Sierra Charriba - Sierra Charriba
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Regia: | Peckinpah Sam |
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Cast e credits: |
Soggetto: Harry Julian Fink, da cui, poi, trasse l'omonimo romanzo, pubblicato in Italia da La Frontiera Edizioni; sceneggiatura: Harry Julian Fink, Sam Peckinpah, Oscar Saul; fotografia: Sam Leavitt; scenografia: Al Ybarra; costumi: Tom Dawson; effetti speciali: August Lohman; musica: Daniele Amfitheatrof; montaggio: WilliamA. Lyon, Don Starling, Howard Kunin; interpreti: Charlton Heston (magg. Amos Dundee), Richard Harris (cap. Benjamin Tyreen), Jim Hutton (ten. Graham), James Coburn (Samuel Potts), Michael Anderson jr. (Tim Ryan), Senta Berger (Teresa Santiago), Mario Adorf (sergente Gomez), Brock Peters (Aesop), Warren Oates (O. W. Hadley), Ben Johnson (sergente Chillum), R. G. Armstrong (rev. Dahlstrom), L. Q. Jones (Arthur Hadley), Slilm Pickens (Wiley), Karl Swenson (cap. Walter), Michael Pate (Sierra Charriba), John Davis Chandier (Jimmy Lee Benteen), Dub Taylor (Priam), José Carlos Ruiz (Riago), Aurora Clavell (Melinche), Begonia Palacios (Linda), Enrique Lucero (dott. Aguilar), Francisco Reyguera (il vecchio Apache); produzione: Jerry Bresler Productions; produttore: Jerry Bresler; origine: USA, 1965; distribuzione: Ceiad-Columbia; durata: 120'. |
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Trama: | A capo di un'armata di delinquenti e prigionieri sudisti sta il maggiore Dundee dell'esercito nordista. Egli ha l'incarico di catturare il capo indiano Sierra Charriba che razzia la regione. Dundee però, eseguita la missione (Sierra Charriba muore comunque quasi per caso, ucciso da un giovane trombettiere), cade in una imboscata in territorio messicano. Durante lo scontro perde la vita Tyreen, luogotenente di Dundee e suo amico-nemico per tutto il film. |
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Critica (1): | (...) Dunque, se la chiave di Sfida nell'Alta Sierra era l'opposizione interna al westerner di salvezza e solitudine, di dignità e disperazione, in Sierra Charriba le frustrazioni collettive ed individuali sfociano nella pratica integrale della violenza, un bagno di sangue che coinvolge inseguiti e inseguitori, carcerieri e prigionieri, nullificandone i rispettivi confini: patrioti e banditi nello stesso tempo, Dundee ed i suoi accoliti deridono le regole del gioco, affidandosi alla droga dell'azione per tener fede alle leggi ambigue del vitalismo americano. La morte come prova suprema dell'esistere appare chiaramente idolatria ideologica comune: la risonanza lirico-cromatica dei fatti non fa che sottolineare questo inquietante delirio. Non si tratta più di sopravissuti ma di una sorta di emarginati che vivono il loro tempo con un cinismo radicale, seguendo ognuno i propri fantasmi storico-esistenziali. Il paesaggio, la terra, la roccia, il fiume accompagnano questa marcia fatale senza aggiungere effetti consolatori che non siano quelli attivati dalla materia stessa delle immagini, quasi esprimessero un grandioso rancore per i fuochi delle battaglie continuamente attizzati dagli uomini. Alla base del racconto c'è senz'altro la negazione assoluta della guerra "di civiltà" come sfiatatoio delle contraddizioni sociali, un antimilitarismo limpido, sebbene un po' compiaciuto dell'effetto feroce o abnorme, genericamente ispirato al classico esempio fordiano de Il massacro di Fort Apache (Fort Apache, 1948).
