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Maman et la putain (La) - Maman et la putain (La)


Regia:Eustache Jean

Cast e credits:
Soggetto, sceneggiatura e dialoghi: Jean Eustache; fotografia: Pierre Lhomme; montaggio: Jean Eustache, Denise de Casabianca; musica: Zarah Leander ("Ich Weib, es wird Einmal ein wunder ghescheh'n"); Damia ("Un souvenir"); Offenbach ("La Belle Hélène"); Deep Purple ("Concerto for Group and Orchestra"); Marlene Dietrich ("Falling in Love Again"); Fréhel ("La chanson des Fortifs"); Mozart ("Requiem"); Edith Piaf ("Les amants de Paris"); suono: Jean-Pierre Ruh, Paul Lainé; costumi: Catherine; interpreti: Jean-Pierre Léaud (Alexandre), Bernadette Lafont (Marie), Frangoise Lebrun (Véronika), Isabelle Weingarten (Gilberte), Jacques Renard (l'amico di Alexandre), Jean-Noél Picq (l'appassionato di Offenbach), Jean Douchet (l'uomo del Flore), Jean Eustache (l'uomo con gli occhiali neri nel negozio di alimentari), Jessa Darrieux, Marika Matuszewski, Geneviève Mnich, Berthe Granval; produzione: Pierre Cottrell per Elite Films/Ciné Qua Non/Les Films du Losange/Simar Films/VM. Productions; distribuzione: Lab80; origine: Francia, 1973; durata: 220'.

Trama:Perché raccontare un film? Forse per togliere di mezzo tutto ciò che non conta. O conta poco. Tutto quello che sarebbe potuto essere romanzo o qualche altra cosa. Tutto ciò che non è ancora il film. Bene. Diciamo allora, anzitutto, che lei ha un faccino pallido, come se avesse passato le notti in un film di Bresson. Lei si chiama Gilberte e - come una certa Gilberte così cara a Proust - ha appena lasciato l'eroe che la ama ancora e la supplica di restare. Invano. Lui è Alexandre ed è Jean-Pierre Léaud. Non ha un lavoro. E ne va piuttosto fiero. Soprattuto la mattina presto quando incrocia gente che non si sente troppo bene tra il letto e il lavoro. È quella l'ora in cui Alexandre torna a casa - o meglio torna da Marie (Bernadette Laffont), perché lui dorme da Marie, con Marie. Ma ci dorme poco perché lei di giorno lavora. Ha una piccola boutique dove vende vestiti. Alexandre ama molto Parigi, solo di notte, però. Di giorno preferisce passare il tempo sulle terrazze dei caffe o discutere col suo amico Charles. Un giorno Alexandre incontra una ragazza, Véronika (Frangoise Lebrun). La rivede, sempre più spesso. Alexandre è un ragazzo volubile. Véronika lo sta ad ascoltare. È infermiera. Senza un soldo, come Alexandre. Dorme addirittura in ospedale per non pagarsi una stanza. Di gente, lei ne conosce un sacco, all'ospedale o nei bar aperti di notte. Tutti quanti pronti a fare l'amore. D'altra parte, a lei piace questa cosa, di fare l'amore. Un tipo come Alexandre che non ha voglia di saltarle subito addosso, che è gentile e che ama i vecchi dischi, lei proprio non l'ha mai visto. Un giorno, Alexandre invita Véronika da Marie. Proprio per ascoltare un vecchio disco graffiato. Marlene Dietrich o una sua imitatrice, non so più. Marie trova che Véronika non è un granché.
Da lì in poi, impossibile raccontare il film. Che senso ha il dire che un giorno, mentre Marie è andata a comprare vestiti a Londra, Véronika fa l'amore con Alexandre? Come spiegare che Marie, al suo ritorno, non fa nessuna scenata? E che di lì a poco si ritrovano tutti e tre insieme nel suo letto. E che la macchina da presa, giustamente, non ne fa una storia e neppure un dramma. La tenerezza, il piacere, l'angoscia, la follia, la libertà sessuale, la sofferenza al limite del sopportabile. C'è tutto questo nel film. Una notte, Marie tenta di suicidarsi davanti ad Alexandre e a Véronika. Un'altra volta, Véronika e Marie si uniscono per fare un processo ad Alexandre. Quel che è certo è che, in fondo a questo inferno, Véronika ama Alexandre. Di un amore terribile e puro. Questa piccola infermiera vuole un bambino. Si ritroverà incinta. Alexandre si accorgerà di rivivere la stessa situazione di un tempo con Gilberte. Perderà Véronika come ha perso Gilberte?

