Dead Man - Dead Man
| | | | | | |
Regia: | Jarmusch Jim |
|
Cast e credits: |
Sceneggiatura: Jim Jarmusch; fotografia: Robby Müller; montaggio: Jay Rabinowitz; scenografia: Bob Ziembicki; costumi: Marit Allen; musica: Neil Young; casting: Ellen Lewis e Laura Rosenthal; coproduttore: Karen Koch; interpreti: Johnny Depp (William Blake), Crispin Glover (il pompiere), John Hurt (John Scholfield), John North (Mr. Olafsen), Robert Mitchum (John Dickinson), Gabiel Byrne (Charlie Dickinson), Lance Henriksen (Cole Wilson), Michael Wincott (Conway Twill), Gary Farmer (Nessuno), Alfred Molina (Missionario), Iggy Pop (Salvatore “Sally” Jenko); produzione: 12 Gauge per Pandora Film, JVC, Newmarket Capital Group e L.P; produttore: Demetra J. Macbride; distribuzione: Lucky Red; origine: Usa, 1995; durata: 115'. |
|
Trama: | Nella seconda metà del XIX secolo, il giovane contabile William Blake intraprende un viaggio verso l’estremo confine occidentale per raggiungere il suo nuovo posto di lavoro in una fabbrica. Giunto nella città, scopre che il lavoro è stato affidato ad un altro contabile. Senza denaro, incontra una donna che lo ospita a casa sua. Qui il fidanzato di lei, geloso, spara alla ragazza colpendo anche William che a sua volta lo uccide. Ferito e braccato, il giovane incontra uno strano indiano, “Nessuno”, convinto che William sia il defunto poeta inglese William Blake. Più diventa debole più le circostanze fanno del giovane un fuorilegge ricercato da cacciatori di taglie fino ad entrare nella leggenda dei fuorilegge. |
|
Critica (1): | Dead Man è un film sulla morte. È la storia di un viaggio all’inferno in cui un indiano, significativamente chiamato “Nessuno”, rappresenta la sola guida in un mondo sconosciuto. Il pellerossa crede di avere a che fare con il vero William Blake, e non con un giovane omonimo, per cui si sente in dovere di rispettare gli antichi riti indiani che possono riconsegnare il poeta Blake alla sua dimensione spirituale. Il regista Jim Jarmusch ha descritto il mondo dei vivi come un luogo popolato da strani personaggi; un universo fragile nel quale il suo protagonista compare già segnato da una ferita profonda. La razionalità avrebbe impedito a William Blake il completo abbandono ai fatti immaginati dall’autore e avrebbe altresì impedito la trasformazione che avviene nel ragazzo. La ferita al cuore invece lo spinge a concedersi quasi completamente agli avvenimenti che lo circondano e più la morte si fa vicina, più il timido contabile venuto dall’Est penetra in quest’universo adattandosi e tramutando sé stesso in uno spietato ed infallibile pistolero. Ipotizzando, con un processo analitico che non ha la pretesa di essere esaustivo, di scomporre Dead Man in spazio della visione e spazio della narrazione, colpisce come alla sovrabbondanza di carne al fuoco profusa dalla storia non corrisponda alcuna concitazione visiva né affanno, bensì un cinema in cui le estremizzazioni narrative e le immagini scorrono seguendo un loro iter che mai tende al sensazionalistico o all’azione “cinetica” pura. Tutto Dead Man è costruito come se il set, i personaggi e tutto ciò che ha il compito di creare il profilmico fossero immersi in uno spazio quasi senza gravità. Non è intenzione di Jarmusch regalare un coinvolgimento dello spettatore con le scene d’azione. La morte arriva, ma non è quasi mai improvvisa. Si spara agli uomini con quella naturalezza che la mitologia western delle forme narrative classiche ha sempre voluto; ma in questo caso la violenza o, in una parola, l’eccesso (teste schiacciate, gole trafitte, sangue a zampilli), si sviluppa con i tempi dilatati tipici dei sogni. L’ingresso di William Blake nella città è preceduto da un viaggio in treno interminabile che ha tutte le caratteristiche di un passaggio dal mondo conosciuto all’Aldilà. E proprio il macchinista/Caronte a mettere in guardia il giovane. L’ultima fermata è l’ingresso nell’inferno e il lavoro che spera di trovare è solo una mera illusione, una scusa che lo porterà alla rovina. Volutamente il regista omette ogni inquadratura fuori del finestrino