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Rabid sete di sangue - Rabid


Regia:Cronenberg David

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: David Cronenberg; fotografia: René Verzier; montaggio e regia seconda unità: Jean Lafleur; scenografia: Claude Marchand; suono: Richard Lightstone; musica: Ivan Reitman; design effetti speciali: Joe Blasco; interpreti: Marilyn Chambers (Rose), Frank Moore (Hart Read), Joe Silver (Murray Cypher), Howard Ryshpan (dottor Dan Keloid), Patricia Cage (dott.ssa Roxanne Keloid), Susan Roman (Mindy Kent), Jean Roger Périard (Lloyd Walsh), Lynne Deragon (l’infermiera Louise), Terry Schonblum (Judy Glasberg), Victor Désy (Claude LaPointe), Julie Anna (Rita), Gary McKeehan (Smooth Eddy), Miguel Fernandes (l’uomo al cinema), Robert O’Ree (il sergente di polizia), Gregory Van Riel (il giovane al centro commerciale) Jérome Tiberghien (dottor Karl), Richard Farrell (l’uomo della roulotte), Jeannette Casenave (la donna della roulotte); produttori esecutivi: André Link e Ivan Reitman; produzione: John Dunning per Cinema Entertainment Enterprises Ltd. (per DAL Productions Ltd.), con la partecipazione della Canadian Film Development Corporation; origine: Canada, 1976; durata: 91’.

Trama:In Canada viene costruito un centro medico specializzato in trapianti di epidermide e chirurgia plastica. Una ragazza, vittima di un terribile incidente, finisce sotto i ferri per la risistemazione della cute ma qualcosa va storto. Comincia a sviluppare sotto l'ascella un nuovo organo che si nutre di sangue... altrui. E che, oltretutto, è infetto.

