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O Dreamland - O Dreamland


Regia:Anderson Lindsay

Cast e credits:
Fotografia e assistenza regia
: John Fletcher; produzione: Lindsay Anderson per Sequence Films; paese origine: Gran Bretagna, 1955; durata: 12’.

Trama:Si tratta del breve ritratto, privo di commento, di una giornata di svago della working class tra le attrazioni del parco di divertimenti "Dreamland" di Margate, nel Kent, sede delle più antiche montagne russe del Regno Unito.

Critica (1):O Dreamland è per molti versi la placenta del "Free Cinema". In 12 minuti riesce a sollevare tutte le questioni che saranno centrali nel movimento. E a far riflettere su tutte le sue ambiguità. Apparentemente, è speculare rispetto a Thursday’s Children: un film «buono» e uno «cattivo», semplificando parecchio. Possiamo sicuramente ritrovare in questi due film la radice del conflitto rabbia-poesia che percorre tutta la carriera di Anderson. Ma O Dreamland non è un semplice pamphlet. Per certi versi è un film doloroso innanzi tutto per il suo autore. È uno sguardo amaro sul divertimento popolare, forse sulla cultura popolare tout-court, ma è impossibile capirlo senza tener conto del punto di vista assunto da Anderson. Che è lo stesso di Thursday’s Children: del tutto interno. Solo all’inizio il regista propone uno sguardo esterno: nella prima inquadratura, un uomo (l’autista?) che pulisce una Bentley. Dall’auto, la camera si muove in panoramica a inquadrare la folla che si dirige all’ingresso del parco dei divertimenti. Da qui in poi, il film non moraleggia, non giudica: diventa una discesa agli inferi in cui l’occhio del regista si identifica con l’occhio dello spettatore interno – appunto – al film. È una questione di materiali, non di atteggiamento. Perché O Dreamland non è certo un film oggettivo. Ma la soggettività è tutta nella scelta di campo (nel decidere chi e che cosa inquadrare), non in una qualsivoglia morale confezionata a posteriori.
Passare dall’autista della Bentley all’ingresso della fiera è l’unica scelta «ideologica» del film. Basta quest’immagine a dirci che abbiamo abbandonato i quartieri alti e ci stiamo incamminando verso il popolo, verso la working class, e mostrare come si diverte questa classe (almeno a Margate, se non ovunque) può essere un modo per capirla. Eccoli, dunque, i «divertimenti». Sesso, sangue, violenza. Animali imprigionati. Tableaux vivants che riproducono torture e impiccagioni.
«This is history portrayed by life-size models. Your children will love it», recita la voce di un imbonitore. E la storia rappresentata da modelli a grandezza naturale non è forse una perfetta metafora per il cinema?
O Dreamland è sicuramente il film più meta-filmico che il Free Cinema abbia prodotto. E non a caso è un film che crea i propri predecessori: il luna-park suscita numerosi ricordi, da Chaplin al Welles di The Lady from Shanghai (La signora di Shanghai, 1946), oltre naturalmente al Jennings di Spare Time, e ritorna spesso in altri film inglesi legati al Free Cinema (la sequenza di Blackpool in A Taste of Honey, l’incombenza della tv in Saturday Night e in The Loneliness of the Long Distance Runner), ma anche in autori insospettabili. Gli animali in gabbia non possono non far pensare al finale di Stroszek (La ballata di Stroszek, 1977) di Werner Herzog; e una citazione inequivocabile di O Dreamland (il pupazzo che si dimena, con quella stridula risata fuori campo) è contenuta in Absolute Beginners (id., 1986), il musical di Julien Temple sui teddy-boys degli anni ‘50. E appare quasi profetico l’uso della musica, con canzoncine languide (I believe di Frankie Laine, Kiss Me Thrill Me di Muriel Smith) usate per commentare immagini di orrore. Un uso che fa pensare a Kubrick – We’ll Meet Again di Vera Lynn che accompagna le esplosioni atomiche di Dr. Strangelove (Il dottor Stranamore, 1964) o tutte le canzonette pop di Full Metal Jacket (id., 1987) – ma anche a successivi film di Anderson, O Lucky Man! (altro titolo in forma vocativa...) in particolare.
Ma, al di là del gioco cinefilo, i veri protagonisti di O Dreamland non sono i pupazzi e le giostre, bensì la gente che paga per vederli. Il vero tema del film è l’omologazione tra lo spettacolo e lo spettatore, tra la domanda e l’offerta. Gli spettatori diventano manichini. E la gru finale, che si alza a inquadrare un totale del luna-park di notte, è simmetrica al carrello che si allontana dai bambini di Thursday’s Children. Una sospensione del giudizio. Forse un’impossibilità di giudicare. In entrambi i casi Anderson «assorbe» i personaggi all’interno del linguaggio filmico, ne assume il punto di vista, li penetra con la macchina da presa, per poi lasciarli al momento di trarre le conclusioni.
Alberto Crespi, Lindsay Anderson, Il Castoro cinema

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Lindsay Anderson
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