Per quanto riguarda i vuoti strutturali, proviamo a censire le più importanti sequenze eliminate sulla base delle dichiarazioni del regista (...):
(1)Scena d'apertura, in cui lo squadrone di cavalleria, che non è riuscito a rintracciare Sierra Charriba in due mesi di ricerche, si dirige al ranch dei Rostes dove è in corso la festa di Halloween. Vengono presentati Ryan (il giovane narratore) e Beth Rostes che sono innamorati, il tenente Brannin, lo scout Riago, la famiglia Rostes al completo, con i bambini piú piccoli che giocano mascherati da Apache - (2) Scena immediatamente seguente: la lunga, violenta, brutale sequenza del massacro ad opera degli indiani; i Rostes sono tutti uccisi - (3) Scena nella quale Dundee stappa una bottiglia di whisky, complimentandosi con i soldati per la loro condotta nell'attraversamento del fiume. Avvengono due brindisi, uno fatto dal sergente Chillum per i sudisti, l'altro dal reverendo Dahlstrom per i nordisti - (4) Scena nella quale i soldati si rotolano per terra, ridendo istericamente ma in silenzio, perché Dundee non riesce a far muovere la mula che sta cavalcando - (5) Spezzoni della notte di festa al villaggio messicano. Dundee e Tyreen, ubriachi, rivivono i giorni passati insieme a West Point. Lo scout Potts e il sergente Gomez lottano accanitamente con il coltello, forse per gioco, forse seriamente: soldati e messicani li osservano affascinati, ma Dundee rompe l'atmosfera e li separa - (6) Scena nella quale Dundee, distrutto nel morale ed ubriaco, si trascina a Durango, con annesso un flash-back delle sue memorie - (7) La scoperta del cadavere torturato di Riago: Potts vuole che Dundee stesso recida le corde che legano ad un albero lo scout della cui lealtà aveva sempre dubitato - (8) Eliminazione di tutte le scene in cui si delinea il personaggio del disertore O.W. Hadley: è rimasta solo quella della sua morte - (9) Dopo che Dundee ha fatto cadere i suoi uomini nella prima imboscata degli indiani ed il gruppo ha subito gravi perdite, scena di un amaro dialogo tra il maggiore e Ben Tyreen, durante il quale il trombettiere narratore va a bere nel fiume. Mentre sta per portare alle labbra il recipiente che ha immerso nell'acqua, si accorge che è pieno di sangue e lo rovescia disgustato - (10) Il finale in cui tutti dovevano morire.
Si tratta evidentemente di tagli gravissimi, effettuati con motivazioni illegittime. Il massacro del Rostes Ranch, per esempio, che serviva a dare una giustificazione narrativa alla caccia di Charriba da parte di Dundee e Tyreen, è stato eliminato perché costituiva una ouverture troppo lunga e Bresler non era disposto ad accettare un inizio che ritardasse di molti minuti l'introduzione dei personaggi principali. Il senso di incompletezza, dal quale nasce la fallimentare interpretazione che individua nel film il gusto del sadico e dell'orrido tipico del "western-spaghetti", non può che derivare da queste amputazioni: ma anche come semplice film d'azione, depauperato di significati secondi, Sierra Charriba sarebbe sempre ben lontano (questione di date a parte) dal potersi confondere con la casistica demente illustrata dai Django e Sartana di casa nostra. Dundee non è un mafioso, è un uomo tragico, indigesto e fanatico, ma sincero, lacerato com'è sino all'autoannientamento da un lancinante istinto di morte. A volte sembra essere un eroe, altre volte un angelo caduto, un reietto che agisce solo per cieca sete di distruzione. La sua è violenza allo stato puro, furore che durerà quanto l'esasperata persecuzione dell'Apache, accelerazione massima di una pulsione superomistica che diventa persino grottesca: pensiamo a quando viene eseguito il cerimoniale del saluto alla bandiera davanti a dei cavalli rubati. Come il titanico Lord Jim di Conrad, egli ha l'ossessione di una colpa passata da nascondere. Per questo la sua caccia a Charriba è di per se stessa un fine: scopo irraggiungibile per impegnare il corpo nella pericolosità dello scontro ed arrestare i giochi pericolosi dell'intelletto. "Per voi, maggiore, la guerra durerà per sempre" dice Teresa, la donna con cui fa l'amore. Frase emblematica, citatissima a ragione, perché illumina con un bagliore il carattere reale del gigante in uniforme, capace di trascinare nel fango della rapina e dell'omicidio la bandiera a stelle e strisce per la dignità della quale egli ostinatamente si batte: è la nevrosi morale permanente che genera l'atto di coraggio, quello scellerato e quello ridicolo. E del resto quest'odio inumano ha rivestito nella realtà storica un ruolo ufficiale e rispettabile, se vogliamo ricordare - ad esempio - che l'illustre generale William T. Sherman, durante la guerra di Secessione, distrusse in Georgia edifici pubblici e proprietà private per un valore di centinaia e centinaia di milioni, fabbriche e ferrovie incluse, e rase letteralmente al suolo città come Columbia, Richmond e Atlanta (cfr. Nevins e Commager, America, la storia di un popolo libero, Torino, Einaudi, 1947).
