Nel nome del padre
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Regia: | Bellocchio Marco |
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Cast e credits: |
Soggetto, sceneggiatura: Marco Bellocchio; fotografia: Franco di Giacomo; : Giuseppe Lanci; scenografia: Amedeo Fago; costumi: Enrico Job; arredamento: Giorgio Bertolini; musica: Nicola Piovani; montaggio: Franco Arcalli; supervisione al montaggio: Silvano Agosti; aiuto regia: Ugo Novello; assistenti alla regia: Ghigo Alberani, Simone Carella, interpreti: Yves Beneyton (Angelo), Renato Scarpa (Vice Corazza), Laura Retti (madre di Franc), Lou Castel (Salvatore), Piero Vida (Bestias), Aldo Sassi (Franc), Marco Romizi, Ghigo Alberani, Gerard Boucaron, Edoardo Torricella, Tino Maestroni, Gisella Burinato, Luisa Di Gaetano, Claudio Besestri, Livio Galassi, Orazio Stracuzzi, Christian Aligny, Gianni Schicchi, Guerrino Crivello, Marina Cenna, Simone Carella; produzione: Vides; dstribuzione: INC; origine: Italia, 1972; durata: 105’. |
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Trama: | Anno scolastico 1958-1959, in un collegio religioso entra Angelo Transeunti per aver restituito a suo padre calci e schiaffi e pesantissimi insulti. È bello, ricco, anticonformista, convinto che ogni società sia basata sulla repressione ispirata da un modello. La repressione cattolica non funziona più, il modello cristiano non è più imitabile. Teorizzatore del superuomo, hitleriano in sedicesimo, strumentalizza i compagni... |
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Critica (1): | La fragorosa sequenza di un canto penitenziale e le immagini d’ambiente collocano la vicenda in un collegio di lusso, anno scolastico 1958-1959. Vi è rinchiuso Angelo Transeunti per aver restituito a suo padre calci e schiaffi e pesantissimi insulti. Il personaggio resta coerente in ogni circostanza: teorizzatore del superuomo, hitlerino in sedicesimo, strumentalizza i compagni, fa espellere il vile prefetto Diotaiuti, induce un compagno a uccidere la madre isterica e seccatrice; mentre un altro si suicida, mette a soqquadro il collegio; mascherato da cane si aggira per i locali portando a spalla il cadavere di un sacerdote, il professor Matematicus; esprime il suo disprezzo per gli inservienti, un’accozzaglia di rottami della società che subiscono in collegio l’estremo sfruttamento gabellato per carità cristiana e redenzione. D’accordo con le sue teorie circa il potere che ha bisogno della paura, riesce a realizzare uno spettacolo grottesco e blasfemo che disgusta gli insegnanti, terrorizza il gruppo dei piccoli collegiali e diverte gli altri. Sembra, e crede di essere, il dominatore, ma gli tengono testa il vicerettore, padre Corazza, sufficientemente illuminato da capire la fatiscenza dei vecchi metodi, e troppo debole per instaurarne di nuovi; Salvatore, il capo degli inservienti, che punta su rivendicazioni più modeste e concrete; in qualche modo anche il gruppo dei collegiali, nevrotici, ipocriti, viziosi, velleitari, già rassegnati a non contar mai nulla. Immagini e voci dei funerali di Pio XII si inseriscono più volte quale annotazione storica, e, si pretende, emblematica di un’epoca non seppellita, oscurantista e repressiva. Le ultime immagini mostrano Transeunti in fuga su una lussuosa automobile, ridotto a catechizzare Tino, il pazzo convinto di essere in comunicazione coi marziani. La prepotenza registica istintiva di Bellocchio si rivela in questo film al suo meglio. In partenza, l’operazione ci sembrava più che discutibile: un collegio degli anni Cinquanta, con le esasperazioni e le assurdità dì un tipo di società e di educazione da "guerra fredda", e un finale da ’69, dove i protagonisti si ritrovano contestati e malmenati dalla classe operaia, secondo schemi, politici alquanto rozzi. Girando, Bellocchio s’è accorto che il film non reggeva il finale, e che aveva invece anche senza di quello una sua autonomia e una sua forza. E ha insistito nella esplicazione dei personaggi, lasciandosene guidare e violentando la materia in direzione vieppiù espressionistica, raggiungendo così una tensione che è anche politica e che meglio d’ogni operazione programmatica – che probabilmente non sarebbe ancora in grado di controllare perfettamente – ne fa esplodere un nucleo, un senso ultimo ricchissimo di implicazioni e di risonanze. Con questo film, insomma, non solo Bellocchio chiude a livelli che La Cina è vicina non lasciava sospettare, una sorta di trilogia piacentina e autobiografica, ma anche apre verso una piena padronanza di stile e, ciò che conta ancora di più, verso un modo personale di intendere il suo rapporto di regista con la politica che pare a noi legittimo e valido nel contesto borghese del cinema "nel sistema". Anche se egli continua a rivelare una sorta di inadeguatezza politica, una incompiuta maturazione verso un controllo davvero totale nei confronti della sua materia e dei suoi significati, in parte dovuta ai modi in cui la sua politicizzazione è avvenuta (MS e Unione M-L).
