Christine la macchina infernale - Christine
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Regia: | Carpenter John |
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Cast e credits: |
Soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Stephen King; sceneggiatura: Bill Phillips; fotografia: Donald M. Morgan; montaggio: Marion Rothman; musica: John Carpenter, in collaborazione con Alan Howarth; effetti speciali: Bill Lee, David L. Simmons, E. Hui, Kevin Quibell, Ted Allen, Michael Reedy, Richard Wood; costumi: Darryl Levine; interpreti: Keith Gordon (Arnie Cunningham), John Stockwell (Dennis Guilder), Alexandra Paul (Leigh Cabot), Robert Prosky (Will Darnell), Harry Dean Stanton (agente Rudolph Junkins), Christine Belford (Regina Cunningham), Roberts Blossom (George Lebay), William Ostrander (Buddy Repperton), David Spielberg (Mr. Casey), Malcom Danare (Moochie Welch), Steven Tash (Richard Trelawney), Stuart Charno (Vandenberg), Kelly Preston (Roseanne), Marc Poppel (Chuck), Robert Darnell (Michael Cunningham), Richard Collier (Pepper Boyd), Bruce French (signor Smith), Douglas Warhit (Bemis), Keri Montgomery (Ellie), Jan Burrell (bibliotecaria), Charles Steak; produzione: Polar Films per Columbia-Delphi Production; distribuzione: Cineteca Griffit; origine: USA, 1983; durata: 110'. |
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Trama: | Il diciassettenne Arnie, pieno di complessi e soffocato da due genitori molto oppressivi, si "innamora" del rottame di una vecchia automobile e, sordo a tutti i consigli più o meno amichevoli, la compra per rimetterla in sesto. Ma Christine, così si chiama la macchina, è una vettura molto particolare: ancora sulla catena di montaggio, ha ferito gravemente un operaio e ne ha ucciso un altro. Non solo, ma la famiglia del precedente proprietario è stata misteriosamente sterminata. Arnie riversa su Christine tutte le sue frustrazioni ed il suo amore, e la macchina lo ricambia con altrettanto, esclusivo amore, dimostrandosi gelosa del suo giovane padrone. Così si "comporta" in modo da allontanare da Arnie il suo migliore amico, Dennis, e Leigh, la sua ragazza; ma fa di più. Dopo essere stata distrutta a colpi di mazza da quattro teppisti che vogliono far pagare ad Arnie la loro espulsione dal college, essa "rigenera" le sue lamiere sotto gli occhi "innamorati" del giovane, e, da sola, uccide ad uno ad uno i quattro teppisti. Ma Arnie, su cui ricadono i sospetti della polizia, è ormai isolato; così Dennis e Leigh, che hanno compreso il diabolico potere di Christine, "danno appuntamento" alla macchina, di notte, in un garage dove Christine ha fatto la sua ultima vittima, un meccanico che non provava simpatia per lei. Lo scontro tra Dennis, che guida una pesantissima ruspa, e Christine sembra non dover aver mai fine, perché la macchina si rigenera dopo ogni scontro. Ma alla fine soccombe, perché questa volta alla sua guida c'è un Arnie ormai impazzito, che viene trafitto da un vetro, e muore. Ma la Christine che vediamo ridotta ad un cumulo di ferraglie è veramente "morta"? |
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Critica (1): | Non è un caso, probabilmente, che quasi tutte le riviste americane e francesi specializzate in cinema fantastico, durante la lavorazione di Christine, dedicassero gli articoli più a Stephen King che non a John Carpenter. II 1983 è stato definito «l'anno di Stephen King»: tre film adattati da suoi romanzi (oltre a Christine, Cujo diretto da Lewis Teague a Dead Zone, diretto da David Cronenberg), altri due progetti in corso di realizzazione (Firestarter, diretto da Mark Lester e Children of the Corn, diretto da Fritz Kiersch), romanzi e novelle in corso di pubblicazione.
Stephen King non è certo un grande autore; tuttavia le sue storie contengono un potenziale visivo immediatamente traducibile in immagini, che si adatta con particolare puntualità alle strade percorse nell'ultimo decennio dall'horror cinematografico. Alla progressiva scomparsa dell'ambiguità e dei sottintesi misteriosi e non svelati si accompagna la proliferazione degli eventi descritti e mostrati, il dispiego della mostruosità. Da Carrie a Christine, tutti i film trattati da King si muovono nel senso di una crescente semplificazione dei temi orrifici originari e di una concomitante esaltazione del fatto. E, se De Palma rielabora le banalizzazioni del testo attraverso la sua visionarietà prepotentemente autoironica, e Kubrick recupera l'inquietudine del mistero per mezzo di un calibratissimo reticolato di ambiguità non risolte, registi meno personali (meno «autori»), seguendo il tracciato imposto da King, cadono irrimediabilmente nell'insanabile contraddizione tra i suggerimenti della parola scritta e l'efficacia della sua trasposizione in immagini.
