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Ricordi del fiume (I)


Regia:De Serio Gianluca, De Serio Massimiliano

Cast e credits:
Soggetto, sceneggiatura e fotografia: Gianluca e Massimiliano De Serio; montaggio: Stefano Cravero; suono: Giovanni Corona, Tommaso Bosso; produzione: Alessandro Borrelli per La Sarraz Pictures con Rai Cinema; distribuzione: La Sarraz Pictures; origine: Italia, 2015; durata: 96'.

Trama:Torino, Italia. Il Platz è una delle baraccopoli più grandi d’Europa. Ci vive da anni una comunità di oltre mille persone su cui grava un progetto di smantellamento. Alcune famiglie censite dalla Prefettura verranno trasferite in appartamenti mentre per altre le alternative consistono nel tornare nel Paese d'origine o trovare sistemazioni di fortuna. Il documentario racconta gli ultimi mesi di esistenza della baraccopoli attraverso le vite dei suoi abitanti: Florentina e Denis, due adolescenti, Marcel, pastore pentecostale capace di tenere insieme la comunità, le 'vecchie' Ana ed Elena, Settimo, italiano che si è innamorato di Ionela e ora la cura con amore perché malata di epatite...

Critica (1):I ricordi del fiume è un viaggio in un luogo sconosciuto, lungo i cunicoli stretti di una baraccopoli, diretti da un Purgatorio sovraffollato verso un Inferno disabitato, accompagnati in entrata e in uscita da un Virgilio bambino, attraverso un soffocante labirinto di costruzioni di cui alla fine restano solo rottami e desolazione.
Con un lavoro quotidiano durato un anno e mezzo, i gemelli Gianluca e Massimiliano De Serio mostrano l'evoluzione del campo nomadi di Lungo Stura Lazio – a Torino – detto 'il Platz', dall'annuncio del suo progressivo smantellamento fino al completo abbattimento. La loro camera regala uno sguardo privilegiato su un mondo che vive ai margini e sui suoi abitanti che non conosciamo (non vogliamo conoscere). Ridotta la distanza che ci separa, li osserviamo in una quotidianità fatta di relazioni (non esiste completa solitudine nel campo) e semplici gesti, che in alcuni casi diventano memorabili.
L'opera 'immersiva' lavora – certo – sulla modalità di riproduzione degli spazi, ma soprattutto dei tempi: concedere allo scandire della narrazione di dilatarsi fino a coincidere con il ritmo della realtà può stranire, ma passare minuti ad osservare un bimbo pedalare sulla cyclette mentre osserva il traffico fuori dal suo mondo scorrere come su uno schermo televisivo, o una bambina cantare più ninne nanne alla sorellina, aiuta a eliminare il filtro tra osservato e osservatore (o meglio, fruitore dell'osservazione).
Seguendo ogni momento del progressivo smantellamento del Platz, i registi diventano – così – parte del contesto e dopo più di due ore di visione riescono a trasmettere la stessa sensazione anche allo spettatore; ciò che all'inizio incuriosisce alla fine è diventato familiare, quasi naturale.
Tra immagini che si soffermano sul particolare (mani, volti, angoli di stanze che sono poco più di un angolo) come sul generale (il fiume che scorre attraverso le stagioni, la distesa di baracche, il traffico esterno) la luce si alterna tra estrema oscurità e accecante luminosità, espressione dei chiaroscuri che caratterizzano ogni realtà, a volerla conoscere.
Sara Galignano, cinemaitaliano.info, 12/03/2016,

