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Vergine giurata


Regia:Bispuri Laura

Cast e credits:
Soggetto: Francesca Manieri, Laura Bispuri, dal romanzo di Elvira Dones; sceneggiatura: Francesca Manieri, Laura Bispuri; fotografia: Vladan Radovic; musiche: Nando Di Cosimo; montaggio: Carlotta Cristiani, Jacopo Quadri; scenografia: Ilaria Sadun; costumi: Grazia Colombini; suono: Marc von Stürler; interpreti: Alba Rohrwacher (Hana/Mark), Flonja Kodheli (Lila), Lars Eidinger (Bernhard), Luan Jaha (Stjefen), Bruno Shllaku (Gjergj), Ilire Vinca Çelaj (Katrina), Drenica Selimaj (Hana piccola), Dajana Selimaj (Lila piccola), Emily Ferratello (Jonida); produzione: Marta Donzelli, Gregorio Paonessa, Maurizio Totti, Alessandro Usai, Dan Wechsler, Michael Weber, Viola Fügen, Sabina Kodra, Robert Budina per Vivo Film-Colorado Film, con Rai Cinema-Bord Cadre Films-Match Factory Productions-Era Film, in collaborazione con Istituto Luce Cinecittà; distribuzione: Istituto Luce Cinecittà; origine: Italia-Svizzera-Francia-Albania, 2015; durata: 90’.

Trama:Hana Doda, una ragazza che cresce sulle montagne albanesi, in una comunità dove vige una cultura arcaica e maschilista che non riconosce alle donne alcuna libertà. Per sfuggire al suo destino Hana si appella proprio alla legge della sua terra, il Kanun: giura di rimanere vergine, prende il nome di Mark e si fa uomo, ottenendo gli stessi diritti degli uomini, ma rinunciando alla sua femminilità e ad ogni forma di amore. Un rifiuto che diventerà la sua prigione.

Critica (1):Una ragazza cresciuta come un ragazzo, tanto da portare da anni nome e abiti maschili, si riappropria attraverso un lungo viaggio della propria identità profonda. Scoprendo lungo il percorso di avere molte più cose in comune di quante non avrebbe mai creduto con il suo sesso e la sua gente, e che il mondo arcaico che si è lasciata dietro sarà sempre parte di lei.
Non sono molti i registi che scelgono un soggetto così difficile per esordire. Onore a Laura Bispuri dunque, che con Vergine giurata, in concorso a Berlino, firma il suo primo vero film dopo due corti molto premiati. Anche perché Hana/Mark, la protagonista del film (Alba Rohrwacher, sempre impeccabile), ispirato al romanzo dell'albanese Elvira Dones (Feltrinelli), è una giovane in fuga da un mondo remoto e da una "legge" primitiva, il kanun, di cui da questo lato dell'Adriatico sappiamo ben poco, e che non era facile lasciar intuire nel breve spazio di un film.
Magari proprio su questo punto Vergine giurata avrebbe potuto concedersi qualche apertura in più. Mentre a forza di ellissi e di allusioni non sempre si colgono a fondo le coordinate di un codice consuetudinario così lontano da noi, ma ancora capace di regolare tutti gli aspetti fondamentali della vita personale e sociale, famiglia, matrimonio, lavoro, delitti, nelle zone più arretrate del Paese delle Aquile. Dunque destinato a pesare sulla protagonista anche quando se ne va per raggiungere la sorella che è emigrata e ha messo su famiglia in Italia.
La Bispuri del resto non fa un documentario sul kanun. Mette a confronto i percorsi, e i corpi, di due donne. Cioè Hana/Mark e sua nipote Jonida (Emily Ferratello), che in Italia probabilmente è nata e con la terra dei genitori ha un rapporto quasi mitico, tanto da essere l'unica a dimostrarsi ostile, almeno sulle prime, a quello strano "cugino" che le piomba in casa. Anche perché ha la sua vita, i suoi riti da adolescente. E una passione totalizzante per il nuoto sincronizzato, sport che non a caso unisce durezza e bellezza.
Al confronto fra queste due giovani così diverse che si scopriranno a sorpresa così vicine, è dedicata la seconda parte del film, quella "femminile" in qualche modo, anche perché questo confronto passa attraverso il corpo, la pelle, le diverse "maschere" imposte da diverse convenzioni sociali (tatuaggi, piercing, vestiti, posture...). Mentre la prima parte, in Albania, è dominata dal rapporto fra Hana/ Mark e la sorella, ragazzine, ma soprattutto allo scontro fra la futura vergine giurata e suo padre
(anche se le due epoche sono intrecciate in un gioco di flashback), ovvero tra Hana e la Legge, a cui in un modo o nell'altro dovrà sottomettersi, perché la condizione di vergine giurata impone una serie di diritti e doveri, dunque un'identità complicata quanto appassionante, anche se il film non lo spiega compiutamente. Non sempre insomma queste due anime si fondono con la forza e la profondità dovute, e questo rischia di indebolire il film (la protagonista). Un po' come se fossimo chiamati a esplorare un satellite non conoscendo abbastanza il pianeta intorno a cui ruota. Ma il film della Bispuri è forte, originale, rigoroso. La Berlinale era la cornice ideale per il suo debutto.
Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 13/2/2015

