Amours imaginaires (Les)
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Regia: | Dolan Xavier |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Xavier Dolan; fotografia: Stephanie Weber-Biron; montaggio, scenografia e costumi: Xavier Dolan; interpreti: Monia Chokri (Marie Camile), Niels Schneider (Nicolas M.), Xavier Dolan (Francis Riverëkim), Anne Dorval, Anne-Élisabeth Bossé, Magalie Lépine-Blondeau, Olivier Morin, Éric Bruneau, Gabriel Lessard, Bénédicte Décary, Patricia Tulasne; produzione: Xavier Dolan, Carole Mondello, Daniel Morin per Alliance Atlantis Vivafilm; origine: Canada, 2010; durata: 95’. |
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Trama: | La storia di Francis e Marie, due amici innamorati della stessa persona, che si daranno battaglia per conquistarne il cuore arrivando, di volta in volta, a interpretare in maniera ossessiva i comportamenti ambigui e distruttivi dell'oggetto dei loro desideri. |
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Critica (1): | Lo attendevamo all’angolo. Autore, a vent’anni, di J’ai tué ma mère, inquietante opera prima uscita nel 2009, dove si metteva in scena nel ruolo di un adolescente gay in aperto conflitto con la madre, Xavier Dolan aveva allora impressionato la sala. Che si ami o no il film, l'originalità e la durezza del tema trattato, la sicurezza e la determinazione che questo giovane autore del Quebec aveva mostrato per presentarsi come un autore con la A maiuscola, alzavano le aspettative per ciò che sarebbe seguito.
Appena un anno più tardi, eccolo che torna con un piccolo, buon film del suo tempo, tanto colorato e artificiale quanto il precedente era oscuro e naturalistico, tanto grazioso e ludico quanto faticoso . Un incantevole gioiello pop che si consuma con un piacere goloso e accredita l'idea che Dolan avrebbe i mezzi adeguati alle sue ambizioni. Les amours imaginaires narra la storia, dalla sua nascita alla sua dissoluzione, di un falso triangolo amoroso: due giovani dandy, Francis e Marie, che sono anche i migliori amici del mondo, perdono la testa per lo stesso ragazzo bello, biondo, divertente, gentile, colto: Nicolas. Nessuno conosce la preferenza di Nicolas, e potrebbe anche essere per entrambi. O per nessuno.
In attesa che la loro preda riveli la sua preferenza, Francis e Marie lasciarno correre le loro fantasie scatenate e si consolano tra le braccia di amanti intercambiabili, capricci che danno luogo a un fuoco d'artificio di scene monocrome (filtrate in verde, blu o rosso) di una sensualità ammaliante. Mentre architettano, ciascuno alla sua maniera, tutti i tipi di strategie per attirarlo nel loro letto, il bel ragazzo gioca con i loro sentimenti, dorme con entrambi come lo si farebbe con due buoni amici, fino a quando la bolla sentimentale scoppia, facendo scorrere per entrambi gli amanti annichiliti lacrime di amarezza, risentimento, incomprensione.
La matrice di questo film, che si ritrova curiosamente in Kaboom, affascinante teen movie queer di Gregg Araki (...) è la scala Kinsey. Progettata dall’autore dei famosi "Rapporti" sulla sessualità degli americani negli anni ’50, questa scala classifica la popolazione in sei categorie, che vanno dal 100% etero al 100% omosessuale passando attraverso varie fasi intermedie in cui rientrerebbero, secondo Kinsey, la maggior parte degli uomini e delle donne. "Queer", il termine che ricopre tutto ciò che interferisce con le identità sessuali, non sarebbe in grado di classificare il film che riduttivamente. Ma ben designa ciò che ne costituisce la sua modernità: un modo allo stesso tempo affettuoso e irriverente che Dolan ha per rinfrescare codici e riferimenti già fin troppo esibiti per creare una prospettiva de tutto nuova.
Questa storia stupida e anche banale prende il suo sapore della messa in scena di Dolan, che la racconta per mezzo di un collage di citazioni cinefile, artistiche, musicali, letterarie ... La gioia che procura ha a che fare con il piacere e il godimento con il quale egli stesso si diverte a mescolare nella stessa scena In the Mood for Love e la versione fatta da Dalida di Bang Bang di Nancy Sinatra (già riproposta da Kill Bill), a giocare con i colori primari in stile Godard 1960 e invitando Cocteau, Koltès, Audrey Hepburn e James Dean a unirsi alla danza e a dialogare con la propria filmografia.
Anne Dorval, che già aveva recitato in J’ai tué ma mère, ritorna nel ruolo esilarante della madre erotomane di Nicolas. Per quanto riguarda la furtiva apparizione di Louis Garrel alla fine del film, questa deve essere letta come un anticipo di una collaborazione futura più consistente. Il giovane regista, evidentemente, non manca di ambizione, ma non dobbiamo prendere questo gesto come arroganza. L'unica posa che assume Dolan, è quella del fan che erige un bell’altare agli artisti del suo pantheon personale.