Critica (1):Durante i giorni del maggio '68, su una parete della Hall Richelieu della Sorbonne qualcuno aveva scritto che "la vita è un'antilope viola su un campo di tonni", citando Tzara e dando voce, proprio nel cuore della rivolta parigina, alla contraddizione che riposava al fondo di quelle concitate settimane, ne indicava l'ampiezza del desiderio (pre-politico? post-politico?) che le animava e, con essa, l'impossibilità di realizzare quegli obiettivi in cui, troppo generosamente, una buona parte del Movimento degli studenti pensava di riuscire ad incarnarlo. Nell'immagine dadaista si scoprivano le carte: la parola era la vera protagonista della scena, che sarebbe rimasta, anche a spettacolo finito, padrona del campo nelle forme e con le pretese più diverse, confinando i suoi agenti ad un ruolo di spalla che in troppi casi non avrebbero neppure saputo interpretare - con risultati anche tragici, molte volte per sé, qualche volta per altri.
Facciamo qualche passo indietro. Una delle immagini a effetto che la Comune di Parigi del 1870 ci ha tramandato è quella degli orologi sabotati, a indicazione del rifiuto di una concezione del tempo direttamente identificata con quella di "tempo di produzione" dell'industria. Un gesto dal valore simbolico straordinario, che d'altra parte non poteva negare all'iniziativa rivoluzionaria in corso il suo rapporto con la Storia passata e con il progetto politico che la proiettava verso il futuro: il suo rapporto con il tempo, per l'appunto. Ogni atto rivoluzionario (o comunque sentito tale dai suoi protagonisti) sembra collocarsi in una dimensione di atemporalità, che sola ne sancisce il carattere di eccezionalità nel susseguirsi paziente delle opere e dei giorni e ne sottolinea gli aspetti di rottura col passato, facendo momentaneamente dimenticare che proprio di quel passato (e dunque del tempo) è il prodotto. Non si tratta, in ogni caso, di un semplice (e presuntuoso) equivoco, dal momento che gli individui concreti che ne sono portatori hanno poi i loro bravi problemi per ritornare ad una collocazione più "realistica" nel flusso degli eventi, qualunque sia stato il risultato di quell'atto.
Il tempo; la parola. La seconda ha bisogno del primo per articolarsi in discorso, come la musica, come il cinema; quest'ultimo ha nella parola un alleato prezioso, a patto che vengano rispettate alcune convenzioni destinate a rabbonire e prendere per mano (o per il naso) il pubblico: convenzioni relative alla durata del racconto, alla scansione delle sue parti, al ritmo interno ad esse. Ma come è possibile adattarsi al mansionario usuale, raccontando di un personaggio come l'Alexandre di La maman et la putain, ancora così fuori margine e palesemente incapace di riacquistare dimestichezza con le norme necessarie a un "produttivo" ritorno all'ordine? Non che non ne sia consapevole: "Sai, non mi lascio illudere. C'è il tempo che passa... Non potrò lottare molto a lungo con lui" sono tra le prime parole che lo sentiamo pronunciare, rivolgendosi a Gilberte, la donna che lo ha lasciato per cercare in qualcun altro garanzie migliori rispetto a un equilibrio generale di cui non può più comunque fare a meno: "Come la Francia dopo l'occupazione, come la Francia dopo il maggio '68. Ti stai risollevando come la Francia dopo il maggio '68. Amore mio", le dirà ancora, riassumendo in poche frasi crudeli il bilancio di una breve stagione, ormai chiusa insieme alle sue sconsiderate utopie.
