Lezioni di vero - Life Lessons
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Regia: | Scorsese Martin |
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Cast e credits: |
Primo episodio del film New York Stories (il secondo e il terzo episodio sono stati diretti, rispettivamente, da Francis Ford Coppola e da Woody Allen).Soggetto e sceneggiatura: Richard Price; fotografia: Nestor Almendros; canzoni: “Whiter Shade of Pale”, “Conquistador” (Procol Harum), “Politician” (Cream), “The Right Time” (Ray Charles), “Like a Rolling Stone” (Bob Dylan & The Band); scenografia: Kristi Zea, costumi: John Dunn; montaggio: Thelma Schoonmaker; suono: James Sabat e Frank Graziadei; interpreti: Nick Nolte (Lionel Dobie), Rosanna Arquette (Paulette), Patrick (Phillip Fowler), Phil Harper (uomo d’affari), Jeesse Borrego (Reuben Toro), Gregorij von Leitis (Kurt Bloom), Steve Buscemi (Gregory Stark); produzione: Barbara De Fina per Touch. Pictures; origine: Usa, 1989; durata episodio: 44'. |
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Trama: | Lionel Dobie, un pittore affermato, prepara febbrilmente l’ultima mostra mentre la sua compagna Paulette, anche lei pittrice, si accinge a lasciarlo. Nonostante tutti i suoi variegati tentativi, la ragazza finisce per andarsene. Ma il vernissage è un grande successo, e Lionel incontra qui un’altra possibile “allieva”... |
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Critica (1): | Il film a episodi non ha mai avuto grande fortuna negli USA. Con qualche eccezione di solito poco rimarchevole (Twilight Zone la più recente), Hollywood non si è infatti rivolta di frequente a un filone che viceversa è risultato portante nel cinema italiano degli anni sessanta, quando la molteplicità frammentata della proposta serviva probabilmente a controbattere la quantità di informazione che la televisione cominciava ad offrire (di fatto, il diverso trend appare significativo dello scarto cronologico nelle modalità d’evoluzione dei media nei due paesi).
Dal punto di vista più direttamente cinematografico, New York Stories nasce all’insegna della disomogeneità: non solo perché non è stato diretto da un solo autore (I mostri di Risi), ma anche perché manca, pur nelle inevitabili differenze, un minimo di quella progettualità che caratterizza un esempio illustre del passato come Paris vu par... almeno teoricamente ad esso assimilabile. Si tratta, in sostanza, del tipico film di produttore (Robert Greenhut, uno habitué di Woody Allen), in cui l’idea-cardine, che dovrebbe essere quella di offrire tre diversi, autorevoli punti di vista sulla «Grande Mela», diventa puro pretesto, per cui, di fatto, l’unico fragile legame che unisce gli episodi è null’altro che la comune ambientazione. D’altronde, non poteva essere diversamente, vista la personalità degli autori, ciascuno con una sua lunga storia produttiva e un mondo poetico ben delineato. Pensiamo sia quindi del tutto legittimo prendere in analisi singolarmente i momenti della trilogia, dedicando tendenziosamente uno spazio maggiore a quello che ci sembra di gran lunga il più riuscito. Non sappiamo che parte abbia avuto Scorsese nella stesura dello screenplay di Richard Price (lo stesso de Il colore dei soldi). Se dobbiamo credere alle sue dichiarazioni, comunque, il soggetto dell’episodio Lezioni di vero gli è stato suggerito dalla lettura delle memorie di Polina Susiova, una delle amanti di Fiodor Dostoevskij. Il grande scrittore russo sottoponeva a un controllo ossessivo le proprie allieve – compagne, che trovavano in altri incontri occasionali l’unico modo per affermare la loro personalità contro il maestro. Il tradimento, anche se strumentale, alimentava comunque la gelosia, la frustrazione sessuale si pervertiva nel feticismo, il desiderio si sublimava nella creazione artistica. Romanzo chiave di Dostoevskij sotto questo punto di vista, Il giocatore è non a caso più volte citato da Scorsese (il bacio al poliziotto, la catenina alla caviglia di Paulette, che ammicca magari anche a quella, indimenticabile, di Barbara Stanwyck ne La fiamma del peccato, capolavoro noir di Billy Wilder). In Lezioni di vero, Scorsese dà un ulteriore giro di vite ad un sadomasochismo presente in quasi tutta la sua opera, chiamandosi probabilmente in causa in prima persona nel mettere in scena il rapporto tra angoscia dell’esistenza e angoscia della creazione artistica. Il titolo originale, Life Lessons, ne esprime meglio la magmatica ambiguità, la sua indecifrabile alternanza (tra Lionel e Paulette, chi dà e chi riceve «lezioni di vita», chi, stevensonianamente, è di volta in volta capitan Teach e capitan Learn?), il suo acre sapore loseyano. Paulette («Solo Paulette!») è schiacciata dalla statura intellettuale del suo partner (si veda la sequenza in cui Lionel esamina con imbarazzata benevolenza i suoi quadri, e soprattutto quella, formidabile, del momento creativo dell’artista, in cui la giovane donna che scende dalle scale e vorrebbe dirgli che se ne va, rimane come presa ipnoticamente, risucchiata nel dipinto, attraverso un sapiente meccanismo di montaggio alternato, uscendo sconfitta su tutta la linea di fronte ad una vitalità «geniale», ad una carica prorompente di cui conosce e teme l’intensità).
