Tutta la mia vita in prigione - In Prison My Whole Life
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Regia: | Evans Mark |
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Cast e credits: |
Soggetto: dal libro di Mumia Abu-Jamal, Marc Evans, William Francome; fotografia: Ari Issler; musiche: Massive Attack, Neil Davidge-canzoni di Snoop Dogg e Wyclef Jean; montaggio: Mags Arnold; effetti: Foreign Office; interpreti: Mumia Abu-Jamal, William Francome, Amy Goodman, Mos Def, Alice Walker, Angela Davis, Steve Earle Snoop Dogg Robert Meeropol, Boots, Noam Chomsky, Russell Simmons, Howard Zinn; produzione: Livia Giuggioli-Firth, Nick Goodwin Self per Nana, in collaborazione con Domenico Procacci per Fandango; distribuzione: Fandango; origine: Gran Bretagna-Usa, 2007; durata: 94’. |
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Trama: | Il documentario racconta la storia del giornalista americano di colore Mumia Abu-Jamal, che sin da giovane si mette in evidenza tra le 'Pantere Nere' e che, dall'inizio della sua carriera, si schiera contro la corruzione della polizia nello Stato della Pennsylvania. Licenziato dalla stazione radio in cui lavorava, per sbarcare il lunario è costretto a fare il tassista. All'alba del 9 dicembre 1981 Abu-Jamal viene coinvolto in una sparatoria nel quartiere sud di Philadelphia. Arrestato, è accusato dell'omicidio di un poliziotto, Daniel Faulkner, e processato. Giudicato colpevole, nel 1982 viene emessa la sua condanna a morte. Nel 1999 un vecchio sicario, Arnold Beverly, confessa all'avvocato di Jamal di aver ucciso lui il poliziotto, ma la sua testimonianza non viene presa in considerazione. Nel 2003 vengono respinti gli ultimi ricorsi e il suo caso passa alla Corte Federale. Abu-Jamal diviene il simbolo della lotta contro la pena di morte. Per dimostrare quanto sia cambiata negli ultimi 25 anni l'opinione pubblica nei confronti della pena di morte, la sua storia è vista attraverso gli occhi di William Francome, un ragazzo bianco appartenente alla media borghesia inglese, nato lo stesso giorno in cui era stato commesso l'omicidio. |
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Critica (1): | Tutto ha inizio il 9 dicembre 1982. Quel giorno nasce William Francome. Quella stessa notte Wesley Cook viene arrestato. Sono passati più i venticinque anni, che vengono scanditi, ossessivamente, giusto per dare un'idea di cosa significhi un tale lasso di tempo. Scorrono i secondi, i minuti, le ore, i giorni, gli anni. William cresce, Wesley è sempre in carcere. Solo che nessuno più lo conosce come Cook, tutto il mondo lo riconosce come Mumia Abu Jamal. Condannato a morte per l'uccisione di un poliziotto dopo uno di quei processi in cui non si cerca il colpevole di un delitto ma un colpevole da dare in pasto all'opinione pubblica indignata. Questa è la premessa di Tutta la mia vita in prigione (In prison my Whole Life), il documentario di Marc Evans sostenuto da Amnesty International. Già perché non è solo un'aberrazione quella che lascia Mumia in galera nel cosiddetto braccio della morte, quindi con un surplus di regolamenti e restrizioni che lo costringono all'isolamento dopo tutti questi anni e con quella possibilità sempre in agguato. Per fare un esempio, Mumia ha diritto solo a una telefonata di qualche minuto a settimana. Lui da tempo la utilizza per fare il suo lavoro, quello di giornalista, quindi diffonde via radio e via internet i suoi servizi su quel che accade in un mondo che gli è precluso da più di un quarto di secolo. Nel frattempo William, educato liberalmente dalla madre, ripercorre le vicende capitate a Mumia, incontra personaggi di rilievo che si sono occupati della questione come Noam Chomsky, Steve Earle, Alice Walker, Mos Def, Angela Davis, Snoop Dogg e finalmente anche lo stesso Mumia. Le immagini che scorrono sono una sistematica opera di demolizione del castello accusatorio basato solo su pregiudizi razziali e ingiustizia. L'obiettivo è quello di far riaprire il processo perché nel frattempo molti fatti nuovi e testimonianze si sono aggiunte allo sbrigativo svolgimento della farsa che portò alla condanna. E finalmente il grande pubblico potrà anche capire meglio chi fosse Wesley Cook giornalista afroamericano, scomodo, ficcanaso che denunciava il razzismo strisciante e quello esplicito, come avvenne quando la polizia, per stanare un gruppo antagonista, i Move, non esitò a bombardare letteralmente l'edificio dove si erano asserragliati facendo strage, anche di bambini. Queste erano le storie che raccontava Mumia. Queste erano le vicende che lo rendevano particolarmente inviso all'establishment. Al punto che venne cacciato dalla radio per cui lavorava e per campare fu costretto a fare anche il tassista di notte. Come quella maledetta notte del dicembre del 1982 quando capitò sul luogo in cui morì ammazzato il poliziotto Daniel Faulkner.