Critica (2):Ultimo teatro-a-cielo-aperto per l’interessantissimo occhio antropologico dei fratelli De Serio, piombato lì un attimo prima dello smantellamento dell’insediamento alla periferia di Torino. Che fine faranno le circa mille persone (in maggioranza Rom, ma anche di molte altre etnie) che abitano e vivono le sponde di quel fiume? Il cinema fiuta le tracce di un presente storico (i De Serio girano per l’intero 2014, l’ultimo anno prima dell’abbattimento) per riprodurre il tempo di una geografia emotiva che resista ai cambiamenti urbanistici o politici. Tante facce e tante piccole dimensioni entrano in questi ricordi del fiume intrecciati senza apparenti nessi di causa-effetto. Una costante però c’è: la dimensione del racconto. I testimoni (si) raccontano le loro dis-avventure di furti e detenzioni, difficoltà abitative o di cittadinanza italiana, insomma l’esperienza di vita viene sempre traslata nella narrazione come dispositivo che ammonisca i più giovani e tramandi conoscenza (e questo è da sempre il primo collante che fa intravedere una comunità). E allora: se il confine tracciato dalla Legge è considerato da molti un ambiguo limite valicabile per necessità come portato della povertà; l’immaginario di riferimento impeccabilmente configurato (la tv e il calcio, le fiction e i tg) resta molto simile a ogni altro contesto sociale contemporaneo, sottolineando un sottile e in-consapevole discorso pasoliniano operato dal film.
I De Serio, insomma, partono da un impeto etico non lontano da quello di Jia Zhang-ke in Still Life: riprendono il Platz prima dell’apocalisse, per catturarne una memoria-in-immagine che resista al tempo. Certo: il loro è un filmare (ancora troppo) ingabbiato in piani fissi, privo dell’irruenza sovversiva di Wang Bing o del lirismo improvviso di Lav Diaz (strane assonanze con il bellissimo Mga Anak ng Unos, Unang Aklat - Storm Children, Book One, ndr), perché qui l’intento palese è “solamente” testimoniare una condizione umana azzerando il più possibile ogni mediazione estetica (a parte forse il bel pedinamento del bambino-nelle-macerie che apre e chiude il film). Ma c’è anche tanto altro. Oltre ogni discorso sociologico evidentemente intuibile e oltre un approccio registico forse un po’ troppo controllato rispetto alla calda materia da aggredire, i De Serio ci lasciano negli occhi immagini singole di rara potenza. Il “concerto” finale delle ruspe è una straordinaria configurazione del nostro tempo, che inabissa ogni contingenza legata al Platz e ci consegna urgenti quesiti universali. Un’immagine-pensiero che configura le macerie del doloroso e dignitoso passato di una comunità, ma nel contempo l’inquietante desiderio nascosto in “molta Italia”: un’immagine che mette allo specchio il nostro Paese e ci interroga come cittadini di quest’epoca. Ecco allora, la bellezza del film sta tutta in questa dialettica tra campi lunghi e dettagli: ogni campo lungo sulla Storia (e sulle storie) trova il suo controcampo in un primo piano insistito di un volto o in un dettaglio ricco di pathos. Perché è in quel frame che prende forma il ricordo, ed è lì che il cinema deve investire oltre il tempo e le incertezze.
Pietro Masciullo, sentieriselvaggi.it, 20/4/2016