La figura del maggiore costituisce una specie di perno, contro il quale urtano a turno tutti gli altri personaggi attratti dalla magnetica rovina della sua follia: in questo fluire di carneficine (viene in mente la frenesia bellica degli affreschi di Luca Signorelii) non c'è un interprete che non sia dannato. Il rapporto Dundee-Tyreen non raggiunge i livelli dialettici attivati da quello Judd-Westrum in Sfida nell'Alta Sierra; perché il primo soffre soprattutto il proprio dualismo interiore, ed anche il secondo, piú che dall'odio contro il suo carceriere, è mosso da un confuso desiderio di amalgamare le diverse anime che ha posseduto. Tyreen è stato emigrante irlandese, ufficiale nordista destituito ed ora è un ribelle sudista: la logica dell'avventura ha sbiadito i motivi delle scelte, trasformando il suo romanticismo in un'aridità non troppo diversa da quella del suo ex amico: " Noi siamo sconfitti, maggiore, seppellire i morti non cambierà nulla ". Incatenato come un malfattore e gonfio di dignità offesa maledice la terra che non è sua, la bandiera che gli è estranea, il maggiore che lo ricatta: sembra ergersi in grandezza al di sopra di Dundee, ma poi è lui personalmente che fredda il disertore, in una sequenza tragicamente rigorosa per la sintesi implacabile delle immagini. O. W. Hadley (W. Oates), fatto cadere da cavallo, striscia per terra pieno di terrore e la macchina da presa lo inquadra dalla sua altezza, mostrando gli stivali dei cavalieri che incombono sulla sua meschinità: poi Tyreen allunga il braccio e spara. Cosí pure lo scout Potts, che alcuni hanno voluto addirittura porre al centro dell'intreccio drammatico, compendia inclinazioni eterogenee dell'uomo di frontiera senza potersi identificare in nessuna di esse: amico degli Apaches o amico degli yankees? Selvaggio o integrato? Solidale con il formalismo di Dundee o con il nichilismo di Tyreen? Come meticcio ha la possibilità di riunire le qualità di Natty Bumppo e di Chingachgook in una sola persona, ma certamente a prezzo di una notevole crisi di identità. L'altro scout, Riago, afferma addirittura di essere un indiano "cristiano" e quando tutti marciano in gruppo, possono giungere sino a cantarsi ognuno il proprio inno: "Dixie" i sudisti, "The Battle Hymn of the Republic" i nordisti e "My Darling Clementine" i civili.
La tara di cui soffrono tutti i personaggi è dunque la "scissione della personalità"; la super-violenza è gestita da alienati, al limite della psicosi, la cui ambivalenza spirituale attinge ad oscuri istinti e profonde paure. La palma dell'atrocità spetta ai lancieri di Massimiliano, parenti stretti di quelli apparsi in Vera Cruz di Aldrich dieci anni prima: allora erano deliranti farabutti, adesso sono silhouettes glaciali ed efficienti che si producono in una splendida carica, arrestabile solo a cannonate. Disastrosa risulta l'elaborazione del personaggio femminile e cioè di Teresa, la giovane austriaca dispersa nel Messico juareziano, una donna sofisticata nei modi del fumetto, che si concede al maggiore nella sequenza del bagno con un piglio stridente e pressoché insopportabile. La suggestione di questo amore nei boschi è annullata non dalla sua manierata "bellezza" che è indiscutibile, ma dal suo atteggiamento tutto artefatto e studiato, confusione estrema di un'astuzia del copione, rovesciamento in chiave tradizionale di un rapporto che - dati i caratteri e la situazione - doveva attuarsi con piú ambiguità o non attuarsi affatto. Il passo indietro rispetto all'Elsa di Sfida nell'Alta Sierra è gigantesco: Peckinpah si rammarica molto di questa caduta e l'attribuisce all'incapacità dell'attrice Senta Berger, che gli è stata imposta.
Ma tutte le falle che si aprono nel film possono ricondursi a compromessi di questo genere, che stemperano la grinta stilistica dei fatti in nessi e diramazioni dissonanti. Per quanto riguarda gli indiani, non c'è dubbio che essi siano partecipi della ferocia collettiva: non è stata infatti operata la trasposizione di moda, cioè rovesciare sul pellerossa altro la soma dei buoni sentimenti di matrice bianca. Uccidono e saccheggiano, né piú né meno di come fanno le "giubbe blu" e la cavalleria francese, ma il loro imperativo morale è radicalmente diverso; è la loro terra quella che difendono, è la loro radice culturale quella che cercano di proteggere con le armi in pugno: non sono docili hippies, ma terribili guerrieri che la civiltà nemica deve temere. Molti dettagli avrebbero l'ambizione di suturare l'immagine del Paradiso perduto, squarciata dal sapore amaro dell'intolleranza e del massacro, con la dimensione approssimativa di un abborracciato realismo che rintracci delle motivazioni naturalistiche; ma da questa caduta nella presunzione il regista si è salvato, affidando la qualità delle osservazioni alla responsabilità del narratore, il giovane Ryan, testimone naif e involontariamente comico della spedizione: "Vigilia di Natale, tutto è calmo" racconta il suo diario, e sullo schermo appaiono due soldati che rotolano per terra lottando ferocemente. Il potenziale racchiuso in ogni atto resta cosí essenzialmente ambiguo, coerentemente alla personalità schizoide di quasi tutti i personaggi che solo nelle situazioni indefinite si trovano a proprio agio. Comunque il "male di vivere" dei due autunnali pistoleri di Sfida nell'Alta Sierra non è stato risolto nello scientifico abbrutimento della guerra totale, ma anzi ha prolungato i suoi effetti al di là di ogni protezione morale: "La guerra è semplice, gli uomini possono capirla" spiega Dundee. E la rettitudine tradizionale, nullificata nell'uso morboso dell'azione non può ormai contenere la dilagante angoscia della cattiva coscienza americana. Niente a che vedere dunque con l'idolatria dell'eroe-delinquente propinata in film di guerra come Quella sporca dozzina (The Dirty Dozen, 1967) di Aldrich, in cui il sadismo contro il nemico viene indicato come gloriosa espiazione del reato comune.