Antonello Catacchio, Il Manifesto, 8/2/2008 |
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Critica (2): | Potrebbe sembrare un documentario antiamericano In my whole life di Marc Evans (...). Invece, a ripensarci a freddo, è un vero tributo d'amore alla patria della democrazia. Un grido d'allarme che Evans, regista gallese, già autore di Resurrection Man e Snow Cake, lancia perché si preservino i principi che hanno reso grandi gli Stati Uniti.
Il documentario racconta la storia di uno dei casi più controversi della giustizia americana, quello di Mumia-Abu Jamal. Wesley Cook, questo il vero nome di Mumia, afro-americano, nato a Filadelfia nel 1954, fu giovanissimo "ministro dell'informazione" delle Black Panther, un movimento che si batteva, anche con l'uso della violenza, per l'emancipazione della minoranza nera. Giornalista free lance e tassista per sbarcare il lunario, la notte del 9 dicembre 1981, Mumia si trova ad assistere per caso a una discussione tra suo fratello e un poliziotto, Daniel Faulkner. In seguito a una colluttazione l'agente Faulkner muore,ucciso da uno o più colpi di pistola, Mumia viene trovato steso a terra, ferito, il fratello di Mumia tremante, in stato di shock. Il processo dura sei mesi in un clima di aspre contestazioni e si conclude con la condanna a morte di Mumia, rinviata numerose volte, ma in attesa di esecuzione.
Mumia aspetta il suo destino nel braccio della morte in un carcere della Pennsylvania da 25 anni, scrivendo e parlando alla radio e il suo caso non smette di dividere gli Stati Uniti. Forte è il movimento anti-Mumia, quanto quello che sostiene, assieme ad Amnesty International, Human Rights Watch, il Parlamento europeo e Nelson Mandela, l'illegalità di processo e condanna.
«Le domande attorno a cui ruota la questione sono tre – spiega Evans –: la giuria fu scelta su base razziale, fu influenzata, il giudice era razzista?».
Il documentario è un appassionante reportage sul caso attraverso una doppia lente, quella di un ragazzo, William Francome, cosceneggiatore del lavoro, nato lo stesso giorno in cui fu commesso l'omicidio Faulkner, (da qui il titolo In prigione tutta la mia vita), e quello di Evans, vent'anni più vecchio.
«È stata una discussione tra due generazioni, quella di Will, che ha conosciuto la cultura nera e il caso Mumia dall'hip hop e dal web, e la mia, che ha vissuto gli anni dell'attivismo, della protesta politica. Ne abbiamo discusso con grandi protagonisti, intervistati con l'innocenza e lo sguardo pulito di un ragazzo di 25 anni».
Nel documentario intervengono infatti Noam Chomsky, intellettuale di fama mondiale e professore di linguistica al Massachussets Institute of Technology, Angela Davis, filosofa, vicina alle Black Panther,arrestata e assolta per l'omicido del giudice Harold Haley, Alice Walker, autrice afroamericana e femminista, premio Pulitzer per Il Colore viola, Steve Earle, cantautore politicamente impegnato, Snoop Dogg, rapper attivista e sostenitore dei diritti umani.
«Mumia è un personaggio fortemente controverso. Molti preferiscono non parlare di casi come questi, perfino coloro che si battono per l'abolizione della pena di morte. In tanti sono convinti dell'innocenza di Mumia, ma c'è un movimento molto importante che è sicuro della sua colpevolezza. Come dice Chomsky, se ignori Mumia, ignori i soggetti più scottanti e non ti confronti con i temi politici che sono il perno della vita di questo Paese. Per questo Chomsky era ansioso di parlarne e ha accettato di riceverci, nonostante i suoi innumerevoli impegni ». E infatti In prison my whole life è un affresco della situazione della democrazia statunitense, senza tralasciare la guerra in Iraq e le torture di Abu Graib.
«Non sappiamo se il senso democratico degli Stati Uniti sia al capolinea, sicuramente è in un momento molto buio. È fondamentale rifletterci sopra anche per noi europei, che siamo parte di quel mondo che critichiamo».
E Mumia, la voce dei senza voce, come viene chiamato negli States, cosa pensa del film? «Ci ha dato il suo appoggio, ma le norme del carcere gli impediscono di vedere il nostro lavoro. La cosa più bella sarebbe che un giorno potesse commentarlo con noi. Vorrebbe dire che la sua situazione giudiziaria sarebbe cambiata».
Cristina Battocletti, Il Sole-24 Ore, 14/102007 |
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