Nessuno scrive al Colonnello - Coronel no tiene quien le escriba (El )
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Regia: | Ripstein Arturo |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Paz Alicia Garciadiego, dal romanzo omonimo di Gabriel García Márquez; direttore della fotografia: Guillermo Granillo; montaggio: Fernando Pardo; scenografia: Antonio Muñohierro; musica: David Mansfield; costumi: Guadalupe Sanchez; suono: Jorge Ruiz; interpreti: Marisa Paredes, Fernando Luján, Salma Hayek; produzione: Producciones Amaranta - Gardenia Producciones - Tornasol Films - Dmvb Films - Fondo per la Produzione Cinematografia di Qualita; origine: Francia-Messico-Spagna, 1999; durata: 118'. |
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Trama: | Ogni venerdì un colonnello, veterano della rivoluzione messicana, indossa la sua divisa ormai lisa e va prima al porto e poi all' Ufficio postale. Sono anni che aspetta la lettera che gli annuncia finalmente l'arrivo della pensione promessa e mai versata. |
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Critica (1): | Presentato a Cannes '99, ha imbarazzato non poco i recensori europei, che vi hanno visto il secondo passo falso consecutivo di un autore sdoganato con tutti gli onori solo nel 1996 (Profundo carmesì), dopo anni di sistematica sottovalutazione. E gli hanno riservato lo stesso trattamento del precedente El evangelio de las marovillos: l'assoluta indifferenza critica. Le due pellicole sono però molto diverse tra loro e peccano di eccessi opposti, El evangelio (1998, inedito in Italia) è un melodramma a sfondo mistico, barocco e apocalittico, con richiami espliciti a Buñuel (di cui Ripstein fu assistente) e Jodorowski. Un'opera dallo sviluppo prevedibile, ma nella quale si riconosce la mano del regista: l'uso carico delle immagini in funzione di una materia bulimica e avvolgente, la rivisitazione in chiave personale di tradizioni e storie di umanità dannata. Nessuno scrive al colonnello soffre invece della deferenza con cui viene affrontato il testo di García Márquez. Non è questione di impaccio narrativo: Ripstein aveva reso splendidamente le pagine di un altro Nobel letterario, l'egiziano Naghib Mafuz, in Principio y fin. Di fronte al monumento sudamericano gioca a sfavore l'ammirazione personale e, di conseguenza, la scelta di non misurarsi con il racconto riscrivendolo. Così una vicenda che era nelle corde del cineasta messicano - l'ingiustizia commessa ai danni di un uomo già travolto insieme ai suoi ideali, ma non spezzato - si spegne in un realismo naturalista più grigio che cupo, più nostalgico che disperato. Con almeno due pregi che non vanno taciuti. L'attenzione alla messa in scena, rigorosamente asciutta, che concede il massimo dell'evidenza ai personaggi. E, soprattutto, una sensibilità diffusa nei confronti della vecchiaia addolorata: non siamo dalle parti dell'ultimo Lynch, ma la riflessione sullo scorrere del tempo e delle illusioni ha il respiro egualmente vero dei corpi antichi e segnati di Fernando Lujàn e Marisa Paredes. Enrico Danesi, Duel, 15/5/2000 A guardare la filmografia di Arturo Ripstein si deve dedurne che al regista messicano piacciono molto le coppie, la loro dinamica, le loro tragedie. E tra la coppia assassina del suo più grande successo, Profondo cremisi, e quella distrutta del suo più recente film presentato a Cannes, quasi una Medea moderna, ecco la coppia di vecchi, umiliati e offesi, di Nessuno scrive al colonnello, il film che Ripstein ha tratto dal capolavoro minore (ma solo per quanto riguarda le dimensioni) di Gabriel García Márquez, fedele all'originale quasi quanto l'insuperabile riduzione di I morti, ultimo capolavoro di Huston, lo è stato a James Joyce. Una nobile fedeltà che si scontra subito con un'obiezione: la lunghezza del film supera quella di lettura del racconto e senza volerlo a volte mette alla prova, con qualche lungaggine e manierismo di troppo, la resistenza dello spettatore. E tuttavia, in un contesto scenografico teatrale, ipernaturalistico, coloratissimo, claustrofobico, artificiale come una dichiarata riproduzione di studio del reale, Ripstein - su una sceneggiatura della sua consorte e complice Alicia Paz Garciadiego e con due attori straordinari, Fernando Lujan e Marisa Paredes - mette in scena l'apologo sulla dignità e l'onore da conservare ad ogni costo creato da Márquez al suo debutto nella narrativa, dieci anni prima di Cent'anni di solitudine. Un onore da conservare, dice la battuta finale del libro e del film - anche a costo di mangiare "merda". Un onore che forse è semplicemente la dignità negata dalla vita ai vecchi e ai deboli . Qui quella dignità è negata dalla rivoluzione per cui il colonnello ha combattuto, che si è trasformata in una burocrazia che promette e nega il dovuto, che si è dimenticata di lui e lo lascia da ventisette anni nel suo villaggio sperduto senza la promessa pensione, a gingillarsi con la speranza che il suo gallo da combattimento lo ricompensi della povertà e delle umiliazioni subite. Nella dinamica di questa coppia di dignitosi poveracci è lei, Marisa Paredes, che piange un figlio morto e si distrae assieme al curato con dei film non propriamente per educande, a sapere quanto pesino le illusioni, quanto bene starebbe quel gallo in pentola, quanto poco dignitosa possa diventare la dignità. Ma nonostante lo charme malinconico di Marisa Paredes il cuore del film batte al ritmo della follia del colonnello, ignora la saggezza borghese, aspira alla grandezza tragica del mélo, canta il fascino dell'utopia. Non sempre Ripstein ci riesce fino in fondo, ma ha il merito di portarci in un territorio cinematografico dove la tenerezza è un valore e la volgarità di pensiero è bandita.
Irene Bignardi, la Repubblica, 26/8/2000 |
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| Arturo Ripstein |
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