Che ho fatto io per meritare questo? - Qué he hecho yo para merecer esto?
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Regia: | Almodóvar Pedro |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Pedro Almodóvar; fotografia: Angel L. Fernandez; montaggio: José Solcedo; musica: Bernardo Bonezzi; scenografia: Pin Morales, Roman Arange; costumi: Cecilia Roth; interpreti: Carmen Maura (Gloria), Luis Hostalot (Polo), Ryo Hiruma (professor Kendo), Anggel De Andres-Lopez (Antonio), Gonzalo Suarez (Lucas), Veronica Forque (Cristal), Juan Martinez (Toni), Chus Lampreave (Abuela), Kiti Manver (Juani), Amparo Soler Leal (Patricia), Emilio Gutierrez Caba (Pedro); produzione: Tesauro S.A., Kaktus S.A.; distribuzione: Medusa; origine: Spagna 1984; durata: 102'. |
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Trama: | Gloria, che lavora come donna delle pulizie, conduce una vita piuttosto disperata: ha un marito manesco che vive nel ricordo dell'amante tedesca, un figlio quattordicenne spacciatore e uno dodicenne omosessuale. Durante una lite finirà per uccidere il marito con un osso di prosciutto... |
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Critica (1): | Fassbinder, Buñuel, Moretti, Godard, il rock, il mélo, il neorealismo, la telenovela, il fumetto, il punk, il demenziale, gli spot, la canzonetta, il fotoromanzo, il noir, il sociale, omicidi, rabbia, sesso, droga, ecc... Tutto questo non è che una parte di ciò che contiene un film di Pedro Almodóvar, antropofago "culturale" della società dei consumi, realizzatore folle e dissacrante di contenitori "capaci" e "resistenti" Vedere un suo film è come andare al supermercato: c'è di tutto, ognuno cerca e trova ciò che vuole, è il luogo dove il piacere del consumo si materializza ed esplicita. Di questo strambo regista spagnolo, di cui il pubblico italiano ha potuto apprezzare
La legge del desiderio, Donne sull'orlo di una crisi di nervi e Matador (vedi gli articoli di G. De Marinis rispettivamente su Cineforum n. 270, 280, 283), sull'onda dei successo ottenuto è finalmente uscito il precedente Che ho fato io per meritare questo? realizzato nel 1984 (presentato già al Bergamo Film Meeting edizione 1985).
In questa storia urbana di famiglia proletaria, di casalinga inquieta e impasticcata, Almodóvar ci traccia un quadro di un pianeta spagnolo in decomposizione e mutazione ormai irreversibile. Si è la Spagna, ok è Madrid, con il popolare quartiere "franchista" de la Conception, ma le case a cella el'alveare abitativo mostrato possono far inorridire e stupire solo chi non conosce i quartieri più marginali e periferici di Roma, Napoli e altre città italiane. Ma Almodóvar è pazzo, cioè vivo, curioso, esaltante. Fa un film "sociale" da neorealismo anni Ottanta, condito di cinismo e humour con personaggi spassosi e proletari, visioni scarne e geometriche, décor realistico, volgare e "reale", ambienti vivisezionati e protagonisti che esprimono in pieno disincanto e amoralismo della società odierna. Ma in questa storia di famiglia proletaria, che potrebbe rimandare a un Germi per le tensioni, ad un Emmer per gli interni familiari, Almodóvar inserisce la sua cultura trasversale, il suo essere non - autore ma macchina cinematografica di tipo nuovo. Ed ecco allora il mix, il mescolamento di cui parlavamo all'inizio. I legami culturali di Almodóvar non sono certo con la tradizione culturale iberica: Pedro è un "vecchio" punk, cresciuto nei fermenti culturali della Madrid fine anni Settanta, che ha fatto (e fa) di tutto, dallo scrivere romanzi rosa al fare un gruppo rock, lavorare alla Sip spagnola, cantare canzoni (come nella parodia degli spot presente nel film), a fumetti, roba porno, ecc..
La sua vera è propria passione per le "pratiche basse" dei mercato culturale, ma sa mescolarle con citazioni più o meno colte, con un occhio unico e invidiabile, con una carica sovversiva da far impallidire qualunque Nouvelle Vague.