Critica (2):Da un lato c'è una storia forte, difficile, complessa, poco nota come quella del kanun albanese, e una scrittrice che ne parla in un libro; dall'altro lato c'è una regista italiana, giovane, al suo primo lungometraggio, che vuole raccontare questa storia albanese e sa come farlo. Vergine giurata è il risultato di questo incontro a cui si sommano più sensibilità femminili: oltre a quelle della regista Laura Bispuri e della scrittrice Elvira Dones, quelle della co-sceneggiatrice Francesca Manieri e delle attrici protagoniste Alba Rohrwacher e Flonja Kodheli.
Nel film non si perde mai di vista lo sguardo di Hana, la protagonista, costantemente seguita, braccata quasi, dalla macchina da presa, secondo quello che già si può definire lo stile registico di Bispuri. Il suo modo di riprendere in "soggettiva con", andando dietro ai personaggi, riprendendone spesso la schiena, il profilo, la nuca, o il volto in primissimo piano si era già dichiarato nei lavori precedenti: Passing Time (2010) e Biondina (2011). In questi due cortometraggi la regista, che partecipa anche alla fase di scrittura delle sceneggiature, dimostra già tutta la sua abilità sia nel costruire la messa in scena sia nel dirigere gli attori, e svela inoltre un certo particolare modo di definire la realtà filmica. Caratteristiche che confluiscono tutte in Vergine giurata e che – nella forma del lungometraggio – trovano un ulteriore sviluppo e manifestano una raggiunta maturità.
Sono passati infatti alcuni anni da quei primi corti, Bispuri ha impegnato molto tempo e risorse nel progetto, ha studiato, per sua stessa dichiarazione, leggendo e andando ripetutamente in Albania e parlando con le persone del posto. Il risultato è un'opera che, seppur prima, ha già in sé la consapevolezza e la padronanza dei lavori maturi. Anche la mescolanza dei livelli temporali è già stata utilizzata da Bispuri nei cortometraggi. E allo stesso modo, funziona molto bene, sia per dare la misura dello scarto fra le energie di Hana giovane ragazza e dell'Hana/ Mark costretta in una forma che non le appartiene; sia per soddisfare il bisogno narrativo del pubblico che viene così a scoprire poco alla volta le vicende dei personaggi e che, nel parallelo tra presente e passato, può così capire con più precisione il gap fra essere e apparire cui sono sottoposte queste donne che scelgono il destino delle vergini giurate.
Il film è ricco di metafore rese attraverso situazioni simboliche a partire dai rapporti interpersonali. Nessuna relazione è mai banale, ma nel film di Laura Bispuri le relazioni sono addirittura il fondamento tramite cui si dipanano le vite delle persone. Il rapporto tra Hana e il padre adottivo in primo luogo. Si tratta di un legame profondo, basato sul non detto, ancestrale come quello padre/figlio, in cui entrambi si riconoscono e si appagano senza essere capaci di dichiararselo. Lui, il padre, segue le leggi primitive del suo popolo e del suo essere parte maschile in una comunità di uomini dominanti; mentre lei, Hana, segue l'istinto della sua natura che non ha conosciuto gli stereotipi che gravano sul suo essere femmina. Vuole correre, esplorare il mondo, provare tutto e, perché no, imitare suo padre. Ma non le è concesso.
L'altra figura femminile interessante nel film è Lila. Anche lei vuole fare qualcosa che non le è concesso ma, a differenza di Hana, Lila sa che per farlo dovrà andarsene. Hana invece non vuole andar via, ripone un'arcaica fiducia nella sua gente e finisce per farsi intrappolare senza opporre resistenza. La relazione tra le ragazze, molto diverse tra loro, è di assoluta complicità, tanto da poterla definire una relazione femminile esemplare. Quando si ritrovano in Italia, dopo anni di separazione, Hana e Lila fanno presto a recuperare quella capacità di conoscersi. Hana poi, ancora nelle vesti del Mark che lei stessa ha scelto come Altro da sè, mostra atteggiamenti femminili protettivi nei confronti del marito di Lila. La scrittura del personaggio e l'interpretazione che di essa fa la Rohrwacher sono tali da restituirci un'intera gamma di emozioni.
Ma è soprattutto nel dialogo tra donne che le attrici e le sceneggiatrici riescono meglio: il discorso di Lila sul piacere potrebbe essere usato per insegnare l'affettività e la coscienza del proprio corpo nelle scuole medie (non solo alle femmine), mentre la sequenza in cui le due donne leggono la lettera della madre rompe con tutti i discorsi buonisti e didascalici sulla maternità: senza lacrime ma con profonda emozione queste due donne, ormai adulte, leggono le parole semplici e ingenue della madre morta da tempo, poi, senza nessuna superficialità, riprendono la loro vita e la loro capacità di essere libere, nonostante tutto.
Anche la piscina diventa in questo film una metafora. "Sei brava con l'apnea" dice Hana alla nipote che teme di non avere svolto abbastanza bene la prova di nuoto sincronizzato, traslando in questo modo l'apnea nel quale lei stessa ha vissuto per molti anni camuffata da uomo. La piscina diviene il luogo simbolico dove Mark lentamente ritorna a essere Hana, luogo chiuso, caldo e protetto dove il corpo si libera dalle costrizioni. Il passaggio alla nuova vita è scandito da piccole azioni che il film mostra, o semplicemente abbozza, lasciando poi alla nostra sensibilità e alla nostra fantasia immaginare come sarà la vita della donna.
Azioni quotidiane mai banali, come guardare dal balcone, bere e mangiare, camminare, innamorarsi, essere curiose, vestirsi. Mettersi il reggiseno è in questo senso un passaggio doppiamente simbolico: Hana non si comprimerà più il seno nella fascia per celare la sua femminilità e indossa finalmente uno degli indumenti femminili per eccellenza, ma il reggiseno è a sua volta un legaccio, una sorta di fascia che contiene il corpo femminile definendolo o ridefinendolo a seconda dei casi (e dei modelli!). Infine la lista delle cose da fare scritta sulla lavagnetta come una traccia per la nuova esistenza, e tracce emblematiche sono anche i movimenti che Hana compie nell'appartamento nuovo, così come il suo sorriso finale rappresenta una serenità ritrovata e lascia intendere un futuro positivo.
Micaela Veronesi, Segno Cinema n. 193, 5-6/2015