Sempre secondo le dichiarazioni del regista, l’altra fonte di ispirazione è stato Brama di vivere, appassionante e colto mélo di Minnelli, a detta di Scorsese, l’unico film capace di fargli sentire l’odore delle vernici ad olio. Possiamo partire proprio da qui per tentare un approccio alle scelte stilistiche di Life Lessons. In Brama di vivere erano i turgori del barocco, eccessivo, fantastico score del vecchio, impareggiabile Miklós Rozsa a sottolineare notti stellate, girasoli e allucinazioni di Douglas – Van Gogh. Nel loft iperrealista di Lionel Dobie sono A Whiter Shade of Pale e Like a Rolling Stone a fungere da background sonoro all’atto creativo postpollockiano. Scorsese lavora sulle canzoni, evidenziando da un lato la loro funzione esplicativa (il malessere espresso dai versi dei Procol Harum, soprattutto da quelli di un Dylan versione 1974, con accompagnamento di The Band, con un progressivo aumento della tensione sonora che si scioglie in un a solo di organo e in un applauso finale, riservato agli esecutori ma anche all’artista che ha completato vittoriosamente la sua fatica), dall’altro quella esibizionistica (il brano musicale e le parole stesse sono messaggi rivolti alla ribelle Paulette, una dichiarazione di anima e il tentativo perdente di richiamare un universo di sensazioni). Inoltre, cura l’impatto del materiale sonoro facendo corrispondere al suo volume dilatato una sorta di densità dell’immagine e dei movimenti di macchina. Tende insomma a creare un corrispettivo tra matericità del colore e matericità della musica (colore della musica e musica dei colori) in un continuum che vede i nastri audio impiastricciati di biacca e le tele costruite sulla tessitura musicale.
Praticando per analogia un cinema action painting, Scorsese fa di Lionel Dobie l’ultimo personaggio di una galleria di artisti essenzialmente fisici che comprende il Jimmy Doyle di New York, New York, il Jake La Motta di Toro Scatenato e il Vincent de Il colore dei soldi (sarebbero sufficienti, per confortare questa tesi, le impressionanti sequenze in cui il pittore si «carica» giocando a basket). Uomo di «cultura del melodramma», senza i raffinati e totalizzanti parametri viscontiani, ma con l’immediatezza sanguigna del figlio di emigrati, il regista sente poi il bisogno di interrompere il torrenziale flusso rock con una citazione di infallibile pertinenza. Come in Toro scatenato gli splendidi, sgranati e rallentati titoli di testa preludevano, mediante l’intermezzo mascagniano, ad una Cavalleria Rusticana di Broccolino, Life Lessons offre a un enorme e inerme principe Calaf l’opportunità di rivolgere la sua sfida a una fuggitiva Turandot che, giacendo con un bellone da party, consuma l’ennesima provocazione per preparare il distacco, mentre Mario Del Monaco, a sottolineare la commozione ma anche a screziare di ironia, intona un atteso (e, in fondo, realistico) All’alba vincerò.
Flirtando con lo spot ma riciclandolo in direzione di una irredimibile «differenza» (basterebbe a testimoniarla, al di là di una sempre riconoscibile «qualità» dell’immagine, l’uso pressoché sistematico del montaggio per analogia, anziché per collisione), Scorsese attua una sorta di «estetica del frammento» che si collega al feticismo di matrice dostoevskijana di cui si diceva sopra (sarebbe sufficiente citare, a questo proposito, la precisione geometrica con cui vengono costruite le sequenze parallele dei particolari del corpo – gli stessi – di Paulette e della ragazza alla mostra di pittura), collegando i brandelli di arte-vita con una fluidità che si affida ai movimenti di macchina, tanto più sorprendenti in quanto gestiti da Nestor Almendros, un grande abituato alle fissità rohmeriane. L’inusualità delle inquadrature, l’uso degli artifici tecnici più disparati, dall’angosciato rallenti dell’aeroporto agli arcaici fondu sulle tele, le scelte cromatiche che nascono più dal contenuto dell’immagine che dal tipo di illuminazione, fanno di Life Lessons un vero e proprio tour de force, un ulteriore passo avanti nel senso della definizione di una nuova narratività da parte di un regista che, sui temi analoghi della solitudine e della coazione a ripetere, ci aveva dato, con Fuori orario, uno dei risultati più alti, duri e radicali del decennio.
Paolo Vecchi, Marco I. Zambelli, Cineforum n. 286, 7-8/1986 |
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| Martin Scorsese |
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