Su questi presupposti, ci si sarebbe aspettati che il binomio King/Carpenter fosse quasi ottimale. Entrambi senza mistero, si sarebbero dovuti incontrare sul terreno puro della raffigurazione corposa. In realtà, l'abbinamento funziona solo in parte, o meglio, solo durante la prima parte del film; poi qualcosa si incrina; l'interesse si disperde, diventa esclusivamente «ottico», privato di qualsiasi risvolto emotivo. Noia e disinteresse, evidentemente, sono categorie incompatibili con l'horror film, per definizione estranee ai più ovvi clichés del genere. Non è quindi la consapevolezza degli sviluppi che assumerà la vicenda a determinare la caduta di pathos; la prevedibilità degli esiti fa parte integrante del gioco, nell'horror come e forse più che in altri generi. E, se c'è una caratteristica narrativa che va riconosciuta a Carpenter, è la capacità di utilizzare gli stereotipi di genere in pura funzione del suo stile visivo. Anzi, educato sui temi elementari del B-movie, sembra quasi che Carpenter funzioni tanto meglio, tanto più rigidi e precostituiti sono gli schemi entro cui si sviluppa il racconto. Quella concisione e quell'essenzialità che vanno annoverate tra le maggiori qualità del suo cinema nascono e si mantengono anche sul carico di informazioni garantite dallo stereotipo. Distretto 13 e Fuga da New York possono sviluppare la propria concitata azione claustrofobica proprio in virtù dell'assoluta mancanza di spessore psicologico dei personaggi, manichini carichi di memorie cinematografiche. Halloween e The Fog aprono nuovi spiragli al fantastico proprio perché il meccanismo dell'intrusione si manifesta in un universo di codici ovvi, dove l'elemento straordinario è tale per il cinema. La cosa massimizza la sua innovatività espressiva proprio perché si mantiene all'interno della struttura narrativa e delle tipologie originali. Quindi, il parziale fallimento dell'incontro tra King e Carpenter non nasce dall'ovvietà dei codici, ma da una distorsione più sottile.
King è uno scrittore un po' presuntuoso. O meglio, è uno di quei romanzieri alla moda che tendono a convalidare con spiegazioni rozzamente dotte operazioni letterarie di puro intrattenimento. Nel caso specifico di King, il modello di riferimento abitualmente adottato è quello psicanalitico. In una sorta di Edipo spiegato al lettore medio americano, Stephen King mette allo scoperto la più ovvia delle chiavi interpretative orrifiche; e, nella reiterazione di questo meccanismo, più che la semplificazione del modello psicanalitico (ormai consueta, anche a ben più alti livelli narrativi e teorici), quello che infastidisce è la banalizzazione monocorde delle innumerevoli sfaccettature del fantastico. È troppo semplice e sminuente raccontare che Roderick Usher combinò quel po' po' di guai perché era incestuosamente attratto da sua sorella. La grandezza cinematografica della famiglia Torrance è raggiunta anche attraverso il recupero di una serie di contraddizioni svianti rispetto alla più lineare e immediata interpretazione edipica. L'operazione di King è corretta ma banale e, alla lunga, limitante. Sull'altro versante, abbiamo un regista che si è sempre tenuto ben lontano da qualsiasi spessore interpretativo che non fosse esclusivamente cinematografico. La vera forza delle immagini e delle strutture narrative del cinema di Carpenter sta proprio nella loro totale, decisa, inequivocabile superficialità. Sono «fisiche»; si risolvono tutte nella loro immediata corposità. Nessuna strizzatina d'occhio alla De Palma, ma solo una materia che si libera quasi tridimensionalmente dallo schermo. Carpenter ha davvero rappresentato la mancanza di profondità analitica dell'oggi, l'agghiacciante impossibilità a scendere al di sotto della materia, senza gli improvvisi, disperati rigurgiti di sofferenza di John Landis. Il cinema di Carpenter si muove esattamente come il più azzeccato dei suoi protagonisti, Kurt Russel, un corpo che ha cancellato ogni sentimento e ogni istinto se non quello della sopravvivenza e la memoria dei propri simili e archetipi. È un cinema senza sofferenza, come la disperazione più definitiva. A mio parere, tutto questo Carpenter non lo sa; si limita per istinto a riprodurre in oggetti una sensazione diffusa. Se fosse un grande autore, ci darebbe ritratti tra i più desolanti e impressivi del nostro universo. È un eccellente professionista; riproduce perciò con dimensioni e proporzioni diverse il linguaggio sul quale è cresciuto, evitando qualsiasi sospetto di «tesi». Qui, però, si trova alle prese con il solito tormentone familiare di Stephen King: all'origine di tutti i guai, le perversioni, le mutazioni del protagonista c'è una famiglia insopportabilmente oppressiva. Tutta