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Insulto (L') - Insulte (L')


Regia:Doueiri Ziad

Cast e credits:
Sceneggiatura: Ziad Doueiri, Jöelle Touma; fotografia: Tommaso Fiorilli; musiche: Éric Neveux; montaggio: Dominique Marcombe; scenografia: Johan Knudsen; costumi: Lara Khamiss; interpreti: Adel Karam (Toni), Rita Hayek (Shirine), Kamel El Basha (Yasser), Christine Choueiri (Manal), Camille Salameh (Wajdi Wehbe), Diamand Bou Abboud (Nadine), Elie Njem, Tatal El Jurdi, Georges Daou; produzione: Antoun Sehnaoui, Jean Bréhat, Rachib Bouchareb, Julie Gayet, Nadia Turincev per Ezekiel Films, Rouge International-Tessalit Productions, in coproduzione con Cohen Media Group-Scope Pictures- Douri Films; distribuzione: Lucky Red; origine: Francia-Libano, 2017; durata: 113'.

Trama:Durante i lavori per rinnovare la facciata di un edificio a Beirut, Toni, un cristiano libanese, e Yasser, un rifugiato palestinese, si scontrano per un impianto idraulico. La lite è piuttosto violenta a livello verbale tanto che Yasser finisce per insultare Toni. Quest'ultimo, ferito nella sua dignità, decide di sporgere denuncia e i due vengono improvvisamente catapultati in un vortice infernale con un lungo processo che attira l'attenzione mediatica nazionale, per le ataviche questioni tra palestinesi e cristiani libanesi.

Critica (1):Beirut, oggi: una grondaia fuorilegge, una riparazione non richiesta, un insulto (“Brutto stronzo”), e le vite del cristiano libanese, un meccanico, Toni (Adel Karam, già visto in Caramel) e del rifugiato palestinese, un capomastro, Yasser (Kamel El Basha) non saranno più le stesse. L’escalation è violenta, invasiva: Toni ha due costole rotte, e le ripercussioni toccheranno perfino la moglie incinta e la nascitura, mentre il datore di lavoro di Yasser cerca di mediare. Nulla da fare, esplode un altro insulto (“Ariel Sharon avrebbe dovuto sterminarvi”, profferito contro Yasser), il caso finisce in tribunale, anzi, in corte d’appello, dove si affrontano due avvocati padre e figlia, e il circo mediatico ci va a nozze: non è più una cosa tra Toni e Yasser, ma affare di un intero paese, che non ha saputo fare i conti con il passato, e leccarsi le ferire.
In concorso a Venezia 74, è L’insulte di Ziad Doueiri, che fa di conflitto religioso, politico, etnico court drama, portando alla sbarra crimini d’odio, memorie urticanti, passato che non passa e presente che non chiede scusa.
Troppo lungo, e con troppi finali, troppo melodrammatico e accaldato – fino al semplicismo -, ma non è privo di interesse: gli attori sono egregi – menzione speciale all’avvocato padre Camille Salamé – e la carne al fuoco tanta e al sangue.
E poi, la cornice giudiziaria non deve ingannare, perché non realmente risolutiva per una tenzone tanto singolare quanto allargata, tanto privata quanto pubblica: dove finisce il torto dell’uno e dove inizia quello dell’altro? Certo, lo spettatore deve fare i conti con i canoni emozionali e gli stilemi non smagati del cinema mediorientale, e segnatamente libanese, ma L’insulte ha un buon ritmo, offre un facile coinvolgimento e un approdo coraggioso: e se la soluzione fosse la cara, vecchia legge del taglione? Occhio per occhio, dente per dente, costola per costola?
Federico Pontiggia, cinematografo.it-La rivista del cinematografo, 31/8/2017

Il quarto film di Ziad Doueiri (regista libanese con passaporto francese, studi di cinema in America e un passato da aiuto di Quentin Tarantino) ha più di un motivo di interesse ma il punto di vi-sta cinematografico è il meno convincente. Il film gira intorno al processo scaturito da un insulto (quello del titolo appunto) uscito per esasperazione dalla bocca di un capomastro palestinese verso un astioso inquilino cristiano durante i lavori di riqualifica del quartiere di Beirut in cui questi vive con la moglie incinta. Sullo sfondo il mai metabolizzato odio che ancora serpeggia, difficile da estirpare, opponendo i cristiani ai mussulmani, il motivo per cui una banale lite si trasforma in un vero e proprio affare di stato con coinvolgimento di esponenti politici e media.
Adispetto del contenuto eminentemente politico (tanto da rendere necessaria una didascalia iniziale che ne sottolinea l'intento non militante), il film sembra scegliere una via formale che lo avvicina quasi di più a uno sceneggiato tv di ambientazione tribunalizia – seppur di indubbia qualità – che non a un'opera cinematografica di vigore civile. Il ricorso alle sottolineature del commento musicale, dei movimenti di macchina, della fotografia, dei colpi di scena della sceneggiatura hanno, purtroppo, il risultato di smorzare la forza di tutta l'operazione.
Mi verrebbe da pensare però – visti i clamori suscitati in Patria dal film precedente di Doueiri The Attack, il suo momentaneo arresto al ritorno da Venezia, le dichiarazioni di Kamel EI Basha (il capomastro) quando ha ricevuto la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile – che questa possa essere una valutazione da rimettere in prospettiva se pensata dall'interno. Il valore di questo film va infatti probabilmente contestualizzato entro i margini di una società molto meno pacificata di quanto si possa credere in mancanza di un conflitto reale, fisico, armato; una società in cui gli equilibri civili poggiano sulle macerie e le ferite di una popolazione e di un tessuto urbano, quello della Beirut in ristrutturazione raccontata dal film, che fatica a trovare la via della conciliazione con il proprio passato e che resta, evidentemente, un tema politico forte in qualunque modo lo si pensi di affrontare.
Chiara Borroni, Cineforum n. 568, 10/2017

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Critica (4):
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