C'è solo un episodio che riesce - temporaneamente - a collegare il regno della realtà con quello dell'utopia: la truppa entra in un villaggio messicano per saccheggiarlo. Ma il luogo è squallido, gli abitanti miserabili; il progetto viene abbandonato ed anzi si organizza una festa notturna che restituisce la serenità a tutti, indigeni e conquistatori. La pausa acquista i toni sussurrati della nostalgia, l'allegria è generale, si balla, si intrecciano flirt con le ragazze del posto (valga per tutti quello tenerissimo del narratore Ryan); ed è il rinvio malinconico all'altra faccia dell'esistenza, ad un mondo senza guerre e dolori, se non felice, almeno prodigo di quelle sensazioni semplici che possono reinventare l'uomo, il soldato abbrutito dalla missione repressiva: sia Dundee sia Tyreen, appoggiati insieme ad un muretto scrostato, ne hanno la precisa percezione. Una rapida riflessione comparativa sugli esempi classici (e soprattutto sul Ford della trilogia militare: Il massacro di Fort Apache, I cavalieri del Nord Ovest, e Rio Bravo) e sugli sberleffi del western italiota può dimostrare l'originalità dei toni in Sierra Charriba. Mentre nei primi persisteva la mistica divisione tra "buoni" e "cattivi", l'incorruttibilità di fondo che riscatta anche gli abusi e nei secondi si è istituzionalizzata la figura del killer sadomasochista, avanzo di galera, grassatore belluino, scalmanato ed ebete, nel film di Peckinpah sono abolite le categorie fisse e nei tormentati protagonisti si mescola liberamente la caotica tensione di un West come mondo perduto a tutte le certezze.
Dal punto di vista strettamente tecnico, ammesso che sia lecito parlarne a parte, è evidente come il tentativo di Peckinpah sia stato soprattutto quello di arricchire le immagini con un carico di particolari talmente ingranditi, con una cura cosí sensuale per la forma, da approdare a un delirio figurativo di tipo barocco. In questo senso i movimenti della macchina da presa sono programmati con armonica intelligenza, in variazioni quasi musicali, su di un ritmo cadenzato di base. Come ha perfettamente individuato Raymond Bellour: "Nulla è piú difficile da spiegare con le parole degli accordi perpetui del colore e di questa appassionata attenzione nei confronti di ogni materia, che amalgama in una sola colata i gesti degli esseri e le forme del paesaggio con una successione di tonalità in movimento perpetuo. Si tratta, nelle sequenze del forte, all'inizio, del blu e del bruno che si mischiano, bruno dei muri, della terra e delle uniformi dei soldati ribelli, blu di quelle nordiste, del cielo e della notte che sta calando. Si tratta, durante le cavalcate, delle grandi immagini immobili ove i cavalieri si disegnano a stento sulla pesantezza smorta dell'orizzonte; e durante le numerose battaglie, contro gli indiani o i soldati francesi vestiti di rosse, sfavillanti uniformi, ogni gesto appare come una scia di colore, e l'abilità, spesso magistrale, del montaggio è tutt'intera al servizio di un'armonia che non finisce mai di ravvivarsi" (La Beauté de l'image, in " Nouvelle Revue française ", n. 151, 1965).
Il finale scelto dalla Columbia ci mostra la decimata pattuglia allontanarsi nell'oppressiva solitudine del deserto. La macchina da presa, che nei film fordiani aveva scoperto la geometria proprio in una colonna di cavalleria, abolisce ogni aureola di leggenda, l'atmosfera si fa sottilmente lacerante. Questi sono uomini di un'altra razza, la loro andatura incerta congela la tristezza: l'incubo è già cominciato, il declassamento è radicale, la tragedia e la storia fanno ormai un tutt'uno. (...)
Valerio Caprara, Sam Peckinpah, L'Unità/Il Castoro, 11/1995 |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
| Sam Peckinpah |
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