Critica (1):Girato in esterni a Montreal nel novembre e dicembre del 1976, al contempo anamnesi di un’epidemia e saggio sulla psicologia collettiva, Rabid accentua la componente virale del cinema di Cronenberg e approfondisce il suo lucido e disincantato pessimismo antropologico. Con un budget di 530.000 dollari a disposizione, Cronenberg perfeziona il suo rapporto con l’horror e mette in chiaro una volta per tutte la consapevole modernità del suo approccio al genere: un archetipo della tradizione orrorifica come quello del vampirismo viene depurato e alleggerito da ogni componente folklorico-leggendaria e declinato in uno scenario medico-scientifico che fa tabula rasa di tutto quel polveroso armamentario gotico che sempre accompagna i vampiri, al cinema come nella letteratura. Cronenberg non ha bisogno né di sinistri castelli transilvani, né di pallidi conti abitatori delle tenebre, né di ratti infetti, spicchi d’aglio, crocefissi salvifici o paletti acuminati. Il vampirismo non nasce in Rabid da un’atavica maledizione, quanto da una rivolta della natura contro i soprusi di una scienza che pretende di ricreare artificialmente l’uomo: il trapianto di epidermide effettuato sulla giovane Rose dal dottor Keloid scatena una reazione di rigetto che induce la vittima ad esigere il sacrificio di altri corpi e di altre cellule dell’organismo umano per garantirsi la sopravvivenza. Il vampirismo, insomma, è visto come nemesi della natura contro gli abusi della scienza e della cultura. Tanto che i vampiri di Cronenberg assomigliano, più che ai Dracula o ai Nosferatu della tradizione, agli zombies di George A. Romero: creature infelici e inconsapevoli, condannate dalle leggi epidemico-virali che governano il mondo a diffondere il virus di cui sono infette nell’estrema speranza di poter in tal modo sopravvivere. Mors tua, vita mea, dunque: secondo una logica hobbesiana che ancora una volta – dopo The Parasite Murders – affiora come imprescindibile substrato teorico-ideologico del cinema di Cronenberg. Rispetto a Romero, tuttavia, le differenze sono evidenti soprattutto dal punto di vista strutturale: mentre un film come The Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968) ha una struttura centripeta che conduce tutte le creature risorte dalla tomba a concentrarsi attorno alla casa isolata che diventa il simbolo dell’ultima resistenza degli umani, Rabid presenta invece una struttura centrifuga che porta i personaggi ad allontanarsi dalla clinica Keloid, lungo un percorso narrativo che si sfrangia e si ramifica nel territorio urbano, seguendo i rigagnoli capillari del propagarsi della malattia. Rispetto ai topoi della tradizione vampiresca, e in particolare rispetto al mito di Dracula creato da Bram Stoker, Cronenberg mette in atto un suggestivo e sofisticato gioco di rovesciamenti e di sostituzioni: la clinica Keloid al posto del castello transilvano di Nosferatu, Montreal invece della Brema di Murnau o della Wismar di Herzog come luogo di diffusione del contagio, infine la medicina al posto dell’economia come motivo scatenante dell’azione. In Stoker e in tutti i film derivati, è bene ricordarlo, il risveglio del Male e il ritorno del Vampiro erano generati prima di tutto dal desiderio degli umani di effettuare una vantaggiosa e speculativa transazione immobiliare: erano l’ossessione del profitto, o il feticcio della proprietà, a scatenare il conflitto. La variante introdotta da Cronenberg assume pertanto, in questo contesto, un valore particolare: e indica come, secondo il cineasta canadese, il corpo e la sua scienza (la medicina) abbiano preso il posto che un tempo spettava al profitto e all’economia nella genesi e nell’eziologia dei conflitti umani. Ma c’è un’altra variante in Rabid che merita un’attenzione particolare: Cronenberg non solo declina il mito del vampirismo al femminile, ma lo lega anche ad un brusco rovesciamento del tema amoroso rispetto ai canoni della tradizione. Se in quasi tutti i Dracula della storia del cinema il movente che risvegliava il vampiro era il desiderio d’amore, in Cronenberg il vampirismo diventa invece l’ostacolo che rende l’amore impossibile e che trasforma la vicenda orrorifica in un gelido e straziante mélo. Si è già accennato all’importanza della componente melodrammatica nel cinema di Cronenberg e ci si tornerà più ampiamente in seguito: per ora basta rilevare come il virus che colpisce Rose e che la trasforma in un mostro è l’elemento inibitorio che impedisce ad Hart di continuare ad amarla e che induce lei stessa a scegliere la morte pur di non sapersi “diversa” dalla donna che un tempo Hart aveva amato. Come tanti amanti del Cronenberg successivo, anche la Rose di Rabid sceglie la morte pur di non dover soccombere alla morte dell’amore: e nella morte trova l’unico gesto capace di bloccare la mutazione che la domina e la divora. Anche dal punto di vista stilistico, del resto, Rabid assomiglia a un melodramma più che a un horror tradizionale: le scene forti, gli effetti splatter o gli schock emofiliaci e grandguignoleschi sono abbastanza pochi e contenuti, mentre gli arredi, il décor e la claustrofobia della messinscena rinviano piuttosto – sia pure in forma fredda e raggelata – ad alcuni stilemi tipici della tradizione melodrammatica. Le sequenze più inquietanti sono, non a caso, quelle legate all’immaginario medico: l’arnese con cui il dottor Keloid preleva un rettangolo di pelle dalla gamba di Rose anticipa nella sua sadica efficienza chirurgica gli attrezzi ginecologici dei fratelli Mantle in Dead Ringers, mentre tutte le scene ambientate in clinica o in sala operatoria sono come intrise di un’atmosfera malata e allarmante, che trasmette allo spettatore un senso di sottile e indecifrabile disagio. L’unico vero effetto speciale del film – la pustola carnosa che pulsa sotto l’ascella di Rose – ha per di più un esplicito contenuto sessuale: simile ad un’anomala vagina, l’escrescenza (o l’orifizio) che si apre nel corpo di Rose lascia emergere un pungiglione fallico che rinvia a una struttura ermafrodita della sessualità e che richiama, per analogia, l’anomalia del personaggio interpretato da Geneviève Bujold (la donna triforcuta) in Dead Ringers. In Cronenberg la sessualità è sempre mostruosa (il priapismo di The Parasite Murders, la maternità teratologica di Brood, la satiriasi sfrenata del protagonista di The Fly), ma in Rabid è evidente più che mai il contenuto di sopraffazione e di violenza che spesso si esprime nel sesso: non a caso, il pungiglione che esce dal corpo di Rose (Donna Fallica?) è reso visivamente prima in modo ambiguo e sfuggente (pochi fotogrammi, solo un guizzo o un lampo visivo, una traccia turgida di rosso sullo schermo), poi con un primo piano ravvicinato che rompe le regole della verosimiglianza nella sequenza ambientata al cinema (Rose è vestita, ma Cronenberg inquadra un dettaglio di pelle nuda da cui emerge il pungiglione, rompendo violentemente, nel montaggio, ogni regola di credibilità logico-visiva). Che Cronenberg scelga di mostrare il mostruoso proprio (e soltanto!) nella sequenza ambientata in un cinema porno è elemento da non trascurare. Rose, in una delle sue frequenti deambulazioni notturne per Montreal, a caccia di vittime, entra in un cinema a luci rosse in cui si proiettano Party Swapers e Models for Pleasure; qui la ragazza si lascia abbordare da uno sconosciuto e quando questi si fa avanti con le sue goffe e sbrigative avances lo punisce col suo micidiale pungiglione. Che tutto questo avvenga proprio in un cinema, si diceva, non è casuale: come se Cronenberg volesse suggerire ancora una volta, come già in The Parasite Murders, che anche il cinema è infetto che anche il cinema è una camera di incubazione del contagio, o che anche nel cinema si trasmette l’infezione. Come dire, cioè, che il corpo-cinema subisce le stesse mutazioni e le stesse malattie che attaccano i corpi dei personaggi. E che neppure il cinema è immune dall’epidemia che attacca e infetta il corpo sociale. Oltre al cinema, Cronenberg accenna in Rabid anche ad altri due mezzi di comunicazione audiovisiva: la fotografia e la TV. La fotografia appare in una brevissima sequenza, quando Hart ripensa con nostalgia al passato ed accarezza col dito alcune vecchie istantanee che lo mostrano accanto a Rose prima dell’incidente: quasi a dire che la fotografia è il linguaggio visivo di prima della malattia, è la nostalgia di una salute ormai per sempre irrimediabilmente perduta. La TV appare invece a più riprese come il medium che cerca di trasmettere informazioni sul contagio e di combatterlo: non a caso, il film termina proprio sulla voce di uno speaker televisivo che lancia un ultimo messaggio di speranza. Ma attenzione: Rabid termina su una voce, non su una visione televisiva. Quasi a dire che per Cronenberg il video è quel che viene dopo la mutazione, dopo l’epidemia: forse in un futuro stato di salute. Ma la salute, appunto, a Cronenberg non interessa: tanto che azzera il visivo della televisione per confermare, fino in fondo, fino alla fine, che a lui interessano le immagini malate, quelle infette e mutanti di un corpo sociale che sta cambiando: le immagini del cinema. Rose, non a caso, nella sua ultima passeggiata notturna per le vie di Montreal passa davanti al manifesto di Carrie, lo sguardo di Satana: lì non si trasmette il contagio, lo si mostra. Come cerca di fare Rabid: nelle sue immagini notturne e schizoidi, nella sua sintassi secca e sbrigativa, nelle sue temperature fredde e controllate, è quasi una diagnosi medico-scopica su una società che sta cercando di cambiar pelle, ancora convinta che quel che conta sia la bellezza esteriore. Per arrivare alla bellezza interiore dei fratelli Mantle di Dead Ringers mancano ancora una dozzina d’anni, ma Cronenberg è ormai pronto a iniziare il suo viaggio verso l’interno dei corpi (del cinema?): l’orifizio sotto l’ascella di Rose è aperto. E nel décor dell’ultima scena in cui lei appare viva campeggia, non a caso, la scultura di una gigantesca testa umana spaccata in due: quasi un preludio a Scanners, e ai suoi viaggi dinamitardi dentro la testa dell’uomo.
Gianni Canova, David Cronenberg, Il Castoro cinema, 1992

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Critica (3):

Critica (4):
David Cronenberg
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