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Volpe (La) - Gone to Earth


Regia:Powell Michael, Pressburger Emeric

Cast e credits:
Regia: Michael Powell, Emeric Pressburger; sceneggiatura: Michael Powell, Emeric Pressburger (dal romanzo di Mary Webb); fotografia (co­lore): Christopher Challis; production designer: Hein Heckroth; scenografia: Arthur Lawson; musica: Brian Easdale; suono: Charles Poulton; interpreti: Jennifer Jones (Hazel Woodus), David Farrar (Jack Reddin), Cyril Cusak (Edward Marston), Sybil Thorndyke (la signora Marston) Edward Chapman (il signor james), Esmond Knight (Abel Woodus) Hugh Griffith (Andrew Vessons), George Cole (Albert), Beatrice Varle); (zia Prowde), Frances Clare (Amelia Comber), Raymond Rollett (il proprietario), Gerald Lawson (il cantoniere), e solo per la versione ame­ricana Joseph Cotten (il narratore); produttore associato: George R. Rusby; produzione presentata da: Alexander Korda e Davíd O. Selznick; produzione: David O. Selznick per London Film Productions / Vanguard Pro­ductions; origine: Gran Bretagna, 1950; durata: 110’ (versione americana: 82’; regia sequenze aggiunte: Rouben Mamoulian).

Trama:Ambientato alla fine del secolo scorso, il film racconta la storia di Hazel Woodus, selvatica ragazza di campagna che vive con il padre, fabbricante di bare. Hazel sembra più affezionata al suo cuc­ciolo di volpe che al genere umano. Il signorotto locale, Jack Reddin, affascinato dalla ragazza riottosa, tenta di sedurla. Hazel gli oppone resistenza, ma resterà coinvolta dalla carica sensuale dell’uomo pur decidendo di sposare il giovane pastore del luogo, che la ama per il suo spirito e ignora il suo corpo. Un giorno Hazel va nel bosco a un incontro con Reddin...

