Matti da slegare - Nessuno o tutti
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Regia: | Agosti Silvano, Bellocchio Marco, Rulli Stefano, Petraglia Sandro |
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Cast e credits: |
Soggetto: Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Sandro Petraglia, Stefano Rulli; fotografia: Ezio Bellani; montaggio: Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Sandro Petraglia, Stefano Rulli; produzione: 11 Marzo Cinematografica per l’Assessorato Provinciale Sanita’ di Parma e Regione Emilia-Romagna; origine: Italia, 1975; durata: 120'. |
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Trama: | Oltre 10 anni fa lo psichiatra Franco Basaglia indicò un obiettivo determinato da perseguire nella cura delle malattie mentali e del disadattamento: svuotare lentamente i manicomi, da lui considerati i ghetti dell’emarginazione ed evitare nuovi ricoveri con un lavoro di prevenzione nei quartieri, nelle fabbriche, nelle scuole. Per documentare questa tesi, il film penetra all’interno dell’ospedale psichiatrico di Colorno (Parma) oppure segue all’esterno alcuni dei ricoverati dimessi e impegnati, grazie alle esperienze delle amministrazioni interessate, in fabbriche in fattorie e così via. In alcuni casi le dichiarazioni degli intervistati sono discusse tra loro stessi e tra persone chiamate in causa, come un anziano sacerdote. Il tutto finisce con una delle feste da ballo organizzate nell’istituto di Colorno. |
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Critica (1): | L’esperienza negativa di Sbatti il mostro in prima pagina lascia il segno. Lo stesso Bellocchio non se ne dichiara soddisfatto: ne trae tutt’al più la spinta per una nuova direzione di ricerca. In collaborazione con Silvano Agosti (autore in un passato non lontano de Il giardino delle delizie e di NP Il segreto), con Sandro Petraglia e Stefano Rulli, critici cinematografici (il primo, soprattutto, autore d’una interessante monografia su Pasolini), nasce Nessuno o tutti, girato a 16 mm, della durata complessiva di 3 ore. Da questa è stata successivamente ricavata, per ragioni di distribuzione, un’edizione a 35 mm, di due ore e un quarto, cui è stato dato il titolo Matti da slegare (che era il titolo della seconda parte dell’edizione originale). Il film, realizzato collettivamente su proposta dell’Amministrazione Provinciale di Parma, è dedicato a un problema di grande attualità, quello dei "malati di mente", delle loro condizioni di vita e della loro possibilità d’inserimento nella "vita normale".
Film d’intervento, militante anche se libero da impegni programmatici e lontano da condizionamenti propagandistici, esso si costruisce attraverso una struttura composita, che recepisce moduli del cinéma verité (i lunghi racconti dei protagonisti davanti alla macchina da presa), del documentario (l’impiego esclusivo di brani "dal vero"), del "cinema militante" stesso (l’accostamento e l’interiezione usati in chiave polemica). A volte intervengono spiegazioni ufficiali, ma quasi sempre sono i protagonisti stessi a raccontarsi: l’immagine coincide totalmente con il narrato. Non si tratta mai di una rappresentazione passiva d’un dato di fatto, bensì l’esplorazione d’una realtà che è da trasformare, che viene trasformata dal film stesso. E quanto più gli autori sembrano avvicinarsi al "materiale", esservi presenti, tanto più il film ce li mostra lontani, mediatori non invadenti anche se partecipi. Lo stesso Bellocchio non indulge al sarcasmo e al grottesco, lascia significativamente che esso si liberi dalla realtà stessa (come nel dialogo col prete o nel tentativo di entrare in una "clinica" o di far parlare una suora). Il grottesco diventa così uno dei significati essenziali d’una realtà che piomba quotidianamente la propria tragedia nell’assurdo. E tuttavia il film non si arresta di fronte all’assurdo, non scivola nella moralistica e mistificante dichiarazione d’impotenza (che è poi solo atto di autocastrazione): vi lievitano fantasmi contraddittori, emergenze e stimoli che si fanno progressivamente presenza fisica, corpo e vita d’una condizione emarginata e vilipesa, rifiutata e coatta, di cui non è difficile scorgere tutte le implicazioni politiche verso un esterno composto da maggioranze più o meno silenziose. In questo senso il film, più che testimoniare una situa-zione-margine, affronta proprio la sua marginalità, cioè la confronta con ciò da cui essa è esclusa. Di qui la sua continua tensione dialettica e provocatoria, che supera i limiti di quell’umanitarismo generico di tante operazioni del genere: non esiste l’Uomo emarginato o umiliato come figura astratta, neppure nella forma d’una riassuntiva "tipicità"; esistono al contrario degli uomini, figure concrete, concreti protagonisti di vicende di cui l’assurdità è solo una maschera di comodo. Da questa verità oggettiva, che non ha pretese emblematiche, nasce la verità del film, che è interpretazione di quella, che è nuova realtà prodotta accanto (e contro) quella istituzionale.
