Temporale Rosy
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Regia: | Monicelli Mario |
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Cast e credits: |
Soggetto: da una novella di Carlo Brizzolara; sceneggiatura: Age, Scarpelli, Mario Monicelli, Carlo Brizzolara; fotografia: Tonino Delli Colli; montaggio: Ruggero Mastroianni; musica: Gianfranco Plenizio; interpreti: Gérard Depardieu, Faith Minton, Helga Anders, Gianrico Tedeschi; produzione: Pea, Les Prod. Artistes Assoc., Artemis Film; origine: Italia - Francia - Germania, 1979; durata: 116'. |
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Trama: | Il pugile Raoul "Spaccaporte" chiude la carriera per un banale incidente. Si innamora di Temporale Rosy, una campionessa di catch, ma la reciproca gelosia e le macchinazioni di Fernandez li dividono. Dopo anni si incontrano nuovamente e scoprono di amarsi ancora. Da un romanzo breve di Carlo Brizzolara, ambientato tra i panorami urbani della Francia del nord e del Belgio, fu un fiasco commerciale, ma rimane uno dei più felici film di M. Monicelli per ricchezza di gag, disegno dei personaggi, finezza di particolari in sagace equilibrio tra comico e patetico. |
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Critica (1): | Omaggio a Mario Monicelli, che ha compiuto novant'anni (si sarà stufato di sentirselo ripetere) e che invece, come tutti i maestri, semplicemente non ha età. Sono talmente tanti i film che ha diretto che abbiamo smesso di contarli (i primi risalgono al 1934); del resto crediamo che neppure lui ne conosca il numero esatto, perché non sembra il tipo che sta lì a pensare al passato (sta preparando un nuovo lungometraggio). Lo senti parlare e capisci che quello che dice arriva a tutti, suoi coetanei, anziani, maturi, giovani, giovanissimi. Lucido, intelligente, caustico, Monicelli è uno che da sempre, magari con quella sottile volontà di provocazione condita di umorismo che comunque non esclude l'affetto, dice le cose come stanno, senza fare sconti. Considerato uno dei massimi autori della commedia all'italiana, il suo è grande cinema popolare capace di mettere d'accordo critica e pubblico, di realizzare incassi eccezionali e di proporsi come esempio di perfezione linguistica. I suoi film, con i loro indimenticabili personaggi, costituiscono un affresco formidabile dell'Italia e degli italiani, di cui Monicelli ha saputo descrivere vizi e virtù, meschinità ed eroismi, in un'alternanza di toni e situazioni.
Figlio del giornalista e drammaturgo Tommaso Monicelli, Mario nasce a Viareggio il 15 maggio 1915. All'inizio degli anni Trenta studia a Milano e intanto collabora con 'Camminare...', una rivista d'avanguardia in cui si occupa di cinema. Dopo le scuole superiori si iscrive alla facoltà di Storia e Filosofia dell'Università di Pisa. Nel 1935 partecipa per la prima volta alla Mostra del Cinema di Venezia con I ragazzi della Via Paal, un film che riscuote un discreto successo tra il pubblico del Lido e ottiene anche un premio. Dopo un periodo passato a lavorare come aiutoregista e sceneggiatore, nel 1949 Monicelli inizia la felice collaborazione con Steno che proseguirà per alcuni anni, fino al 1953. Insieme, i due dirigono a quattro mani una serie di film che rappresentano le fondamenta della commedia all'italiana e soprattutto in alcune pellicole interpretate da Totò, Totò cerca casa (1949), Vita da cani (1950), Guardie e ladri (1951) e Totò e i re di Roma (1952). Dopo Padri e figli, con il quale vince il suo primo Orso d'argento al Festival di Berlino del 1957, Monicelli realizza I soliti ignoti (1958), Nastro d'argento per la miglior sceneggiatura, che inaugura il filone più raffinato della commedia all'italiana. Nel 1959 dirige La grande guerra, lettura