Critica (1):[…] Dal canto suo, La volpe esalta al massimo la suggestione pan­teista cara a Powell e il fatalismo che regola tutte le storie di Pressburger. Girato on location nello Shropshire (una contea al confine tra il Galles e l’Inghilterra), il film utilizza tutti i trucchi possibili per fornire la percezione immediata del conflitto insolubile che guida la storia della protagonista. Se lo scontro tra carnalità e spiritualità ricalca le ossessioni soffocanti di Narciso nero, la corsa finale dì Hazel verso il baratro e la morte fa il paio con il suicidio della ballerina di Scarpette rosse. Anche Hazel (che vive in istintiva sintonia con le forze naturali) non sa scegliere tra l’anima saggia e delicata (ma anche congelata) del pastore che ha sposato e la carne aggressiva e cinica del signorotto di cui diviene l’amante.
Le variazioni cromatiche dominano la vicenda: dal nero pacato del pastore, al verde che circonda Hazel (per sottolineare la sua aderenza alla natura), al rosso che tinge sempre di più gli abiti, i paesaggi, le fisionomie e gli interni via via che la passionalità erotica ha il sopravvento.
La fatalità devastante del melodramma si incontra con il flusso inarrestabile degli elementi naturali. L’autodistruzione diventa ritorno alla terra (“gone to earth!” è il grido che segnala, nella caccia alla volpe, che l’animale è rientrato nella tana). Ed è probabilmente l’unica pacificazione possibile.
Il ripristino della versione originale da parte del British Film Institute nel 1986 permette finalmente di valutare
La volpe in tutta la sua ricchezza stilistica e drammatica e in tutta la sua sottigliezza antimanichea. Non ci sono nel film personaggi definitivamente negativi, ma solo agenti inconsapevoli di un conflitto assoluto e insolubile. Non ci sono più neppure i simboli contrastanti di Natura e Cultura che muovevano Narciso nero. C’è solo la cultura che, nelle sue espressioni più divergenti, sopraffà comunque l’elementarità naturale. Pur nell’apparente convenzio­nalità, simbolica. (per esempio, Reddin calpesta inavvertitamente un mazzo di fiori rossi al momento del primo amplesso con Hazel), il melodramma slitta nella complessità sfumata del dramma. Non c’è da meravigliarsi che David Selznick, che voleva solo un “veicolo” colorato per la moglie Jennifer Jones (peraltro perfetta nella parte di Hazel), abbia massacrato il film prima della distribuzione facendolo rimontare e commissionando a Mamoulian alcune sequenze aggiuntive girate negli Stati Uniti. Gone to Earth non era (come apparve nella versione Selznick di 82 minuti) un collage di sensazioni forti e di colore locale, ma uno scavo lucido dentro gli stereotipi della drammaturgia romantica. Andava dritto al cuore delle suggestioni, per ribadire l’assunto più oscuro della composizione dram­matica: come dice Hazel, «Sembra che il mondo sia una grande tagliola, e che noi ci siamo in mezzo».
Emanuela Martini, Powell&Pressburger, il castoro cinema, 1989
Gavin Lambert, scrivendo nel 1950, descriveva
La volpe come il peggior lavoro che Powell e Pressburger avessero mai prodotto. Lo stesso Powell l’aveva deprecato – «Non abbiamo mai rifinito la sceneggiatura!» – ammettendo che la scrittura di Mary Webb era difficile da tradurre in cinema. Anche David O. Selznick (co-produttore insieme ad Alexander Korda) non ne era molto entusiasta. Ammiratore del lavoro di Powell e Pressburger, ma desiderando soprattutto un veicolo per la carriera da star della futura moglie, Jennifer Jones, bombardò i due registi durante la produzione con istruzioni via cablogramma e richieste di cambiamenti, anche minacciando di perseguirli legalmente quando Powell, che aveva il controllo della versione inglese, rifiutò di conformarsi alle sue richieste. Insoddisfatto del risultato finale, in parte per il motivo che ci si era troppo distaccati dal romanzo, Selznick produsse una versione americana nella quale le scene più importanti furono girate di nuovo da Rouben Mamoulian e furono fatti tagli fondamentali. The Wild Heart, di 82 minuti, uscito in Usa nel 1952 (e successivamente trasmesso in TV e ivi reperibile in video) è stato visto molto di più di Gone to Earth.
Guardando la nuova versione restaurata di Powell e Pressburger in tutto il suo splendore Technicolor, sembra sorprendente, ora, che la versione americana si sia anteposta all’originale. Per quanto girata con competenza (le nuove riprese furono accuratamente armonizzate con quelle originali), risulta peggiore per molti aspetti. Il nuovo montaggio distrusse la costruzione lirica di
La volpe, il suo andamento quasi musicale, mentre l’inserimento di scene che intendevano rendere il film più fedele al romanzo di Mary Webb (ad esempio introducendo il fatto che, alla fine della storia, Hazel aspetta un figlio dal signore del villaggio Redding), non serve a chiarire l’argomento reale del romanzo. L’aggiunta di un prologo già gravato dal destino (voce fuori campo di Joseph Cotten) che “spiega” ciò che nella versione di Powell e Pressburger era rappresentato in modo allusivo, insieme a “contrassegni” inseriti presumibilmente a beneficio del pubblico americano e la soppressione di alcune inquadrature che avevano un significato cinematografico o simbolico piuttosto che narrativo, si combinano per rendere “letterario” il film, per correggere la sua selvaggia espressione in immagini a favore della parola. E la performance assolutamente convincente nel ruolo della complessa e combattuta eroina di La volpe viene trasformata, nelle nuove sequenze, in una ripresa virtuale della sensualità prorompente di Pearl in Duello al sole (Duel in the Sun).