la storia è in realtà una metafora del passaggio dall'infanzia all'adolescenza, con tanto di distruzione dell'immagine materna. Non solo Carpenter si trova anche alle prese con un elemento sostanzialmente estraneo al suo universo meccanico, il sesso, che invece in questa storia domina le interrelazioni tra tutti i personaggi. (...) Nonostante questo, però, lo spessore interpretativo incrina la compattezza della rappresentazione, crea qualche tempo morto e, soprattutto, appanna il trionfo dell'oggetto. Infatti, quando tutti gli elementi narrativi sono delineati, quando il meccanismo è innescato e il fattore straordinario introdotto nell'apparente normalità suburbana, il regista non può (come sarebbe nelle sue corde e nel suo stile) limitarsi a seguire la schematica consequenzialità degli eventi, ma è costretto a non tralasciare una pur minima adesione al reticolo di significati adombrati da King; e questo toglie intensità alla penetrante identificazione tra uomo e macchina, una delle intuizioni visive più efficaci del film. Se pensiamo ad esempio all'ultima parte del film, alla distruzione del mostro da parte di Dennis e Leigh, ci rendiamo conto che (al di là dell'ottima tecnica riproduttiva) nessun residuo di solidarietà, di meccanica identificazione, di suspense sostiene la nostra attenzione di spettatori: Dennis e Leigh non ci interessano, sono soltanto due fastidiosi ingombri sulla strada di Christine; lo stesso Arnie, in fondo, è diventato nient'altro che un prolungamento dell'automobile, la sua sorte è segnata, a meno che non riesca a trionfare sui propri appiccicosi residui di umanità. Christine domina, ma, per dar retta a King, siamo stati repressi da una totale sottomissione a questo dominio. Oscilliamo, perciò, tra un'istintiva solidarietà con la macchina che non vuole morire e una canonica, distratta adesione alle regole del genere, al trionfo «motivato» della norma, imposto da King.
Poi, fortunatamente, come sempre in Carpenter, la «cosa» non muore, appunto perché di «cosa» si tratta, priva di cause, valori, motivi. Mai come in quest'ultimo film è stata evidente la sua assoluta compattezza materica. Christine porta finalmente i mostri nel regno dell'inorganico, in questo universo circostante al quale progressivamente ci omologhiamo.
Finora nell'horror (ma anche nella fantascienza che pure è più marcatamente tecnologica), i mostri avevano sempre avuto natura organica, animale, vegetale o, in pochi casi, minerale. Nascevano in natura, su questo o altri pianeti, aiutati magari da incontrollati processi chimici o atomici. Uniche eccezioni ricorrenti, i robot e gli androidi (cui tuttavia l'antropomorfismo fisico o mentale ha sempre conferito un'inquietante natura di doppi umani), i cervelli elettronici (che però ci sfidano costantemente a dimostrare l'effettiva dipendenza dei loro processi intellettivi) e, in anni recentissimi, i televisori. Ma con questi ultimi si apre la porta sul regno delle ombre riprodotte, su una dimensione parallela che ha pieno riscontro nel mondo dei sogni e dei fantasmi umani. L'oggetto televisore è solo un tramite, la sfera di cristallo dell'era elettronica.
Christine invece, oggetto prodotto in serie in una regolare catena di montaggio, è il mostro; agisce e comunica attraverso le proprie parti meccaniche, elettriche, fisiche. Non c'è alcun paragone neppure con le numerose case-mostro che affollano letteratura e cinema, sempre caricate di tensioni, umori, memorie umane. Inoltre, Christine non ribalta l'usuale rapporto di dominanza, trasformando l'uomo in un tramite della propria volontà di distruzione; certo, se è amata lavora meglio e più in fretta, con più sbrigativa capacità assassina, ma è perfettamente in grado di uccidere e riprodursi senza alcun aiuto. Se mai è Arnie che ha bisogno della forza di Christine per costruire se stesso. Indubbiamente, i tratti più intensi del film risiedono nella progressiva simbiosi fisica tra l'oggetto e il personaggio, nella lucida fisionomia cromata che Arnie assume e nel palpabile spessore psicologico di Christine, dove tutto il gioco delle assimilazioni e delle somiglianze è condotto dall'oggetto meccanico. In questa dinamica Carpenter si trova perfettamente a proprio agio, finalmente in grado di dispiegare tutto il suo gusto per la materia iperrealista. E, nella tendenza iperrealista dell'horror contemporaneo, non solo l'oggetto inorganico è la rappresentazione ottimale della mostruosità, ma la stessa assenza totale di ambuguità e mistero è una norma incontrovertibile. Dominano gli atti esibiti, svuotati, per quanto è possibile, di qualsiasi remoto senso sotterraneo.
Emanuela Martini, Cineforum n. 234, 5/1984 |
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