Medea
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Regia: | Pasolini Pier Paolo |
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Cast e credits: |
Soggetto: Pier Paolo Pasolini, dalla tragedia di Euripide; sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini; fotografia (Eastmancolor): Ennio Guarnieri; montaggio: Nino Baragli; scenografia: Dante Ferretti e Nicola Tamburgo; costumi: Piero Tosi; musiche: brani folkloristici coordinati da Pier Paolo Pasolini ed Elsa Morante; interpreti: Maria Callas (Medea), Giuseppe Gentile (Giasone), Massimo Girotti (Creonte), Laurent Terzieff (il centauro Chirone), Margaret Clémenti (Glauce), Anna Maria Chio (nutrice), Piera Degli Esposti, Graziella Chiarcossi, Sergio Tramonti, Paul Jabara, Luigi Barbini, Gerard Weiss, Mirella Panfili; produzione: Franco Rossellini per la San Marco Film, Roma/ Les Films Number One, Paris/Janus Film und Fernsehen, Frankfurt; distribuzione: Euro Int.; origine: Italia-Francia-Germania Federale, 1969; durata: 110’. |
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Trama: | Dalla tragedia (431 a.C.) di Euripide: il giovane Giasone, con i suoi Argonauti muove alla volta del Colchide per recuperare il vello d'oro, che sarebbe in grado di rendere più forte e fertile chi la possiede; la maga Medea, affascinata da Giasone lo aiuta a rubare l'amuleto, e fugge con lui. Giasone sposa Medea ed hanno due figli, tuttavia poco dopo ripudia sua moglie per sposare la giovane Glauce, figlia del re di Corinto. La vendetta di Medea, folle di gelosia, sarà atroce. |
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Critica (1): | Può darsi, si disse parlando del ribobolo porcilesco, che con Medea Pasolini riconquisti il proprio genio doloroso. Era un augurio, in cui si trovavano concordi gli estimatori d’uno dei più inquieti e contraddittori, dunque scomodi, artisti degli anni Sessanta, tanto più schietto quanto più destava rammarico il suo progressivo, polemico, murarsi in un mondo del quale s’avvertiva il dissacrante tumulto interiore, ma che riusciva a trasmettere soltanto uno scandaloso brusio. Oggi diremo che il realizzarsi di quella speranza è a sua volta rinviato al futuro film su San Paolo, troppo remoto dal cuore e dalla mente del pubblico restando il senso ultimo d’una Medea, desunta da Euripide, in cui un Pasolini sempre avaro di comunicatività diretta vuole confermare la perennità del mito adattandolo a chiave interpretativa delle catastrofi del nostro tempo. Nell’esplosione di violenza che dopo il furto del vello d’oro per amore di Giasone e l’uccisione del fratello trascina Medea a provocare la morte di Glauce (la promessa sposa di Giasone) e del re suo padre, a pugnalare i propri figlioletti e a incendiare la città, dovremmo infatti leggere qualcosa di più d’ una disperazione dettata dalla gelosia e dall’abbandono: l’esito feroce di un disadattamento sociale e spirituale, provocato dal passaggio di Medea dalla civiltà religiosa in cui è cresciuta a quella laica e razionale di Corinto in cui è venuta a trovarsi, e che respinge i suoi sentimenti, forieri di disordine (controluce, il dramma del terzo mondo). Poiché queste intenzioni – espresse da un centauro sentenzioso in funzione di coro – restano le radici sepolte di un fiore difficile ad aprirsi (sul piano narrativo e stilistico il film è diviso quasi di netto fra una sorta d’immaginario reportage etnografico e il tardivo tentativo di costruire un carattere tragico), Medea si raccomanda allo spettatore, oltreché per l’assenza di compiacimenti erotici, per le sue straordinarie qualità visive e per il suo corredo musicale. Anche chi non riesca a penetrare la metafora e a decifrare i nessi d’un racconto disperso in frammenti recupera il clima mitologico, l’afflato fiabesco e sacrale di Pasolini attraverso l’aura che vi circola e le figure sognate in un dormiveglia metà dotto metà popolaresco sullo sfondo di fondali incantati di irripetibile potenza lirica, siano i villaggi della Cappadocia, le mura di Aleppo, il prato di Pisa o i trepidi chiaroscuri della laguna. Bruciata la chiarezza dalla folgore del cinema di poesia, Pasolini conferma le sue qualità di personalissimo autore con una messinscena di squisita e ariosa ispirazione, che riassume nella suggestività dei paesaggi, nell’invenzione dei costumi, nell’uso di musiche orientali (tibetane e giapponesi), nei movimenti di massa e nell’evidenza plastica dei gesti la sua appassionata ricerca delle belle forme. Ne deriva un film che forse fa troppo affidamento sulle memorie culturali e sull’attenzione dello spettatore, ma in ogni caso di grande malìa figurativa, toccato da brividi malinconici e funesti, un «mistero» cui conviene abbandonarsi con innocenza, senza speranza di coglierne il frutto ideologico, per far agire nell’inconscio i trapassi dai toni truci e sanguinari dell’inizio, quando evoca nei modi d’un documentario i costumi del mondo barbaro, ai toni limpidi della scena in cui Medea uccide i figli, e che ha il suo nucleo più arcano nella doppia versione della morte di Glauce. Occorre aggiungere che questa Medea trova in Maria Callas un’interprete di rara intensità e duttilità espressiva. Mettendo a frutto le sue celebrate virtù sceniche e un temperamento di arcaiche risonanze drammatiche, la Callas dà spasimo e sangue a un personaggio altrimenti irraggiungibile, e dunque porta anche nel cinema il segno di quella personalità artistica che giustifica e rinnova la lode dei suoi ammiratori.
Giovanni Grazzini, Gli anni Sessanta in cento film, 1969 |
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Critica (2): | |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
| Pier Paolo Pasolini |
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