Next of Kin - Next of Kin
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Regia: | Egoyan Atom |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Atom Egoyan; scenografia: Ross Nichol; montaggio: Atom Egoyan; fotografia (16 mm, colore): Peter Mettler; musica: Atom Egoyan, The Song and Dance Ensemble of Armenia; suono: Clark McCarron; interpreti: Patrick Tierney (Peter Foster), Berge Fazlian (George Deryan), Sirvart Fazlian (Sonya Deryan), Arsinée Khanjian (Azah Deryan), Margaret Loveyes (signora Foster), Thomas Tierney (signor Foster), Phil Rash (psicologo dei Foster), Paul Babiak (psicologo dei Deryan), Linzee Collins (segretaria); produzione: Atom Egoyan per Ego Film Arts, con l’assistenza di The Canada Council e The Ontario Arts Council; distribuzione: Biograph; origine: Canada, 1984 ; durata: 72’. |
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Trama: | Un giovane canadese, Peter foster, scopre per caso una videocassetta in cui una famiglia armena dà in adozione il proprio figlio. Convinto di essere lui il bambino della cassetta decide di andare a trovare i suoi 'veri' genitori... |
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Critica (1): | “L’idea di qualcuno che si barcamena tra due culture differenti, consapevole di non appartenere a nessuna delle due, è stato lo spunto iniziale del film. E’ un tema che mi è molto vicino” ha dichiarato Atom Egoyan a proposito di Next of Kin. Ineludibile e probabilmente decisiva per un cineasta nato in Egitto da genitori armeni e poi divenuto cittadino canadese, la problematica etnica contenuta nel successivo e più noto Black Comedy (Family Viewing, 1987), dove la nonna armena inferma e abbandonata costituisce per il giovane protagonista l’ultima ancora affettiva e la sola possibilità di conservare la propria memoria individuale, si impone con prepotente emblematicità già in questo primo lungometraggio realizzato nel 1984 dopo una serie di cortometraggi (tra i quali, se non altro come anticipazione delle future ossessioni per la tematica familiare, va ricordato Open House). Anche qui, seppure nelle pieghe di una vicenda paradossale e per molti versi “estrema”, l’apertura ad una dimensione etnica “altra” - e per così dire “concentrata”, densissima - è la soluzione che attiva nel personaggio una presa di coscienza, la riacquisizione dell’identità smarrita. Con, in più, un elemento di critica sociale: la salutare immersione in una realtà culturale estranea, e perciò tanto più “sentita” e affascinante, diviene infatti la metafora di un progressivo affrancamento dal conformismo e dal torpore borghesi. Il malessere e l’apatia di Peter Foster hanno chiare origini borghesi. Il lungo flash-back iniziale, che ripercorre con inquietante puntualità le tappe dell’esemplare processo di alienazione vissuto dal protagonista, è uno spietato ritratto, – brevi quadri di raggelante immobilismo – di una tipica famiglia dell’alta borghesia occidentale (anzi, meglio, nordamericana). Scandite dagli appuntamenti del pasto, momenti di intimità familiare scaduti a vuoti e impeccabili rituali, le giornate di Peter trascorrono uguali e in assoluta solitudine, rapito da una vorace fantasia che lo spinge ad immaginarsi identità diverse dalla propria, peraltro incerta e inafferrabile. A riempire il lussuoso ed asettico appartamento dei Foster è il silenzio, il vuoto, infranto di tanto in tanto dai litigi dei genitori, vanamente celati dietro pareti troppo sottili eppure così facilmente rimuovibili (basta ascoltare della musica in cuffia). In altre parole: un’esistenza tranquilla, monotona, tremendamente noiosa. Ma non si tratta solo di noia. Quella di Peter è una sofferenza, ben più tragica, di natura affettiva, maturata a ridosso di un’educazione orientata al più rigido autocontrollo, il risultato di un sistema di vita improntato alla censura delle passioni, al calcolato dosaggio dei sentimenti. Tutto l’opposto, insomma, di quanto avviene nella scombinata esistenza dei Deryan. Certo, nella seconda parte del film il regista non resiste alla tentazione di divertirsi (e divertirci) con gli stereotipi sulla rumorosa emotività degli immigrati armeni opposta al compassato formalismo dell’universo Wasp, calcando la mano sugli aspetti più vivaci e folcloristici (l’arredamento dell’appartamento, il colorito negozio di artigianato, l’esilarante “basic english” dei personaggi ) e siglando il tutto con brani di musica popolare. Ma la scelta, ancorché finalizzata al conseguimento di tonalità proprie della commedia di costume, risulta funzionale all’ottica proposta dal racconto, che è quella di Peter. Ciò che appare ai suoi occhi, dunque, è un mondo insolitamente rumoroso e variopinto, un vivacissimo microcosmo del tutto antitetico a quello che si è lasciato alle spalle ma che anziché disorientarlo lo attrae, obbligandolo ad esporsi, a non rifugiarsi in se stesso. Perché, adesso, la vita nel nuovo nucleo familiare non prevede alcuna possibilità di isolamento. L’affettuosa invadenza dei genitori (soprattutto del padre) vanifica infatti ogni impulso ad isolarsi dal gruppo, a ritagliarsi uno spazio privato, tanto è vero che l’insofferente Azah ha dovuto compiere quello che per l’antiquato George è un evidente gesto di ribellione: andare a vivere per conto proprio. La famiglia, insomma, intesa come entità totalizzante, stressante palestra dei sentimenti che accomuna o divide senza mezzi termini, coinvolgendo completamente ogni singolo membro. E, soprattutto, la famiglia come teatro quotidiano di passioni esasperate, dove ogni sentimento, di gioia o di dolore, amorevole o conflittuale, deve continuamente, e con mediterraneo trasporto, essere esteriorizzato.
Filippo D’Angelo, Cineforum n. 293, aprile 1990 |
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| Atom Egoyan |
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