Critica (3):La grandezza del campo la si percepisce dalla lunga camminata che compie Cristi, ragazzino del luogo, al calar della sera. Il campo è il Platz, baraccopoli di due chilometri, la piú estesa d'Europa sorta sulle sponde dello Stura a Torino. I ricordi del fiume, film di Gianluca e Massimiliano De Serio, racconta lo smantellamento di questo mondo nascosto che si abbatte sulla comunità di più di mille persone che lo abita.
Il documentario (…) ritrae gli ultimi mesi di esistenza del Platz, tra morte e vita. E lo racconta con un rigore unico e una fotografia magnifica. «Con il passare degli anni abbiamo visto il Platz crescere tra collinette di rifiuti e acqua stagnante, a poche centinaia di metri da casa nostra, dietro la fitta boscaglia che lo separava dalla città», raccontano i due registi. Questa porzione di città invisibile è il nucleo del racconto, che poi s'irradia, seguendo i percorsi quotidiani delle persone che lo affollavano. Ma il cuore pulsante è una visione.
Una visione nuova dei "nomadi" delle nostre città che nomadi non sono, ma che lo sono diventati grazie a un approccio culturalista che ha affondato le sue radici in un abbaglio: la trappola dell'etnicità. Niente di più attuale in vista delle prossime amministrative di due grandi città come Roma e Milano dove questo luogo risolutivo delle nostre periferie è carne pronta per il macello delle campagne elettorali. Per inutili e dannosi interventi di emergenza. «Con il cinema si può andare oltre l'immagine comune dei rom, viziata dai vari opportunismi, si può davvero riscattare l'immagine degli ultimi. E si può ragionare anche sul significato enorme che ha "la casa”, quello strano rapporto beffardo con la casa. Beffardo perché loro possono costruirne una in una mezza giornata, ma possono aspettarne una nuova un'intera vita. Hanno una confidenza magica con la sopravvivenza, ma anche un drammatico rapporto dialettico», racconta Massimiliano De Serio.
E ne I ricordi del fiume, ed è questa la grandezza, non vi troverete la cronaca di un posto, «quello lo lasciamo ai giornalisti, non c'è stata la presunzione di raccontare la storia di Cristi o di Petru e Florian. ex minatori attivisti dello storico sciopero capeggiato da Miron Cozma, negli anni Novanta, ma volevamo salvare i ricordi, raccontare il dissolversi di un luogo di vita per raccontare un popolo vittima della provvisorietà. È un racconto sul tempo che passa, una storia di sradicamento e perdita del centro».
E il luogo sono vecchi frigo abbandonati e pezzi di gomme, pettegolezzi e preghiere, l'attesa della casa e lo stupore per un frigorifero, la scuola la mattina e il vicinato la sera. È l'esistenza diuna comunità, dice un'anziana «ci sono persone che meritano di rimanere, altre no. Ci sono persone di ogni tipo. È così ovunque, lo sanno tutti che le cose stanno così».
È l'esistenza di valori che stanno tutti dentro una frase: «sei andato a scuola,hai una famiglia unita, siete liberi, siete tutti insieme». Il Platz è una fiaba raccontata da unatrasmissione radio, ascoltata da un vecchio che fa le valigie nel momento in cui le ruspe stanno distruggendo tutte le baracche; è una ninna nanna cantata da una giovanissima madre al suo bambino; è una canzone partigiana imparata da una ragazzina in classe.
Francesca Fradelloni, l'Unità, 19/4/2016

Critica (4):Vorrà dire qualcosa se, alla proiezione delle ventuno e trenta (non di mezzanotte!) la Sala Darsena, che è la sede, al Lido, delle proiezioni per la stampa, i suoi millequattrocento posti vengono occupati da non più di un centinaio di spettatori (che nel corso della proiezione si dimezzeranno), per la proiezione del film I ricordi del fiume di Gianluca e Massimiliano De Serio? Probabilmente no, se non che, anche alla Mostra la pigrizia degli spetta-tori (in questo caso tutti "di professione") ogni tanto prende il sopravvento. Certo, 1'appeal del film non poteva richiamare le masse: lo sgombero di un enorme campo nomadi a Torino raccontato in centoquaranta minuti di film, avrà respinto "le masse" mentre invece, con un minimo di pazienza abbiamo assistito a un grande "spaccato" di cinema e soprattutto di vita.
Quanti servizi giornalistici, quanti telegiornali, quante volte abbiamo visto sul piccolo schermo, raccontate queste storie: trenta secondi di servizio e poi, via, si passa all'ultima dichiarazione di Renzi o della Merkel o di chi volete voi. E invece nella sua "fluviale" durata il film ci trascina proprio "dentro", non solo all'enorme campo (il «più grande d'Europa»), ma nella vita delle persone che lo abitano. Persone: appunto. Quelli dei telegiornali sono spesso solo numeri, qui, al contrario, troviamo, vediamo, ci viviamo quasi insieme, a delle persone. E questo non dovremmo dimenticarci mai: sono brutti, sporchi e cattivi? La vulgata vuole (vorrebbe) così e invece in molti casi è esattamente il contrario: basta soffermarsi ad ascoltare le loro storie. Ed è proprio quello che fanno i De Serio con il loro cinema che, si sarebbe detto una volta «non concede niente allo spettatore» (in termini di"spettacolarità") e che invece concede tutto: uno sguardo insolito, un racconto che si fa vita vissuta, una pietas che non cede mai ala "pietà" o - oggi che è diventata una parolaccia, al "buonismo". Al contrario, nella sua crudezza (ma anche nella tenerezza: dei tanti volti e nelle tante storie), dice molto con poco.
Andrea Frambrosi, Cineforum n. 548, 10/2015
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