Film difficile da realizzare, nella sua ricerca d’un equilibrio tra autore e protagonista, laddove entrambi sono carne e ossa, Nessuno o tutti realizza la sua fusione nel trasformare la realtà, il dato, il referente, in vero e proprio Soggetto del film. Non illustra, fa parlare. Non sono gli autori a porsi come mediatori paternalistici di un discorso non loro, ma è la loro immedesimazione con i protagonisti: non ci sono a inquinarla sbavature moralistiche, sovrapposizioni ideologiche, velleità scandalizzate; di fronte alla totalità della Regola la partecipazione da puramente umana diventa coscienza di classe.
Tutto ciò nasce anche da una precisa scelta metodologica: "avevamo steso un progetto minimale che poi è saltato quasi completamente. Ci è stato utile come binario, come traccia, ma poi i rapporti, con i ragazzi specialmente – i quali ci seguivano in tutte le direzioni e quindi erano non solo davanti ma anche dietro la macchina da presa – sono stati così stretti da modificare sostanzialmente quanto ci eravamo prefissi" (S. Petraglia, Matti da slegare, Torino 1976). In questo rapporto di stimolazione, che è subito confronto critico attivo con la realtà, "il fatto di parlare lo stesso linguaggio ideologico ha funzionato nel senso di una spontaneizzazione immediata" (S. Agosti, ibidem): ha tracciato le linee della collaborazione-immedesimazione autori/protagonisti, ma ha restituito anche una materia di grosse dimensioni, come un flusso di immagini improvvisato; "il materiale filmato" è risultato, "anche nei suoi aspetti più negativi, molto vivo, aveva una sua vitalità per cui non lo si poteva spezzare così come si fa normalmente in un film" (S. Agosti, ibidem). Tre settimane sono servite alla preparazione, altre tre alle riprese, circa otto mesi per il montaggio: scelta, accostamenti, consequenzialità, frantumazione; tutto un lavoro di scavo su una materia informe cui non si poteva imporre una forma qualsiasi, che avrebbe tradito tutto il lavoro precedente. Questi "otto mesi, se vogliamo, sono serviti a girarlo, il film, non solo a montarlo. In altre parole sono anche il frutto della nostra impreparazione a gestire quella realtà in modo corretto" (S. Agosti, ibidem). Un’operazione diacronica che restituisce il senso d’una conoscenza in atto nelle fasi logiche. Se "il film è stato veramente costruito alla moviola" (M. Bellocchio, ibidem), il montaggio diventa una sorta di riscrittura all’interno d’un discorso già fatto, una seconda operazione critica che si innesta sulla prima senza modificarne la sostanza, un lavoro di sintesi che segue il lavoro d’analisi, senza contraddirla né forzarla.
Questa costruzione continua, che avvicina gli autori e li allontana, che si sposta continuamente dal piano dell’aggressione immediata a quello della riflessione, si percepisce lungo l’arco del film come una lacerazione che investe in modo diretto anche lo spettatore: questi non è chiamato a vedere un film, ma ad esserne parte; diventa implicitamente il termine di confronto esterno, il margine con cui il film si confronta continuamente. Il riconoscersi dalla parte (sentimentale o ideologica) degli emarginati si fonde alla coscienza, come sempre ambigua, di essere parte di quel "sistema" che produce l’emarginazione. L’immedesimazione autore/ protagonista relega lo spettatore ad un ruolo straniato, da cui può giudicare solo ciò che è straniato, cioè solo se stesso come parte di quelle forze che producono quella emarginazione che è causa prima dello straniamento. La provocazione è sotterranea, non ha mai i toni esuberanti della propaganda e della polemica: ma proprio per questo è più viva ed inquietante.
G. Cremonini, Marco Bellocchio tra il "personale" e il "politico", Imola |
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Critica (2): | Uno dei pochi esempi davvero convincenti di cinema militante italiano, capace di sviscerare il tema della "pazzia" con un'analisi reale che si giova degli apporti e delle lotte degli antipsichiatri e delle esperienze di recupero con gli operai emiliani.