Formalmente Nel nome del padre è un film che rientra in una tradizione ancora ottocentesca e naturalistica (in particolare, a parer nostro, teatrale) violentata e distorta espressionisticamente. È una strada già percorsa: si pensi appunto al cinema e alla letteratura e alla cultura del primo dopoguerra europeo, da Stroheim a Toller... Ma vi è in più una minacciosa visionarietà, sinora abbastanza estranea al nostro autore, che è quella che rende invece presente, nonostante tutto, la sua metafora. Il suo collegio di preti inetti e severi, di prefetti meschini e sfruttati, di allievi ignobili futuri commercianti e deputati, e di servi "esclusi" con le loro "malattie" condizionate da un contesto e condizionantelo, è un microcosmo grottesco ed esasperato di una realtà che è appunto quella della "guerra fredda". Ma via via ne scaturiscono elementi e temi sui quali a nostro parere va insistito, poiché la maestria del regista nel rendere questa cupa bolgia istituzionale e repressiva può essere difficilmente messa in discussione. E anche perché è probabile che una parte della critica e del pubblico si fermerà a questo livello, quello così dibattuto oggi ma rispetto a cui non crediamo che Bellocchio dica grandi novità, delle istituzioni totali, dell’educazione, ecc.
Ci preme mettere in luce due momenti diversi, i più indicativi e fondamentali del film. Il primo è riscontrabile nella preparazione della recita (che è poi un centone di parrocchiale e di Faust e Verdi e Don Giovanni e Manzoni). Il secondo nel senso ultimo dei tre personaggi che assurgono a chiave e simbolo del film: Angelo, soprattutto e poi Tino e Franco.
Nella recita, le divergenze Angelo-Franco rappresentano un dibattito di Bellocchio con se stesso (e in questo senso è significativo che ancora il regista "castighi" nel suo interesse la parte di Franco – intellettuale futuro – anche se, a differenza della prima sceneggiatura, lascia indeterminato è aperto il suo domani, e che invece subisca ancora nettamente il fascino di Angelo, individualisticamente determinato e fanatico). Per il secondo, si dovrebbe "demistificare dall’interno" l’istituzione; per il primo, "plagiare" lo spettatore fino a condurlo a vertici di paura e condizionamento, che appunto esasperando la sua realtà lo rendano uno strumento nelle mani dell’autore-regista. Ma questa distinzione è incerta, che il progetto dì Angelo non può infine che ridursi a semplice (e sterile) provocazione. Sacrificata, la parte di Franco è tuttavia quella a lungo andare da affermare se è vero che Angelo è poi posto a distanza. Dal regista finalmente aggredito vincendo la sua malefica fascinazione e scoperto per ciò che è ed è sempre stato: un neo capitalista neo nazista. La definizione ultima di Angelo è indubbiamente costata a Bellocchio non poca fatica, proprio perché, probabilmente, c’è stato in lui qualcosa di Angelo, e qualcosa di Angelo era indubbiamente nel verde criminale dei Pugni in tasca.
L’accanimento delle sconfitte (che Bellocchio riversa sulla "sua" parte di Angelo) depura Angelo, lo chiarifica, lo isola e illumina a dovere. Nel dialogo finale, Angelo e Tino dibattono un’utopia fantascientifica e delirante. Dapprima s’ha l’impressione di un Tino risvolto di pazzia della razionalità assoluta e nazi di Angelo, ma non siamo ancora alla giusta soluzione, e Bellocchio precisa ulteriormente. Così oltre l’assunto paraadorniano dell’estrema ragione borghese finita in pura irrazionalità (l’iter Voltaire-Hitler), e oltre il riferimento spontaneo a Re Lear e al suo Matto, scopriamo invece nel dialogo tra i due invasati di scienza, anche un’ultima e profonda distinzione di classe. L’utopia di uno (che, sia detto per inciso; recita a soggetto, e dice quello che dice nella vita quotidiana, recita se stesso), è di un mondo dove l’uomo sia infine liberato dalle sue storture e purificato e salvato dalla scienza, nella esaltazione delle sue qualità positive che l’uomo terrestre non ha invece saputo esaltare lasciandosi preda all’odio; l’utopia di Angelo è di un mondo controllato, da pochi individui ultrarazionali, in grado di sfruttare anche l’odio per i propri fini, freddi e iperlucidi superuomini che dispongono del potere, di ogni potere, nazisti senza la pretesa al sublime dei nazisti, e invece concretissimi capitani d’industria e di politica. La metafora, come si vede, resta ricca in implicazioni enormi, che rifuggono dall’attualità, in una dialettica che va dal passato (gli anni Cinquanta) a un futuro (l’utopia di Angelo), e che salta quasi del tutto le compromissioni del presente. In questo, la metafora è ardita, ma districabile, interpretabile. Senza contare, come s’è detto, i dati di concreta polemica con un’istituzione, che è tanto la santa romana Chiesa quanto la turpe democrazia cristiana di ieri e di oggi, e speriamo non di domani.
Lo spettatore più coinvolto nel tempo e nella presenza potrà trovare questo film evasivo, ed esso di certo non gli offre nessuna indicazione positiva, o almeno nessuna indicazione riconoscibile e immediata. Ma non da oggi sosteniamo la validità di una negazione determinata (come di una avanguardia determinata) all’interno di un cinema che opera "nel sistema". Bellocchio ha scelto la sua strada. Rifugge dalla denuncia e dalla elucidazione immediata, continua un discorso di autore, ma di autore di forza e rigore. La sua negazione va oltre i dati di un’esperienza precisa e cerca di cogliere, per strade intricate che egli stesso non conosce e controlla ancora perfettamente e sulle quali si orienta con una bussola imprecisa ma con un grande istinto, la lezione dì un nostro preciso passato prossimo che perdura. Non chiude le prospettive dei veri nostri possibili amici e vicini di oggi, Salvatore e Franco. E apre su uno dei nostri più possibili futuri, allargando le pareti del momento per indicarcene la costante minaccia.
Goffredo Fofi, Capire con il cinema, Feltrinelli, 1977 |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
| Marco Bellocchio |
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