Critica (3):Nell'Albania settentrionale e nel Kosovo ancor oggi alle donne è negata ogni forma di libertà e di indipendenza: grazie ad un antico codice, possono però sottrarsi all'osservanza di questa norma arcaica, sottoponendosi, a un rituale e giurando di astenersi per tutta la vita da qualsiasi rapporto sessuale, acquisendo di conseguenza i diritti riconosciuti solo agli uomini, diventando giuridicamente loro pari e conducendo un'esistenza al maschile senza disonorare la famiglia.
Un rituale a cui ha fatto ricorso l'adolescente Hana Doda, che, orfana, era stata accolta e adottata nella famiglia dello zio, crescendo con la cugina. Risoluta a non lasciare in mano ad altri il suo destino, sceglie di essere una «vergine giurata», diventando Mark.
Col passare degli anni avverte il peso della sua scelta e decide di raggiungere in Italia la cugina, che aveva lasciato il villaggio per non sposare l'uomo scelto dalla famiglia e che la accoglie con freddezza: sposata da anni, lavora come badante e ha una figlia irrequieta, grazie alla quale Mark acquista lentamente consapevolezza di sé e del suo corpo mortificato.
Il dramma di Hana/Markè raccontato in Vergine giurata, unico film italiano in concorso al Festival di Berlino, primo lungometraggio di Laura Bispuri, che ne ha elaborato il soggetto e la sceneggiatura, ispirandosi alla vicenda dell'omonimo romanzo (Feltrinelli editore) della albanese Elvira Dones.
Un soggetto, una storia di tradizioni, di rinunce, di angosce, di maturazione anche interiore, una storia di legami familiari e di ruoli sociali, di contrasti fra arcaico e moderno, fra montagna e città,
fra corpo e orientamento sessuale. Una serie di vicissitudini fra presente e passato, nel dispiegare le quali la regista ripudia sia ogni istanza politica, sia gli strepiti del facile femminismo: tiene a freno il dramma, non cede agli eccessi e, poiché le stanno a cuore il fattore umano e la sua complessità, sceglie una messa in scena limpida e essenziale, centrata sulla «lettura» della protagonista, una persona dura, forte e anche fragile, impersonata da una Alba Rohrwacher eccezionale e dall'indubbio magnetismo androgino.
La sua cinepresa le rimane incollata e si fa suo punto di vista, ne segue inoltre i movimenti, le peregrinazioni, ne coglie i gesti e i significanti atteggiamenti esteriori, ne sottolinea i loquaci silenzi. Registra i timori, le incertezze, le speranze di una donna, che faticosamente si riappropria della sua identità rinnegata e nascosta e che, timorosa, scopre la sessualità a lungo repressa.
Achille Frezzato, l’Eco di Bergamo, 25/3/2015

Critica (4):
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