Madame Bovary - Madame Bovary
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Regia: | Chabrol Claude |
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Cast e credits: |
Soggetto: dall'omonimo romanzo di Gustave Flaubert; sceneggiatura: Claude Chabrol; fotografia: Jean Rabier, musica: Matthieu Chabrol; montaggio: Monique Fardoulis; scenografia: Michèle Abbe; costumi: Corinne Jorry; suono: JeanBemard Thomasson; interpreti: Isabelle Huppert (Emma Bovary), Jean-Frangois Balmer (Charles Bovary), Christophe Malavoy (Rodolphe Boulanger); produzione: Mario Kaiioitz, per MK2 Prods./Ced Prods./FR3 Films; distribuzione: Academy; origine: Francia, 1990; durata: 140'. |
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Trama: | Emma, giovane ed irrequieta figlia di un agricoltore francese, sposa il dottor Charles Bovary. Questo matrimonio, malgrado la bontà e le premure di un marito fedele e affezionato, e la nascita di una bambina, Berthe, va in crisi. Sempre annoiata, un po' altezzosa, amante dei begli abiti e insofferente dell'uggia familiare, Emma accetta con speranza che Charles si trasferisca a Thionville. Conosciuto l'assistente di un notaio, Leon, flirta con lui; partito Leon per Parigi, resta affascinata dai modi e dalle insidiose parole del marchese Rodolphe Boulanger e ne diviene l'amante. Charles continua ad adorare la moglie, che nel frattempo è caduta nelle grinfie di un ricco commerciante di stoffe, strozzino e ricattatore. Poichè Madame Bovary ama il lusso, i debiti contratti con costui (per suo consiglio lei è riuscita perfino a farsi rilasciare dal marito una procura) conducono Emma al disastro. Con provvedimento del Tribunale, su richiesta del creditore, i beni del dottore vanno sotto sequestro. Rodolphe, che a suo tempo si era rifiutato di portare Emma a Parigi con sè, rifiuta ora di darle del denaro per impedire l'esecuzione del sequestro. Frattanto ricompare Leon - da sempre innamorato di lei - ed Emma cede anche a lui, andando spesso in carrozza a Rouen (sotto il pretesto di assister a rappresentazioni di opera lirica), con il consenso del consorte, ignaro della tresca. Anche al giovane Emma, disperata, chiede un prestito, ma non ne ottiene che vaghe promesse. Assillata dagli eventi e respinta dagli amanti, Emma induce un apprendista che lavora in farmacia a darle dell'arsenico. E non le resta che il suicidio, davanti al marito sbigottito e incredulo che ancora l'ama teneramente. |
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Critica (1): | È Chabrol fedele a Flaubert? E M.me Bovary a Chabrol? E Isabelle Huppert a M.me Bovary? Pare proprio che intorno alla più celebre fedifraga mai uscita dalle pagine di un romanzo non si possa che disquisire di fedeltà. A un archetipo, più che a un personaggio, a un moto, più che a un romanziere. Entrare nelle storie "degli altri" non è certo un'esperienza nuova per Chabrol, perfettamente a suo agio tra i crimini e i misfatti della letteratura cosiddetta minore: Fréderic Dard, Hubert Monteilhet, Dominique Roulet... fino a Simenon, Henry James e Patricia Highsmith: universi corrotti nei quali i suo cinema ha apportato un rigoroso ordine morale costruito sul ribaltamento delle apparenze e dei valori acquisiti.
