Mnemonista (Il)
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Regia: | Rosa Paolo |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Lara Fremder, Paolo Rosa, Giuliano Corti, dal libro “Un piccolo libro una grande memoria” di Aleksandr R. Lurija; musica: Luca Francesconi; fotografia: Fabio Cirifino; montaggio: Jacopo Quadri; scenografia: Stefano Gargiulo, Esther Musatti; costumi : Bettina Pontiggia; interpreti: Sandro Lombardi (S.), Roberto Herlitzka (professor L.), Sonia Bergamasco (Eva), Sergio Bini (presentatore), Cristina Proserpio (stenografa), Pietro Lombardi (S. bambino), Ermanna Montanari, Angela Parmigiani; produttore: Daniele Maggioni, Gianfilippo Pedote; produzione: Studio Azzurro; distribuzione: Mikado; origine: Italia, 2000; durata: 90'. |
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Trama: | È la storia di S., primo violino di un'orchestra dotato di una memoria prodigiosa. Poiché tale dote è ossessiva e gli impedisce di lavorare, S. decide di andare in analisi. Ma non serve a nulla. Pensa così di diventare "il mnemonista" e di esibirsi nelle piazze. Ma si sente esplodere. E cercherà in tutti i modi di annullare tutto ciò che lo circonda e che la sua mente non esita a "fotografare". Film di grande effetto, tratto da una storia vera. |
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Critica (1): | Ne Il mnemonista non accade praticamente nulla in ossequio a una struttura da teatro da camera in cui è la tessitura sottile dei dialoghi e dei pensieri a creare il supporto drammaturgico. Nell’apnea del non-spazio/tempo, un uomo si confessa con il suo medico, gli confessa un’incredibile facoltà mnemonica che diviene registrazione maniacale e perfetta di ogni dettaglio, ogni gesto, ogni iperbole della mente, del suono, del tatto, dell’occhio. L’uomo chiede aiuto, ma è anche un muro roccioso ritto contro il positivismo della scienza che pretende di comprendere tutto e tutto risolvere. Nelle brecce della confessione prendono vita fantasmi, emozioni, amori, sconfitte. Ma alla fine resta sospeso un mistero che il mnemonista porta con sé, inscalfibile e indelebile, proprio come la sua memoria. (...) In un’altra società cinematografica, Il mnemonista avrebbe avuto una nicchia di assoluto privilegio, sarebbe inseguito dagli spettatori colti, creerebbe evento culturale e sarebbe inseguito dai festival stranieri. Nella congiuntura attuale del nostro cinema rischia invece di passare quasi inosservato e di essere preso, dagli “altri” come un Greenaway imperfetto, come una grottesca parodia seriosa del Mister Memory creato da Hitchcock nel suo secondo periodo inglese (vedi I 39 scalini). Non che il film sia esente da critiche ragionate: il paradosso dell’assunto prende talvolta la mano, la ricercata teatralità degli interpreti (soprattutto Roberto Herlitzka) non si armonizza sempre con l’elegante avanguardia del gesto filmico, la linea narrativa risulta a volte troppo interrotta e forse perfino inconcludente verso il finale.
Se però si possono dire queste cose – a rischio di smentita da un autore che è tra i migliori critici della sua stessa opera – è perché si sta di fronte a un segno alto della nostra cultura, alla prima, autentica riflessione sulla memoria per un tempo e una società che ne vanno facendo, con lucida volontà suicida, il valore più disatteso, cancellato, dimenticato.