Nulla è lasciato al caso in questo progetto. Dolan designa lui steso i suoi costumi (molto belli), compila la colonna sonora (dalle Suites per violoncello di Bach al gruppo Partenaire Particulier), cesella i suoi dialoghi come gioielli. Mai, a memoria di spettatore francese, l’autore del Quebec è apparso così piccante. Saturo di riferimenti alla cultura pop, il linguaggio dei personaggi - sia che si tratti di Marie o "il coro antico" costituito da una tavolozza di ragazzi e ragazze le cui interviste punteggiano il film – apre a metà le porte di un mondo sconosciuto, desiderabile e sexy. "Non c'è tempo di stare ad aspettare, non voglio passare la mia vita su Hotmail!", afferma una delle ragazze del coro.
Testimoniando individualmente, con un divertente tongue-in-cheek, l’esperienza di un fallimento amoroso, questi giovani sono ripresi con un’alternanza di zoom e bruschi allontanamenti, senza che si sappia mai se si è finiti in un documentario o se ci si trovi sempre nella fiction. Queste sequenze, che fanno eco alla narrazione principale senza sovrapporsi ad essa, ancorano il film all’attualità di un cinema che, sempre più, si prende gioco di tutte le frontiere.
Isabelle Regnier, Le Monde, 28.09.2010 |
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Critica (2): | La prima cosa che salta agli occhi è l’età giovanissima del regista/attore canadese, Xavier Dolan: solo 21 anni e già dimostra una potenzialità registica spaventosa. È da tenere sicuramente in considerazione anche in futuro. Nel 2009 ha presentato il suo primo lungometraggio vincendo la Quinzaine des Réalisateurs, J’ai tué ma mère, storia di un rapporto difficile di un diciassettenne e la propria madre. Come nel film d’esordio, anche nell’ultimo ci sono gli stessi temi: influenze artistiche, grandi amicizie, sesso. Ménage à trois, con il regista che interpreta un giovane gay e la sua amica del cuore, stravagante ragazza vintage, innamorati entrambi dello stesso ragazzo, studente a Montreal di letteratura. I due non hanno il coraggio di confessare il loro sentimento e vanno avanti cercando in tutti i modi di conquistare l’amore conteso, senza mai scoprirsi totalmente. Non c’è dubbio che Dolan sia capace di muovere la macchina non in modo convenzionale, trovando quelle atmosfere retrò, da cinema francese anni ’70, con in più la capacità di modulare un linguaggio sperimentale, dalle tinte cromatiche forti, ai salti di montaggio destabilizzanti. In più, l’uso reiterato della musica e i ralenti dell’azione ad accompagnarla, sono forme stilistiche sicuramente non rivoluzionarie, ma certamente ben manipolate. Per il resto va però sottolineata un certa sopravvalutata attenzione per i lavori di Dolan, che rischia di lasciare inesplorate alcune carenze narrative evidenziate, oltre che eccessivi autocompiacimenti visivi. Affascina e diverte, ma solo a tratti ti conquista veramente. Insistita e a volte senza uscita, è la ricerca del sensazionalismo artificioso, anche se minimalista: come il continuo schiacciare e allargare impercettibilmente l’inquadratura stretta sui volti degli attori, chiamati quasi a confessarsi dinanzi alla mdp. Versatile, raffinato, Dolan si perde quando deve sporcarsi veramente e il suo sguardo pare paradossalmente non avere nessuna incertezza, libero di muoversi in uno spazio privo di complessità, recessi oscuri, grovigli dell’anima. Casualità, spontaneità, frammentarietà, impurità, a poco a poco diventano strumenti di espressione rigorosamente calibrati.
sentieriselvaggi.it |
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Critica (3): | All'edizione precedente del festival l'esordio del giovanissimo québécois Dolan, J'ai tué ma mère, era stato una delle vere sorprese. Un film affascinante, imperfetto, rabbioso, antipatico, che mostrava un talento vero. Ora il nuovo film del regista, diventato nel frattempo il beniamino di molta critica francese, conferma le grandi doti, e qualche rischio, dello stile di Dolan (classe 1989: oltre ottant'anni lo separano dalla data di nascita del regista più vecchio del Certain Regard, Manoel De Oliveira). Si tratta di un semplice ménage a trois, con due amici (un ragazzo e una ragazza) che si innamorano di un coetaneo venuto a Montréal dalla campagna. Un Jules e Jim a generi invertiti, si direbbe, ma in cui il problema non è più, ovviamente, la trasgressione delle norme borghesi, ma la difficoltà di affermare (con se stessi, anzitutto) il senso e l'autenticità dei propri sentimenti. Dietro Dolan c'è evidentemente tutta la vulgata nouvelle vague, magari mescolata a certe depravazioni estetizzanti della generazione videoclippara degli anni Ottanta. In questo secondo film, dove la rabbia lascia il posto allo struggimento e all'elegia, i vezzi d'autore si moltiplicano: in tutto questo non solo il regista non perde la bussola, ma riesce a far sentire un fondo di verità, di sincerità. In questo ritratto di giovani che amano e non amano; amori appunto immaginari ma comunque sofferti e vissuti con una sorprendente serietà.
Certo, c'è da capire quanto il narcisismo di Dolan (che si ama, come attore e come regista, come corpo e come stile) lo ingoierà ai prossimi passi, e quanto il suo disagio verso il mondo riuscirà a incrociarsi con la sua pulsione verso la coolness e il gusto di un design visivo sontuoso e seducente. Ma lui rimane comunque uno che si ha la curiosità di seguire al prossimo film.
Emiliano Morreale, Cineforum n.495, 6/2010 |
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Critica (4): | |
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