P. Mereghetti - Dizionario dei film |
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Critica (3): | La conquista della libertà del malato deve coincidere con la conquista della libertà dell' intera comunità. Questo, in estrema sintesi, il pensiero rivoluzionario di Franco Basaglia, lo psichiatra cui si deve l'introduzione in Italia della legge 180 e la chiusura dei manicomi. Laureatosi nel 1949, si specializzò, nel 1953, in Malattie nervose e mentali. (...) Nel 1958 ottenne la libera docenza in Psichiatria. In quel tempo prestava la sua attività lavorativa a Padova, dove era assistente presso la Clinica di malattie nervose e mentali. Prorettore dell'ateneo padovano era all'epoca Massimo Crepet, pioniere della medicina del lavoro ed amico personale di Basaglia, che già allora veniva visto, in ambiente medico, come una 'testa calda' e per questo un po' emarginato. Nel 1961, questo stato di cose indusse Basaglia a rinunciare alla carriera universitaria e ad andare a Gorizia, dove aveva vinto un Concorso per la Direzione dell'Ospedale psichiatrico. (...) L'impatto con la realtà del manicomio fu durissimo. Nel manicomio c'erano cancelli, inferriate, porte e finestre sempre chiuse; catene, lucchetti e serrature ovunque. Le terapie più comuni erano la segregazione nei letti di contenzione, la camicia di forza, il bagno freddo, l'elettroshock, la lobotomia. "Un malato di mente entra nel manicomio come 'persona' per diventare una 'cosa'. Il malato, prima di tutto, è una 'persona' e come tale deve essere considerata e curata (...) Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone" - ripeteva il nuovo Direttore ai medici ed agli infermieri del suo manicomio". Basaglia si era infatti avvicinato alle correnti psichiatriche di ispirazione fenomenologica ed esistenziale (Jaspers, Minkowski, Binswanger) cercando di seguire il modello della "comunità terapeutica", di origine inglese, all'interno dell'ospedale. Per poter affrontare degnamente la malattia mentale dunque, Basaglia si convinse che ogni pregiudizio terapeutico doveva essere messo tra parentesi, sospeso. Solo in questo modo il malato poteva essere libero e raggiungibile su un piano di libertà. I suoi riferimenti teorici furono Sartre, soprattutto per quanto riguarda il concetto di libertà, Foucault e Goffman per la critica all'istituzione psichiatrica. Nel manicomio di Gorizia erano allora ricoverati 650 pazienti: con la direzione Basaglia cominciò, in questa istituzione, una vera e propria rivoluzione. Vennero ad esempio eliminati tutti i tipi di contenzione fisica e le terapie di elettroshock, furono aperti i cancelli, ponendo i malati nella condizione di essere liberi di passeggiare nel parco, di consumare i pasti all'aperto. Per i pazienti non dovevano esserci più solo terapie farmacologiche, ma anche rapporti umani rinnovati con il personale della "comunità terapeutica". I pazienti dovevano essere trattati come uomini, uomini "in crisi", certo: una crisi esistenziale, sociale, familiare, che però non era più "malattia" o "diversità". Nel 1969 lo psichiatra lasciò Gorizia e, dopo due anni passati a Parma alla direzione dell'ospedale di Colorno, nell'agosto del 1971, divenne direttore del manicomio di Trieste, il San Giovanni, dove c'erano quasi milleduecento malati. Basaglia istituì subito, all'interno dell'ospedale psichiatrico, laboratori di pittura e di teatro. Molti ricordano che una macchina scenica, un cavallo costruito in legno e cartapesta, fu fatto sfilare in corteo per le vie di Trieste, seguito da medici, infermieri, malati ed artisti. Nacque anche la cooperativa dei pazienti, che così cominciavano a svolgere lavori riconosciuti e retribuiti. Ma questa volta Basaglia sentiva il bisogno di andare oltre la trasformazione della vita all'interno dell'ospedale psichiatrico: il manicomio per lui andava chiuso ed al suo posto andava costruita una rete di servizi esterni, per provvedere all'assistenza della persone affette da disturbi mentali. Nel 1973 Trieste venne designata "zona pilota" per l'Italia nella ricerca dell'Oms sui servizi di salute mentale. Nello stesso anno Basaglia fondò il movimento Psichiatria Democratica. Nel gennaio 1977, in una affollatissima conferenza stampa, Franco Basaglia e Michele Zanetti, presidente della Provincia di Trieste, annunciarono la chiusura del San Giovanni entro l'anno. L'anno successivo, il 13 maggio 1978, fu approvata in Parlamento la legge 180 di riforma psichiatrica. |
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Critica (4): | |
| Stefano Rulli |
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