Il disagio che emana da questo incontro con Flaubert non deriva tanto dal carisma autoriale dello scrittore (c'è anche Goethe nella filmografia di Chabrol, Les affinités électives, realizzato per la tv nell'82) quanto da una sovrapposizione di scritture: quella di Flaubert, che assedia i personaggi e la storia con l'assillo di oggettivizzarli, quella del regista, non certo trasparente nel fluttuare dei punti di vista che traduce in sguardi l'attrazione e lo sgomento per il "mistero" Emma Bovary. L'ambientazione ottocentesca curata (com'è ovvio, non trattandosi dell'opera di un dilettante) in ogni dettaglio, la presunta competitività con l'opera letteraria nel travaglio formale, eventuali riferimenti a precedenti "riduzioni" entrate nella storia del cinema, sono elementi di approccio depistanti rispetto a un punto fermo: M.me Bovary appartiene di diritto alla poetica chabroliana. Personaggio complesso e inafferrabile inserito in un contesto che palesa un ordine quasi perfetto e comunque indiscutibile, imbocca e segue fino in fondo un percorso lineare e incanala nella sua vettorialità la vertigine e il caos. Nella "putrefazione confortevole, e piacevole a filmarsi" della piccola borghesia rurale dell'Ottocento francese, nella mediocrità delle aspirazioni, Emma tesse disfa e ritesse in silenzio un suo gran rifiuto, consapevole soltanto di essere, comunque, colpevole. Charles, cui è legata da amore contrattuale, è il suo specchio, il suo alter ego. La graduale ma inequivocabile trasformazione di quest'ultimo da personaggio tutto sommato positivo, "buono" e innamorato in inetto e pusillanime è passo passo funzionale al progressivo arrendersi di Emma al male necessario che la invade. Del resto, il nome Charles è un po' la cifra del cinema di Chabrol: lo portano uomini destinati a rivelarsi ben diversi da come appaiono alla luce di un giudizio immediato. Qui il marito diventa cartina di tornasole del dramma inenarrabile di Emma e nel contempo portatore, per antitesi, del giudizio morale nei riguardi della donna. Sola in un mondo (meglio, in una storia) tutta di uomini, adotta nei loro confronti (nessuno escluso, nemmeno gli amanti) una forma di comunicazione del tutto convenzionale, consona alla realtà apparente ma sempre più profondamente scissa dal suo io: la ragazza sana sensuale e libera dei Bertaux è entrata col matrimonio in un gioco che la costringe a fare della menzogna prima una difesa poi uno status. Da una condizione di malessere diffuso in cui il suo inconfessabile bisogno di "qualcosa" si consuma in fantasie solitarie e in repentini slanci di "normalità" (tentativi di amare il marito, di curare la casa, di amministrare saggiamente il denaro, di occuparsi della figlia) passa, dopo la malattia, a una fase di aggressione sotterranea ma implacabile della cellula familiare che intuisce come negazione vivente (proprio in Charles e nella piccola Berthe) dei suoi sogni romantici più che come nucleo generatore dell'intera società di cui ben razionalizza (né tanto meno ideologizza) gli aspetti oppressivi e frustranti. In uno stordimento crescente, simile a quello che colse come una premonizione lei (e lo spettatore) nel roteare delle gonne al valzer di Strauss durante la festa alla Vaubyessard, Emma passa dal primo al secondo amante inventandosi l'amore e acquista sete e velluti fino alla totale rovina economica per dimostrare a se stessa di esistere. Chabrol non l'abbandona mai in questo percorso ora esaltante ora umiliante, comunque eroico. La mdp non si distrae mai da lei esasperandone così la soggettività esclusiva e morbosa, il punto di vista assolutamente unilaterale che rimane referente unico anche quando non è condiviso. II regista, indifferente a una definizione psicologica del personaggio e assecondato da Isabelle Huppert che sembra volergli negare anche ogni pregnanza fisica (età, corpo, sensualità) riducendolo a pura "forza", tenta invano di catturarlo in una rete di obiettività. Gli altri personaggi possono ignorare Emma o guardarla, credere alle sue menzogne o a loro volta ingannarla. Lei, fino all'ultimo oppone una resistenza passiva (alla mdp): si lascia cedere in moglie, amare, sedurre, abbandonare, abbindolare. "Sembrava attraversare l'esistenza sfiorandola appena...". Non riconosce ciò che la circonda, procede come vampirizzata dal suo destino. Il suo tramite con la realtà è un sogno mai rivelato: e il film diventa un moderno omaggio alla sua impossibilità di essere normale, al segreto che tenta di tenere racchiuso in sé oltre la morte. La lunga temibile agonia, in cui la fine imminente coincide con la perdita del controllo sulle apparenze (e quindi il definitivo contatto con la "verità") costringe Emma all'oggettività: a "svelare" la sofferenza che emblematicamente prende l'aspetto di sudore, vomito, convulsioni. È categoricamente escluso ogni generico significato di punizione autoindotta in questa fine che dà invece allo spettatore la misura e il peso materiale di una sofferenza troppo spesso scambiata per un melodramma borghese.
Non a caso Chabrol (con un palese tradimento nei confronti di Flaubert) fa pronunciare a Charles quando scende le scale di casa col dottor Canivet dopo la morte della moglie la frase che invece avrebbe dovuto dire a Rodolphe dopo aver scoperto la sua tresca con Emma: "E stata una fatalità". L'uomo diventa piccolo piccolo, dominato dal destino, unica possibile chiave di lettura, unico sguardo da dentro.
Adelina Preziosi, Segno Cinema n. 53, gennaio/febbraio, 1992 |
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