A prescindere dalle considerazioni di mercato, Selznick ovviamente aveva idee molto diverse riguardo agli adattamenti delle opere letterarie rispetto a Powell e Pressburger, la versione dei quali prestava meno attenzione alla storia presa alla lettera che non allo spirito poetico del romanzo. Benché fosse stato scritto nel 1917, alla base della storia di Mary Webb c’è il melodramma vittoriano: la trama è un puro cliché, che riflette una preoccupazione semplicistica sulla lotta tra il bene e il male, e che finisce con la vittoria morale del bene. Il risultato più significativo ottenuto dalla Webb è quello di trasformare questo dualismo di fondo in una narrazione complessa, che si svolge su molti livelli e nella quale le polarità convenzionali sono rovesciate, le punte di moralismo smussate, e l’intero ordine sociale e la visione corrente del mondo messi in questione. Un profondo pessimismo pervade il libro, scritto verso la fine della prima guerra mondiale e intriso del violento, doloroso immaginario di quando la vita e la speranza sono calpestate in una corsa spietata verso la morte. Questo slancio negativo non è condensato semplicemente nei personaggi più scontatamente malvagi. Il nobilotto Jack Redding, benché arrogante e crudele, la personificazione del desiderio di morte maschile, non è completamente responsabile della caduta di Hazel. Zia Prowde, che maschera la sua gelosia dietro la rettitudine morale quando la scaccia in strada dove incontrerà per la prima volta Reddin, o il ministro Edward Marston, il cui apparente altruismo è basato sulla totale incomprensione della personalità di Hazel così da spingerla tra le braccia di Reddin, sono da biasimare allo stesso modo. La stessa Hazel non è una vittima innocente: divisa tra anima e corpo, tra desiderio sessuale e castità, tra la vita e la morte, nondimeno attua scelte autonome che contribuiscono a decidere il suo destino. La sua tragedia è che si smarrisce, dimenticando l’ammonimento della madre morente: evitare il matrimonio e «starsene per proprio conto». Quando entra nel mondo della sessualità adulta, il mondo del desiderio maschile, perde la sua identità: «Entrambi gli uomini la vedevano come volevano che fosse, non com’era in realtà». La complessità con la quale Mary Webb intreccia le ragioni e i destini dei suoi personaggi sembra quasi impossibile da riprodurre in termini cinematografici. Ma, malgrado le riserve di Powell riguardo alla sceneggiatura, la versione sua e di Pressburger vi si avvicina molto. Il libro riecheggia di immagini degli elementi attraverso le quali gli stati mentali e gli eventi che incombono vengono riflessi in fenomeni naturali – non tanto panteismo quanto materialismo darwiniano, che vede gli impulsi fisici piuttosto che gli ideali spirituali come fattori determinanti della vita umana. Riprese con angolazioni dal basso di alberi neri che ondeggiano minacciosamente sono accompagnate da una colonna sonora di musica da caccia, dal risuonare di zoccoli e voci che cantano i cui riverberi hanno un impatto quasi fisico, entrambi che riportano alla mente di Hazel il “Black Meet” e creano un senso più generale della presenza di forze oscure, ostili che minacciano il genere umano. Quando la stessa colonna sonora viene inserita sullo spietato inseguimento a cavallo di Hazel da parte di Reddin, non si tratta di un facile simbolismo. Hazel è attratta da ciò che teme di più, come dimostra la sua reazione: un misto di terrore e di eccitamento; ella è complice del proprio destino. L’associazione di Reddin con il Cacciatore Nero, con le forze della morte – che si manifestano nel suo bisogno di dominare, possedere e controllare – è un riflesso tanto della sua classe sociale quanto della sua mascolinità. Il film, come il romanzo, vede il male non come un’entità astratta ma come materialmente presente nelle istituzioni sociali, nelle menti e nei cuori degli uomini.
Il Technicolor sembra avere fornito a Powell e Pressburger i mezzi per condensare e far vivere il vibrante simbolismo cromatico dei lunghi passaggi descrittivi del libro. Quando Hazel compra il suo nuovo vestito verde, è un segno di speranza per il rianimarsi della vita (lo sbocciare della primavera con il quale si apre il romanzo). Nel momento in cui entra nel mondo di Reddin, lui le dà un vestito rosso, e da questo momento in poi il rosso comincia a dominare la scena, dai fiori che Reddin calpesta quando seduce Hazel al rosso di cui il cielo è soffuso quando si trova con lui («La luce rossa che veniva da ovest macchiava il suo vecchio vestito lacero, il suo volto sottile, i suoi occhi, fino a sembrare che fosse intinta nel sangue»). E queste annotazioni di violenza e morte che prefigurano la fine di Hazel sono di nuovo legate alle istituzioni, alle giacche rosse dei cacciatori di classe elevata che alla fine la travolgono. Ma forse l’aspetto più importante del romanzo della Webb che viene colto fedelmente da Powell e Pressburger è la sua profonda ambivalenza verso il mondo maschile nel quale Hazel si trova così a disagio, e nel quale lei è definitivamente senza potere. Come in molti romanzi vittoriani, l’amore e il matrimonio rappresentano per l’eroina sia la possibilità di libertà e di indipendenza che una trappola, giacché è costretta a conformarsi a regole che non le appartengono, sempre che sopravviva («Sembra che il mondo sia una grande trappola a molla, nella quale ci troviamo noi»). Questo tema è elaborato nel film attraverso specifiche strategie cinematografiche come l’inquadratura e la composizione (gli interni ristretti della casa di Edward rafforzati dalle inquadrature degli uccelli e degli animali di Hazel messi ordinatamente in gabbia dopo il matrimonio, ad esempio) e attraverso una rete di sguardi maschili.
L’animoso scambio di battute tra Hazel e Zia Prowde, che dice: «Il tuo aspetto è vergognoso. Attiri proprio gli sguardi degli uomini», è sviluppato in una scena dove Reddin convince Hazel a indossare il vestito rosso e poi si nasconde a guardare da una finestra senza che lei se ne accorga. Durante la sua caccia a Hazel, Reddin la guarda continuamente, le sue occhiate tenebrose una evocazione agghiacciante del suo desiderio di possederla. Lo sguardo di Edward, benché diverso, non è meno invasivo. Ma nessuno dei due uomini la “vede” veramente per quello che è, e nel momento cruciale, quando Hazel fugge dai cani per salvarsi la vita, nessuno di loro la vede finché è troppo tardi. Lei si tuffa a capofitto nel pozzo senza fondo della miniera, e in un istante (quasi letteralmente in un batter d’occhio mentre lo schermo sfuma rapidamente al nero) è scomparsa, con il suo grido lugubre e riecheggiante, “Dentro la tana!...” come unico epitaffio.
Pam Cook, Copyright © The British Film Institute, 1986,
Monthly Film Bulletin n. 634, 11/1986 (traduzione Angela Cervi)

Critica (2):

Critica (3):

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Michael Powell Emeric Pressburger
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