Giorgio Gosetti, Cinema zip 20/9/2000 |
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Critica (2): | Il lavoro compiuto in quasi vent’anni di attività da Studio Azzurro (fondato a Milano nel 1982), rappresenta uno dei percorsi più affascinanti e riconosciuti nel campo della ricerca audiovisiva. Una bella mostra tenutasi al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 1999, che riuniva per la prima volta tutte le installazioni interattive dello Studio insieme a disegni e progetti, testimoniava il frutto di una sperimentazione mai compiaciuta ma sempre proiettata verso nuovi traguardi espressivi, che tengono conto della mutazione dei mezzi e delle loro possibilità (dal 1995, con l’entrata nello Studio di Stefano Roveda, la ricerca del gruppo si e orientata decisamente verso l’interattività). La natura del loro lavoro ha portato Fabio Cirifino (fotografia), Paolo Rosa (arti visive e cinema), Leonardo Sangiorgi (grafica e animazione) e Stefano Roveda ad operare soprattutto in ambito espositivo, con videoinstallazioni e mostre. Frequenti anche le collusioni con il teatro (memorabili le collaborazioni con Giorgio Barberio Corsetti); più sporadiche quelle con il cinema, legate soprattutto all’attività parallela di filmmaker di Paolo Rosa. Il mnemonista, diretto da quest’ultimo e prodotto da Studio Azzurro con l’apporto creativo di tutti i suoi componenti, rappresenta dunque un piccolo avvenimento per tutti coloro che seguono ed ammirano il lavoro degli artisti milanesi.
Alla base del film un libro, o meglio un trattato, Un piccolo libro una grande memoria del neuropsicologo Aleksandr R. Lurija, pubblicato nel 1972. (...)
La vicenda raccontata, realmente accaduta, e quella di un uomo dalle capacita mnemoniche eccezionali, riconducibili a complessi processi mentali che accostano parole ad immagini, poi scolpite per sempre nella memoria. Tormentato dalla quantità imponente di informazioni visive in suo possesso, il protagonista S. vorrebbe liberarsene e a tal scopo si sottopone all’analisi di L., un luminare della psichiatria. Gli incontri tra i due sono tra i momenti più felici del film, grazie anche alla bravura dei due interpreti, Sandro Lombardi (nome tutelare della sperimentazione teatrale italiana) nel ruolo di S. e Roberto Herlitzka nel ruolo dello psichiatra.
Scartando ovviamente la possibilità di una narrazione tradizionale, visto il tema trattato, Paolo Rosa ricostruisce l’originale vicenda di S. con sequenze disomogenee, inseguendo la possibilità di rappresentare per immagini la fenomenologia mentale del protagonista. Ne risulta un film ostico ma affascinante, sicuramente adatto ad un pubblico disposto a farsi parte attiva della visione, fortemente cinematografico a dispetto di tutte le contaminazioni che propone, poiché perfettamente integrate nel tessuto visivo. Un film, Il mnemonista, che esalta la libertà del cinema, forzandone le barriere espressive in cui e sempre più costretto e concedendosi il gusto (o il lusso, se si vuole) della ricerca, sempre più rara nella produzione italiana attuale.
Alberto M. Castagna, KWcinema |
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Critica (3): | Incontriamo il regista de Il mnemonista presso Studio Azzurro, con cui Rosa ha avviato un sodalizio a partire dal 1982 per scommettere su progetti artistici innovativi. Fra i promotori della prima rassegna Filmmaker a Milano (associazione che da vent’anni sostiene la produzione audiovisiva indipendente), Rosa ha al suo attivo significative esperienze di ricerca nell’ambito delle installazioni video, oltre che in campo cinematografico e teatrale.
Ciao Paolo.Il mnemonista è un film molto particolare. Una sfida, in rapporto alla produzione italiana standard. Ci vuoi dire com’è nato?
Dopo l’uscita di un nostro mediometraggio, "L’osservatore nucleare del Sig. Nanof" nel 1985, ci fu segnalato un testo di A. R. Lurija, un’edizione intitolata "Una memoria prodigiosa". Le sinestesie e i meccanismi mentali descritti si associavano agli itinerari che stavamo percorrendo allora con le installazioni video. Dopo vari tentativi di ricavarne una sceneggiatura, il progetto è affiorato più volte per fornire spunti al nostro lavoro, anche teatrale ("La camera astratta" nell’87). Di qui la necessità quasi fisiologica di esorcizzarlo una volta per tutte.
La tua opera offre immagini di grande cura formale. Credi che fornire suggestioni visive sia l’elemento specifico del cinema postmoderno?