Alexandre vive un lutto, incapace di assorbirlo e metabolizzarlo. Questa incapacità lo isola. I suoi gesti, i suoi spostamenti, apparentemente analoghi a quelli delle persone che lo circondano, che lo incontrano o che semplicemente lo sfiorano nelle strade o sulle terrasses dei caffè, sono in realtà fuori sincrono, ora rallentati e ora troppo veloci per non porre problemi di relazione e di interpretazione (Véronika: "Mi piacciono molto i suoi occhi... e la sua bocca... e il suo sorriso". Alexandre: "Non rido mai"). A un'amica di ieri, incontrata per caso al caffè (e di cui, qualche giorno dopo, leggerà sul giornale che è ricercata dalla polizia per aver ucciso un uomo) enuncia senza mezzi termini l'origine della sua orfanezza e della sua angoscia: "C'è stata la rivoluzione culturale... il maggio '68... i Rolling Stones... i capelli lunghi... le Black Panthers, i Palestinesi, l'underground, e da due o tre anni più niente! Niente nella moda... neanche un film... niente!". La chiusura di un decennio all'insegna del troppo pieno ha lasciato la generazione che è cresciuta con lui completamente indifesa, nell'orrore del vuoto che ne è seguito: il tempo, che prima sembrava scorrere nell'esaltazione, nell'eccitazione di continue novità (da ascoltare, da vedere, da agire), all'improvviso, senza più respiro, ha rallentato: chi lo cavalcava aderendovi senza riserve si è trovato proiettato idealmente in avanti, per effetto di inerzia, avendo perso punti di riferimento e appigli che lo sappiano rendere partecipe della nuova situazione. Alexandre vive al contrario: rifiuta un'occupazione, non ha casa, ma non per questo si sente in colpa o si ritiene inoperoso: "No, non faccio niente, ma gliel'ho detto: ho una vita molto piena" dice a Véronika. Qual è la sua occupazione? Affermare se stesso, la propria individualità. Più che "occupazione" forse sarebbe meglio definirla una performance a tempo pieno, in cui prenda corpo un'idea dell'esistenza che non arretri di fronte all'incalzare della mostruosa normalità. Attenzione: affermare se stesso non significa necessariamente comprendersi e proprio questa sfasatura, questo equivoco, finiranno per consegnare Alexandre al silenzio - lui, l'irriducibile parlatore, dapprima alla mercé del discorso altrui, delle sue "creature", Véronika e Marie, e infine messo a tacere (Alexandre: "Vuole sposarmi?". Véronika: "Sì... Sto male... Mi viene da vomitare... Se vuole sposarmi si renda utile, mi prenda un catino... Non mi guardi! Non mi va che mi guardino quando vomito! Si giri!" - titoli di coda).
Il film racconta, a prima vista, la "storia più vecchia del mondo", quella di un uomo innamorato di due donne, che a loro volta sono innamorate di lui, e delle complicazioni che gli derivano da questa situazione, sulla quale finisce per non avere più controllo. Lo scacco a cui Alexandre va incontro è però, in realtà, di portata più ampia. In lui si evidenzia, a partire dalle prime immagini che ce lo presentano, non solo fisicamente ma anche in azione, il tipo dell'eroe romantico: contrapposto ad un contesto storico in cui non riconosce se non perdita e mancanza di senso, egli cerca di riportare un ordine nel caos attraverso lo strumento della parola. La sua è, in ultima analisi, un'attitudine artistica che, invece di porsi come fine la produzione di opere destinate a una loro esistenza autonoma, si esercita e si mette alla prova sulla vita medesima del soggetto: Alexandre vuole essere l'opera di se stesso, la posta in gioco è dunque altissima e di pari portata sarà dunque l'eventuale fallimento. È dunque lui "l'antilope viola" che attraversa "il campo di tonni", irridendolo con la sua leggerezza ma contemporaneamente mettendosi a rischio di scivolare irreparabilmente sulla sua consistenza ingannevole: una scelta premeditata, una corsa disperata affrontata in piena consapevolezza ancorché con una fiducia forse eccessiva nelle proprie risorse: "Jean-Pierre ha bisogno di organizzare su di sé e intorno a sé una vera e propria messa in scena. Bernadette non ha questo problema, che JeanPierre cerca di risolvere tramite la parola. Jean-Pierre pensa a ciò che va dicendo, il suo discorso è premeditato, il suo tono è monocorde perché è come se lui stesse rileggendo un