Apre con una scena sotto la doccia che sfotte De Palma e Hitchcock, cita Fritz Lang nella parodia TV del caffè in faccia, imita Godard con quella panoramica iniziale con la troupe al lavoro che poi "diviene film" (non "maschera" la produzione di fiction, come un sessantottino convinto). Insomma Almodóvar ricicla tutto il cinema europeo (neorealismo, commedia, nouvelle vague), lo sfotte, mette su una commedia tragica, amara e perversa, in cui traspare a volte il riso a volte l'angoscia. I suo personaggi, tanti e tutti ben costruiti, sono il fulcro del film (che pure è costruito in ambienti freddi e grigi come nemmeno certi biancoenero anni Cinquanta nostrani). Gloria, la casalinga inquieta e impasticcata, che sperimenta una pratica quotidiana di sopravvivenza drogandosi con un po' di tutto (e meritandosi la "vittoria" finale su tutti, figli, marito, suocera e polizia, ma a cosa servirà?); il marito autista, maschilista in casa e romantico e tenero con la sua ex amante tedesca; i due figli, spacciatore il più grande, omosessuale il piccolo, già pronti e preparati alle difficoltà della vita; la suocera, che vive con loro ma che sogna la sua amata campagna, persa in perversioni e piaceri quotidiani che vanno dai bastoni all'acqua frizzante, dal videogame del bar sotto casa sino ad un piccolo ramarro.
Eppure in questo contesto monofamiliare Almodóvar spazia, come stesse disegnando un affresco sulla Spagna di questo decennio, sghignazzandoci sopra alla faccia di chi lo prende sul serio - e di chi non ce lo prende....
La vicina prostituta che sogna l'America, l'altra, cattiva, che maltratta la figlia che possiede poteri paranormali (già, cita anche Stephen King: bisogna capire, Almodóvar è un miscelatore, prendete tutta la cultura degli anni Settanta e Ottanta, mettetela dentro un frullatore e mescolatela con pezzi di cinema classico e di sottocultura underground e forse vi avvicinerete al prodotto che tira fuori questo spagnolo). Poi ci sono gli intrighi, l'amante tedesca, lo scrittore fallito, i falsi di Hitler, ecc... In tutto il film i ruoli sono mischiati, il vecchio e il nuovo costume (padre patriarca e figli spacciatori, droghe e tolleranza con chiusure mentali) convivono in un paesaggio piatto, grigio e periferico.
Ma non pensate che mescolando e riciclando Almodóvar operi un "livellamento" verso il basso. Ha un occhio formidabile che non si costruisce ed impara in nessuna scuola di cinema (splendida la sequenza della passeggiata delle due donne in strada per i negozi, ripresa sempre dall'interno delle vetrine davanti alle quali passano), e sa arrangiarsi anche in azi angusti (vedete dove riesce a ficcare map dentro quella casa, negli sportelli, armadi, dovunque!). Questo divertentissimo outsider del cinema europeo sensibile, bello e originale, ma anche divertente e popolare («Io e Fassbinder abbiamo in comune che siamo tutti e due un po' grassocci e diamo l'impressione di essere personaggi isterici. Questa isteria produce nei suo film disperazione esistenziale, nei miei voglio credere che produca energia»), da Buñuel come infischiarsene delle norme e divertire sovvertendo («lo e Buñuel abbiamo qualcosa in comune, entrambi siamo nati in Spagna ed entrambi siamo sordi»), dal punk l'importanza, se è il caso, di non avere rispetto per nessuno, di abbattere tutto e di far razzia del passato («La mia è una maniera di vivere il punk più vitale e più allegra, dove la droga, le piante di marijuana sono di plastica»).
Che cosa ho fatto io per meritare questo?, dipanandosi tra commedia tragica e demenziale, mette a frutto l'ironia e il cinismo di questi anni, la carica dissacratoria della comicità demenziale fine anni Settanhta, il sovversivismo buñueliano ma con un tocco lubitschiano di freschezza, e una passione per i sentimenti veri e per le persone vere di un Germi (anche se poi la vita umana conta poco e il rammarico per la morte di un uomo è più o meno lo stesso che per quella. di un ramarro).
Mescolamento, riciclaggio. Almodóvar pratica il riuso, però adoperando materiali e sensibilità europee (ma con l'occhio perverso - americano alla Landis, Sayles, indipendenti Usa). Insieme ai vari Moretti, Kaurismäki, ecc., Almodóvar lavora per un cinema europeo meno presuntuoso, meno d'autore e magari più ricco di cose, viscerale, che pensa anche al piacere e alla sensibilità del pubblico.
Federico Chiacchiari, Cineforum n. 289 novembre 1989 |
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