magistrale delle vicende belliche viste con gli occhi della povera gente, interpretato dal duo Gassman-Sordi e vincitore del Leone d'oro a Venezia (ex-aequo con Il generale della Rovere di Roberto Rossellini). Negli anni successivi Monicelli lavora ad una lunga serie di pellicole che ormai fanno parte dell'immaginario collettivo, come quelle che raccontano le avventure di Brancaleone da Norcia, L'Armata Brancaleone (1966) e il successivo Brancaleone alle crociate (1970), ambientate in un Medioevo grottesco e di pura invenzione, con il solito gruppo di perdenti a fare da protagonisti. Indimenticabili anche le vicende del conte Mascetti e dei suoi compagni, protagonisti di Amici miei (1975) e Amici miei - Atto II (1982), apologo della vita considerata come un gioco continuo e del gioco come massima espressione dell'intelligenza e della vitalità. E poi ancora successi e una valanga di premi per Monicelli grazie a titoli come Caro Michele (1976), Orso d'argento al Festival di Berlino, Un borghese piccolo piccolo (1977), David di Donatello per la miglior regia e Nastro d'argento per la sceneggiatura, Il Marchese del Grillo (1981), Orso d'argento a Berlino e ancora un Nastro d'argento per la miglior sceneggiatura, Speriamo che sia femmina (1985), David di Donatello e due Nastri d'argento, Il male oscuro (1990), premiato con il David di Donatello per la miglior regia, e Cari fottutissimi amici (1994), menzione speciale al Festival di Berlino. Nella sua lunga carriera, coronata nel 1991 con il Leone d'Oro, Monicelli è stato anche candidato per ben due volte all'Oscar per la migliore sceneggiatura, nel 1965 con I compagni (1963) e nel 1966 con Casanova '70 (1965).
"C'è una sola cosa che mi fa irritare oggi come quando ero ragazzo: la disonestà, l'incoerenza verso se stessi dei voltagabbana", sospira Mario Monicelli, abbandonando per un attimo il suo tradizionale humour nero, "e questa disonestà intellettuale è un atteggiamento che domina la politica italiana in modo protervo e provocatorio". Probabilmente è tutta qua la ricetta magica che permette a Mario Monicelli, 90 anni il 15 maggio, decano del cinema italiano, di rimanere lucido testimone del nostro tempo: la capacità e la voglia di scandalizzarsi per quello che tanti suoi colleghi più giovani sembrano aver assimilato come fattore endemico della vita. "Io non sono un critico cinematografico e non mi permetterei mai di giudicare i colleghi", sorride il regista, "però, avendo sempre dichiarato di essere comunista e superficiale, noto come loro, invece, siano superficiali senza essere comunisti e questo toglie loro la capacità di ritrarre in modo impietoso la realtà, dote fondamentale per la commedia, come per il film "impegnato"". Monicelli, in questi giorni, è travolto dalle celebrazioni del suo compleanno: lo festeggiano ad Euro-paCinema di Viareggio, sarà ricevuto dal presidente Ciampi al Quirinale in occasione del David speciale 2005, che riceverà il 29, assieme all'amico e collega Dino Risi, a Tom Cruise e a Vittorio Cecchi Gori, sta per uscire un libro sulla sua carriera che sarà presentato all'Auditorium di Roma, ma il regista ha il cruccio di non aver ancora iniziato il suo nuovo film. Monicelli, che n'è di Le rose del deserto? "Sono pronto da sei mesi, avrei potuto cominciare a girare alla fine di gennaio: la sceneggiatura è finita, ho fatto i sopralluoghi in Tunisia e Marocco, il cast c'è, ma mancano i soldi. Il produttore Berardi cerca di chiudere i contratti, ma a questo punto temo che non potrò cominciare le riprese prima di settembre, mica possiamo andare in Africa in estate, poi c'è sempre la possibilità che io schiatti prima, e senza nemmeno il carisma di Ranieri di Monaco e Papa Woityla. Peccato: ci tenevo a girare ancora questo film". Di