pensiero già scritto". La sua controparte, lo specchio in cui cerca una conferma di sé, senza accorgersi della distorsione decisiva dei propri tratti che invece ne viene rimandata, è Charles: l'apparente rapporto di amicizia e di complicità che sembra legarli non fa che sottolineare la differenza che li segna e li allontana. Se Alexandre è l'individuo che "non ci sta", che cerca comunque lo scontro con una normalizzazione dilagante da cui si sente minacciato, Charles è già, in qualche modo, oltre: il suo è un prototipo di atteggiamento "post-moderno", per il quale parole, immagini, oggetti si assemblano su un piano di "parità", mettendo così al riparo dal dolore associato alla mancanza di senso (il senso sta proprio nella sua mancanza: non resta che il flusso della vita, con il suo accumulo continuo di oggetti, discorsi, persone, situazioni, da cui lasciarsi portare). Quando Charles ci appare per la prima volta a casa sua, è seduto su una sedia a dondolo, come una sorta di icona del "saggio" che sa trarre dall'instabilità del movimento oscillatorio il principio stesso del proprio equilibrio, della propria sicurezza. In occasione della visita successiva, si esibisce con nonchalance su una sedia a rotelle rubata (a suo dire) a un paralitico; l'ambiguità introdotta dall'associazione inevitabile tra lo strumento e l'infermità di chi normalmente è costretto ad usarlo (e dunque sull'effettiva portata della libertà di cui il personaggio di Charles sembra essere depositario) viene poi amplificata dall'esibizione di disinvoltura con cui, nella conversazione, volteggia dalla falsa Marlene Dietrich, inventata dai nazisti per sostituire quella vera trasferitasi in America, al giochino della "rana sul soffitto", alle macchinazioni seduttive concordate in favore dell'amico Alexandre. L'incontro tra i due amici si conclude con l'accordo di ritrovarsi al caffe l'indomani, come se fosse per caso, poiché Alexandre vi ha un appuntamento con Véronika. Le affermazioni di Charles a proposito dell'improvvisazione ("Di improvvisare non se ne parla. Se vuoi che parli, dimmi cosa devo dire. Io dico quello che vuoi, quello che ti fa gioco. Recito. Non aspettarti altro da me") sono state lette in più occasioni come una sorta di dichiarazione di Eustache, per interposta persona, sul proprio modo di concepire il lavoro dell'attore; giusto, ma, se le inseriamo nel contesto del confronto Alexandre/Charles sopra accennato, risuonano facilmente come una conferma della disponibilità di Charles a lasciarsi plasmare dalle esigenze della situazione esterna, contrapposta al ruolo organizzatore, ordinatore, che, invece, è delegato a Alexandre.
La ricerca di libertà di cui Alexandre è protagonista non potrebbe essere più intima, né meno "originale" per quanto concerne il suo progetto relativo alla sfera sentimentale-amorosa; fa da corollario a questa propensione per la replica, la sua nostalgia appassionata per le canzoni d'amore che provengono da un passato che nell'esperienza gli è del tutto estraneo. Il personaggio è quindi portatore di un ripiegamento, rispetto alla portata globale del movimento sessantottesco, a cui seguita a fare riferimento nei suoi discorsi, che potrebbe facilmente dare lo spunto per interpretazioni sociologiche o politiche; mi sembra in realtà più produttivo riconoscere che Eustache decise di lavorare su un motivo narrativo (ancorché saldamente ancorato a un contesto - storico, sociale, generazionale, e addirittura "di quartiere" potremmo dire), che gli permetteva prima di tutto di mettere in gioco, radicalmente, la parola: come strumento di espressione, di rivendicazione, confessione, (auto)inganno, seduzione, resa, complicità, apertura, memoria, dissimulazione, silenzio. Nella catena delle parole si articola il discorso; due anni prima della realizzazione di La maman et la putain, il 2 dicembre 1970, Michel Foucault notava nella sua lezione inaugurale al Collège de France che "il discorso, in apparenza, ha un bell'essere poca cosa, gli interdetti che lo colpiscono rivelano ben tosto, e assai rapidamente, il suo legame con il desiderio e col potere. Non vi è nulla di sorprendente in tutto questo: poiché il discorso - la psicanalisi ce l'ha mostrato - non è semplicemente ciò che manifesta (o nasconde) il desiderio; e poiché - questo la storia non cessa di insegnarcelo - il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi"; il discorso che il film ci sottopone è un discorso amoroso, che è fatto di desiderio sessuale e volontà di potere dissimulati dietro la gamma delle modulazioni possibili, in relazione alle circostanze o alle strategie che determinano il loro prodursi. Il soggetto che dà inizio a questo discorso finisce per perdervisi nella misura in cui non accetta (anche se lui non lo sa) che alla sua apertura possano rispondere uno o più punti di vista antagonistici alla sua idea di amore, riassunta magistralmente in queste poche righe di Giorgio Agamben, che peraltro nulla hanno a che vedere con il film di Eustache: "Vivere nell'intimità di un essere estraneo, e non per avvicinarlo, per renderlo noto, ma per mantenerlo estraneo, lontano, anzi: inapparente - così inapparente che il suo nome lo contenga tutto. E, pur nel disagio, giorno dopo giorno non essere altro che il luogo sempre aperto, la luce intramontabile in cui quell'uno, quella cosa resta per sempre esposta e murata". Il motivo dell'interdetto ha a che vedere, evidentemente, con la differenza sessuale degli interlocutori; c'è in Alexandre la volontà di mantenere sotto il proprio esclusivo dominio una situazione, che invece gli sfuggirà clamorosamente di mano a partire dal momento in cui le due donne potranno dare voce comune alla loro versione; c'è in questo capovolgimento di prospettiva la nemesi per chi, non avendo saputo superare il proprio lutto, ha finito per ordire il proprio discorso (l'unico discorso di cui è portatore) di una nostalgia regressiva, per qualcosa di precedente il lutto medesimo (per l'indistinto dell'infanzia o ancor prima), costitutivamente incapace di entrare in relazione alla pari con la franchezza di chi non teme di usare parole che guardano avanti.
Non so se, come dice Olivier Assayas, La maman et la putain sia il film più bello della Nouvelle Vague realizzato da un autore che non ha fatto parte di quel movimento; si tratta di un paradosso che svela componenti affettive legate a motivi anche generazionali, ma è evidente che in questo film, per una di quelle "combinazioni" (non esistono combinazioni, a questo livello) che grazie a Dio si verificano solo raramente, si sono intrecciate una febbrile sensibilità per il momento storico e per l'ambiente in cui prendeva corpo con una acuta capacità intellettuale di anticipazione su motivi e conflitti che allora erano soltanto in embrione. Parlare di messa in scena di tutto ciò ha senso soltanto se non si dà a questa espressione il significato di una sovrapposizione dell'intenzione significante su una materia (documento e racconto) già di per sé carica di significazione. La scelta della luce e della definizione d'immagine, quella sì è importante da notare: "Sì, il film nuota in una luce un po' sporca, (...) un grigiore lavorato, più difficile a ottenersi dell'asettico bianco e nero abituale": è la luce di un risveglio incerto, di un mattino ancora prematuro dopo una notte in cui troppe cose sono successe perché possano avere un futuro; è la luce necessaria a dare immagine all'esperienza del dolore, da cui nessun personaggio del film rimane escluso e che, ancora oggi, sembra impregnare la memoria di quegli anni - benché accompagnata da un'eccitazione che restituisce l'idea di sfida che vi era connaturata. Come è noto, le riprese si svolgevano in clima di improvvisazione per quanto riguarda la scelta delle inquadrature, angolazione, etc., sulla base di un rispetto pressoché integrale della sceneggiatura, che però rendeva conto soltanto dello sviluppo narrativo e dei dialoghi: anche da questo impasto tra uno sguardo non pre-ordinato e il lavoro, precedentemente messo a punto, di precisa definizione degli avvenimenti e dei discorsi deriva il risultato straordinario che fa di La maman et la putain un film insostituibile, consegnato a un periodo e a un luogo circoscritti da dove è capace di restituire profondità e trasparenza alla complessità di una mutazione cruciale, che vi andava prendendo corpo e che ancora ci riguarda.
Adriano Piccardi, Cineforum n. 376, 7-8/1998

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