Indubbiamente il cinema deve possedere una sua visionarietà e una dimensione estetica pregnante dal punto di vista della ricerca. Non so se sia corretto definirlo un elemento postmoderno, è piuttosto una fase di transizione. Se dovessi ipotizzare una forma di racconto prossima a venire farei capo a un intreccio di analogie e sensazioni, anche al di là del vedere e sentire. A tal proposito, però, bisognerebbe fare un discorso a parte sul cinema italiano, che non è particolarmente attento a quest’orizzonte. Ciò che mi premeva maggiormente mentre progettavo il film era di superare la narrazione lineare in senso stretto, lasciare degli interstizi di senso sondabili dall’immaginazione dello spettatore. Un testo aperto, insomma. Per un pubblico partecipe e attivo.
Al tuo film è sottesa la metafora di una società e di un individuo bombardati da un flusso indistinto di messaggi e sollecitazioni visive, con il rischio di un collasso d’identità culturale. Quali criteri selettivi adotti, come artista e al tempo stesso come spettatore, per scegliere cosa vedere?
Credo che viviamo in un contesto troppo affollato di sollecitazioni, troppo convulso dal punto di vista temporale e spaziale. Tutto ciò provoca un inevitabile indebolimento delle difese atte a filtrare la molteplicità degli stimoli visivi. Come sostengo nel libro "Ambienti sensibili", ci troviamo in una condizione di iperrealismo, pervasa da modelli che non appartengono alla nostra esperienza, ma sono mutuati da sistemi esterni. Così, la nostra realtà è compenetrata da una dimensione finzionale, virtuale. Questa dissociazione, a cui peraltro il cinema e ancor di più la televisione hanno contribuito, ci rende incapaci di distinguere tra il vero e il falso, di ritrovare il nostro percorso storico-culturale-affettivo. La conseguenza è la frammentazione interiore.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Ho sicuramente voglia di continuare l’avventura cinematografica, ma senz’ansia. È una mia scelta di vita quella di far parte di un soggetto creativo collettivo. E il percorso progettuale di Studio Azzurro è molto complesso, è fatto anche di altre discipline, come il teatro e le installazioni video. Per ora non avverto il bisogno di assumere il cinema come esigenza espressiva primaria.
Recentemente sei intervenuto a un convegno sull’autoproduzione svoltosi in occasione del MilanoFilmFestival. Quale consiglio ti sentiresti di dare a un aspirante filmaker?
Non dovrebbe cedere alla tentazione di narrare la storia che ha letto sul giornale. Un film non rappresenta un’ipotetica realtà, ma è innanzitutto un’esperienza esistenziale, estetica, linguistica. Un mezzo per abbattere gli stereotipi e costruire metafore spiazzanti. Si è dimenticato che il cinema non è un business volto a compiacere il pubblico, ma è sempre stato un ambito sperimentale per immagini e racconti. Basti pensare, ad esempio, a Pasolini. Ma è venuto meno il coraggio. Manca una propensione alla ricerca – anche di un’identità precisa - che non viva di rendita nei confronti del neorealismo o della commedia all’italiana. Senza eccedere nello sperimentalismo, giacché non è più il momento degli avanguardismi esasperati degli anni Sessanta-Settanta. E senza dimenticare le radici: per esempio, il realismo magico e poetico che fa capo a Pasolini. Inoltre, gli spettatori sono più attivi ed intelligenti di quel che si è soliti credere. A Milano, a Roma e in altre città abbiamo avuto una risposta di pubblico molto soddisfacente. C’è chi ha ancora voglia di impegnarsi un po’, assumersi qualche responsabilità, vedere un film che non sia una semplice storiella ludica.
Il tuo film analizza le straordinarie capacità della memoria umana. Quale film non potresti mai dimenticare?
Più che un singolo film, un’intera categoria. Quella delle opere incompiute, contenenti una miriade d’idee e intuizioni intriganti. Penso in particolare a Orson Welles, al suo vagare nel cinema per frammenti, dopo aver realizzato alcuni capolavori compiuti.
(Paola Daniela Orlandini, www.tempimoderni.com) |
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Critica (4): | |
| Paolo Rosa |
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