Appunti di viaggio su moda e città - Aufzeichnungen zu Kleidern und Städten
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Regia: | Wenders Wim |
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Cast e credits: |
Soggetto: da un'idea di François Burkhardt; sceneggiatura: Wim Wenders; fotografia: Robbie Müller, Muriel Eldstein, Uli Kudicke, Wim Wenders, Masatoshi Nakajima, Masashi Chikamori; musica: Laurent Petigand; montaggio: Dominique Auvray, Lenie Savietto, Anne Schnee; suono: Jean-Paul Mugel, Axel Arft, Reiner Lorenz; interpreti: documentario sullo stilista di moda Yohji Yamamoto; produzione: Road Movies Filmproduktion; distribuzione: AGADEMY; durata: 81'. |
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Trama: | Fra Parigi e Tokyo, il ritratto - molto personale e "problematico" - di uno dei maggiori stilisti contemporanei, il giapponese Yohji Yamamoto. La moda e il cinema: due universi apparentemente lontani accomunati da una medesima ricerca di identità "altra". |
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Critica (1): | Wenders riceve in regalo da Solveig una giacca e una camicia disegnate dallo stilista Yamamoto. Nulla di sconvolgente, sulle prime. Ma la scoperta di ciò che quella giacca e quella camicia inverano in termini di identità induce il regista a saperne di più. Sul conto del loro "autore", Yamamoto appunto, ed anche sulla moda, sulle possibili convergenze stilistiche, formali ed "espressive" esistenti fra l'uno e l'altro "linguaggio", sull'eterno problema di "darsi" uno stile senza ripetersi. Ovvero di ripetersi sforzandosi di restare originali. E' alla luce di questi "parallelismi" e di queste suggestioni che nasce Appunti di viaggio, documentario intermedio (fra Il cielo sopra Berlino e l'imminente Fino alla fine del mondo) esattamente come lo fu Tokyo-ga (fra Paris, Texas e Il cielo sopra Berlino), nati entrambi da una curiosità intellettuale che non si esaurisce mai nell'oggetto della ricerca, trascendendo in certo modo l'elemento narrativo contingente pur ad esso strettamente correlandosi. Il fatto è che Wenders si sente davvero bene con quegli abiti addosso, li sente suoi, e vuol saperne il perché. Yamamoto sta al gioco e si spiega. Capiamo che pur non essendo un ambizioso ha accettato sino in fondo la legge della competizione (riponendo da qualche parte quella del desiderio). Sfoglia in continuazione vecchi album fotografici di August Sander e mostra di trarre da lì l'essenzialità ispirativa per cui è famoso. Parla della cucitura di una manica o della piega di un collo con la competenza e la passione del fatto estetico in via di compimento - esattamente come uno scrittore potrebbe illustrarci i passi salienti di un suo romanzo, o un regista le sequenze chiave di un film. Parla di tante altre cose ancora - dell'infanzia non troppo felice, della madre, del padre, del Giappone di ieri e di oggi, del suo rapporto con le donne e con gli uomini - e il discorso scivola verso i grandi temi della vita con una semplicità disarmante, non senza preoccupanti e insolite (almeno per uno stilista di successo) affermazioni. Del tipo: "Spero di invecchiare in fretta, non vedo l'ora di farla finita. Non vedo alcun inizio nel mio futuro. Mi attende solo la fine". Scarno, serio, sofferto, anche un po' lugubre se vogliamo, Yamamoto fa dell'esistenzialismo la cifra più intima del suo apparire. Quando all'essere, chissà dove se ne sta rintanato: come il cinema, anche la moda è frivola, ma apre varchi che possono nascondere abissi... Il punto è che Wenders continua a sentirsi benissimo dentro a questi vestiti. E non è la sola sorpresa. Scope le (sino a quel momento aborrite) virtù del video. Lo attrae l'assenza di negativo, la leggerezza e duttilità del filmare, la durevolezza del filmabile. E sconcertato dalla presa d'atto della definitiva "morte" del cinema classico ma non ne fa più un dramma e cerca anzi di capire da Yamamoto - così moderno, così classico - come sia possibile far convivere il vecchio e il nuovo, il vissuto antropologico delle immagini di Sander e le stilizzazioni funzionali dello stilista contemporaneo. Il parallelo sulle procedure "collettive" che accomunano moda e cinema lascia il tempo che trova: ovvio e persino un po' banale detto da Wenders. Ma questa comunanza del rapportarsi all'unico originale ormai possibile - la memoria visiva - in un'epoca in cui la registrazione magnetica, annullando la pellicola negativa, ha finito per annullare l'idea stessa di copia originale, lo intriga talmente che non può fare a meno di riflettere a voce alta. E di concedersi nuovi motivi di moderato entusiasmo dopo le angeliche epifanie del Cielo sopra Berlino. Il video non è più "virus della totale assenza di linguaggio" (parole sue, di qualche anno fa). Resta da stabilire che cos'è e quali nuove implicazioni estetiche, formali, persino comportamentali e sentimentali esso comporti. Resta, insomma, da stabilire dove sta andando il cinema, vecchio linguaggio /nuova tecnologia per interrogarsi sulle domande (forse senza risposta) di sempre.
Roberto Ellero, Segno Cinema n. 46 novembre - dicembre 1990 |
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