e concentra l’attenzione dello spettatore sull’atmosfera del vagone, satura di fumi, dove i passeggeri sembrano zombie e dove il senso claustrofobico è sorretto da stranianti ed intermittenti accordi blues del grande Neil Young. Il western si presta perfettamente alla metafora ed è spesso storia di viaggi in luoghi ignoti; ruota quasi sempre intorno a tematiche molto tradizionali come il castigo, il ricatto, la vendetta e la tragedia. Proprio l’incipit nel treno spinge a credere che Jarmusch si sia divertito a compiere una vera e propria trasformazione del genere western. Jarmusch lo usa solo come punto di partenza, riuscendo a plasmarlo e ricondurlo ad una pura visione di un viaggio onirico e doloroso. In questo senso il bianco e nero dello strepitoso direttore della fotografia Robby Müller ha un ruolo fondamentale. Il film narra di un uomo che compie un percorso in un luogo a lui sconosciuto; il colore avrebbe fatto dei paesaggi e degli oggetti qualcosa di riconoscibile e così il bianco e nero è uno dei mezzi espressivi che più riescono a neutralizzare ogni familiarità con luoghi o con oggetti specifici. Jarmusch sa far muovere la macchina da presa con un senso molto personale dell’azione ed allestisce piani sequenza magistrali per essenzialità nella loro lentezza esasperante oppure sequenze complesse e di grande impatto: per esempio quando mostra ai nostri occhi ed a quelli del protagonista l’ingresso e l’attraversamento del villaggio indiano. Lo stesso movimento, quasi la stessa scena di quando il giovane attraversa per la prima volta la città, anche se lì vinceva la curiosità verso un luogo “civilizzato”, anche se molto più selvaggio. Nell’accampamento ci troviamo di fronte immagini spezzate, in movimento, scene di vita quotidiana, curiosità, particolari onirici; sono sguardi indimenticabili quelli degli indiani di Jarmusch, mentre il suo William Blake scende nell’oblio che lo separa dalla morte, oramai non troppo lontana. Dopo aver indugiato a lungo sulla ritualità dolente della vita dura di una città che non offre scampo, il regista americano si sofferma sulle insidie di un bosco pieno di personaggi strani, grotteschi eppure così veri nelle loro maschere esasperate da un bianco e nero che stordisce. I personaggi bizzarri si susseguono senza sosta; penso a Salvatore “Sally” Jenko, interpretato da un irriconoscibile Iggy Pop, il quale mostra il suo travestitismo con una naturalezza sconcertante. Non c’è nulla da ridere in un cow-boy vestito da donna, con stivali e pistole, che abita in un mondo che sembra aver scelto di proteggere solo i diversi. Il John Dickinson di Robert Mitchum è una sorta di autoglorificazione di un personaggio-leggenda (che si mette in posa esattamente come il ritratto alle sue spalle) interpretato da un attore-leggenda. E poi ancora Lance Henriksen, bounty-killer famoso, taciturno e cannibale. La continua, monotematica ed ininterrotta ballata blues di Neil Young regala al film un andamento narrativamente reiterativo, ma è questo in definitiva che Jarmusch cercava. La storia infatti è una continua ricerca di qualcosa (“il passaggio attraverso la superficie di uno specchio porta in un mondo fino a quel momento sconosciuto”) e tutte le tappe, anche se ripetitive, sono necessarie a far in modo che questa strana iniziazione si compia. Molte sono le immagini che rimangono impresse in questa strana, indimenticabile opera di un regista di talento. Ammetto di non aver visto la versione più lunga (di oltre venti minuti, che probabilmente ne danneggiavano l’economia), ma anche in quel caso, sono sicuro, rimaneva intatto lo stupore che regala l’immagine poetica della bellissima ex prostituta che vende fiori di carta. Quel volto, quella figura segue di pochi minuti l’inattesa e scioccante sequenza di un pompino in un vicolo; questa opposizione rende perfettamente l’idea di un film dove le contraddizioni e le forme contrastanti danno vita continuamente a potenti reazioni emotive.
Marco Martani, Cineforum n. 354, maggio 1996 |
|
Critica (2): | |
|
Critica (3): | |
|
Critica (4): | |
| Jim Jarmusch |
| |
|