che cosa parla? "Il punto di partenza è "Il deserto della Libia", il romanzo di Mario Tobino. Io la guerra la conosco, sono stato in cavalleria in Jugoslavia nel 1941, ho combattuto Tito e gli ustascia. So com'eravamo noi e so cosa era la guerra: voglio raccontare le storie di questi ragazzi, che dalle retrovie furono buttati nel deserto, nell'attesa di qualcosa che non sarebbe mai arrivato". Diceva di avere già il cast, chi saranno i protagonisti? "Chi sarebbero stati, vuol dire. Il film è un'opera corale dove emergono tre o quattro personaggi. Avevo Michele Placido, Paolo Haber, Giorgio Pasotti e Diego Abatantuono, mica posso sperare che continuino a tenersi liberi in attesa di un film che non si sa quando cominci". Potrebbe chiedere Tom Cruise, visto che lo incontrerà al Quirinale. "Non si può far recitare la parte di un italiano a un inglese, o a un americano: sono troppo diversi da noi. In certi casi possono andare bene i francesi, tanto che in passato l'ho fatto con Blier, Noiret, la Girardot, tutti perfetti, perché siamo simili. Il vero problema sono le comparse, quelle che ho visto finora sono un disastro". In che senso? "Mi sono arrivati tutti giovani alti, belli, palestrati, con il passo felpato e sicuri di sé, sembravano pronti per andare in televisione. All'epoca gli italiani non erano mica così: eravamo bassi, con le gambe storte, ignoranti, spauriti, incapaci di recitare, proprio come le comparse che avevo trovato per La grande guerra. Sarà divertente cercarli". Lei è proiettato nel futuro. Si ferma mai ad analizzare i suoi ricordi? "Non li ho, cancello tutto. Poi, se mi costringono a ricordare, mi piace quello che ho vissuto: ho avuto una vita fortunata, facendo quello che volevo, ottenendo anche la notorietà e il successo. Ci sono stati più alti che bassi nella mia vita: ho conosciuto un sacco di gente importante, che mi ha dato stimoli e fatto crescere, ho visitato tutto il mondo a spese dei produttori, ho conosciuto donne belle, brutte, interessanti, sono in salute e sono rimasto l'ultimo superstite di una generazione. Chi vuole sapere qualcosa della mia epoca deve chiedere a me: che posso volere di più? Mi sono piaciuti anche i miei fallimenti". Quali? "Film come Tò è morta la nonna!, un flop totale, I compagni, che solo ora è stato rivalutato, Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, che doveva essere nelle mie corde, ma è fallito per colpa mia, Temporale Rosy, che il pubblico non è riuscito ad amare. Che la critica non amasse i miei film non mi ha mai preoccupato, ero abituato ad essere considerato trash, ma quando il pubblico non mi seguiva ci rimanevo male. D'altra parte, avendo diretto 62 film, mica potevano essere tutti successi". Molti le hanno chiesto quali autori pensa siano suoi discepoli, ma lei rifiuta questa definizione... "I discepoli non esistono, mi piacciono registi come Marra, Crialese, Sorrentino, in parte Giordana, perché riescono a rappresentare l'Italia di oggi, ma a tutti loro manca la carica interna del "Manifesto" di Karl Marx". Vuole dire allora quali sono i registi su cui si è formato? "Ma così vengono fuori tutti i miei 90 anni! Adoravo René Clair, un po' meno Marcel Carné, il Julien Duvivier del Bandito della Casbah, tutte le commedie americane degli anni '30 e '40, Billy Wilder, William Wyler, Ernst Lubitsch. Poi registi come Eric von Stroheim e film come Femmine folli e L'Angelo Azzurro. Andavo al cinema, mi appassionavo, volevo diventare come loro. Un posto particolare hanno avuto tutti i comici: Buster Keaton, Charlie Chaplin, Stan Laurel e Oliver Hardy (grandissimi registi di se stessi) e Harry Langdon, sono loro che mi hanno formato".
Oscar Cosulich, Il Mattino, 25/4/2005 |
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