che "appartiene a una certa ora, a una stagione precisa", e che vorrebbe trasmettere, con l’immagine e i suoni, le sensazioni di caldo e di freddo, di secco o di umidità, di soffocante o di ventilato" (Rohmer, 1971). Quando finalmente i due amanti clandestini sceglieranno di passare ai fatti, di convertire in azioni i pensieri, la pretestuosa scoperta che il fidanzato tradito è a sua volta un infedele azzererà tutte le immaginazioni, non permettendo più alcuna complicità. La scelta espressiva di Rohmer rimane anche qui coerente alle sue origini: produzione a basso budget con una troupe ridottissima, il film è girato in 16 mm (per poi gonfiarlo in 35 mm) cercando l’economia dei piani, con piena libertà dei tempi e luoghi della lavorazione e ampi margini d’improvvisazione. Pochi i movimenti di macchina, mentre il montaggio rimane narrativo e si elimina di ogni distorsione. Tali procedimenti anelano alla dissimulazione di ogni "rappresentazione", attraverso una sorta di "trasparenza" funzionale, data dall’uso delle convenzioni narrative del cinema americano, classico, regole che abbiamo oramai, in quanto spettatori, accettato come una seconda pelle. Ecco allora una morale del cinema fatto per "raccontare storie credibili sia grazie ai dialoghi che vorrebbero essere quotidiani (il che non implica la semplicità), sia attraverso un nitido utilizzo del campo/controcampo, della panoramica come movimento di macchina preferito, di pochi carrelli funzionali e discreti, e di zoom portati sull’oggetto del discorso o su colui che parla.
Una sottile tensione, insomma, volta proprio all’effetto di "oggettività" e, assieme, alla ricerca di una verità fuggitiva che passi nell’incanto di un luogo e di una luce, nella grazia (a volte inattesa) di uno sguardo, o nel movimento di un corpo femminile. Questi corpi tardo-adolescenziali, ci appaiono in fondo un po’ sospetti, quasi un simulacro della loro "verginità" di fronte al mondo delle esperienze in cui si immergono, e in cui incontrano personaggi maschili sempre molto casti (paterni?). Tutte figure agili e nervose, ma dolci, che parlano in un modo fresco e spigliato, a volte però troppo costruito e ridondante. L’effetto d’improbabilità dei dialoghi tra le amiche nel primo episodio è dato, secondo noi, anche dalla traduzione e dal doppiaggio, per quanto Rohmer ci abbia abituato a ben altro, se pensiamo alla serietà artificiosa (detta comunemente, "letteraria") del Conte de printemps (1990) o del Conte d’hiver (1992). L’ultimo episodio sembra essere una sintesi dei precedenti. Innanzitutto temporalmente: la storia inizia al mattino e si chiude la sera stessa, mentre nel primo episodio era diluita (questione di giorni) e nel secondo dilatata addirittura nei mesi. Poi spazialmente: l’atelier dell’artista è il luogo in cui apre e si conclude la storia (e il film), uno spazio privato che è divenuto pubblico poiché è stato visitato (come il museo) dalle figure femminili più o meno desiderate, ma senza per questo perdere la propria "autonomia". Il giovane pittore, che era inizialmente solo, unito al mondo dalla sua opera e dalla sua immaginazione, attraversa tentativi di realizzazione amorosa (uscendo da sé per unirsi a un oggetto del desiderio sia con la bella sconosciuta che (un po’ meno) con la turista svedese. Si confronta con l’universo femminile, ma rimane, nella solitudine (nella disgiunzione) proprio come i personaggi principali delle altre due storie, anche se in realtà, come l’altra figura maschile, non l’ha precisamente "scelto". Ma lui, almeno, ne è felice. E ormai sera e, dopo un giorno fatto di incontri e seduzioni mancate, è ritornato di fronte al suo quadro. Lo ritocca e lo "vivifica", tingendo di rosa una figura femminile e di bianco lo sfondo, poi ammira la sua opera e si dice, mestamente: "In fondo, non ho perso la mia giornata". Ecco, forse, l’umile insegnamento del maestro Rohmer: se l’arte riassume e distilla le esperienze umane, è nella creazione che si rivalorizza la vita.
Nicola Dusi, Segnocinema n. 76, novembre/dicembre 1995

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Eric Rohmer
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