Ogni opera di confessione
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Regia: | Gemmi Alberto, Marmiroli Mirco |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Alberto Gemmi, Mirco Marmiroli; fotografia e suono: Alberto Gemmi, Mirco Marmiroli; montaggio: Francesco Pastore; responsabili di produzione: Stefano Bertini, Andrea Ganapini; curatori: Marco Trulli, Claudio Zecchi; in collaborazione con Emilia Romagna Film Commission e con il contributo di Arci Reggio Emilia; origine: Italia, 2015; durata: 67′. |
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Trama: | Un uomo ha deciso di acquistare un attico in una discussa zona della città. Dalle vetrate di questo immobile ci si accorge di un’enorme area in disuso. Si tratta di un complesso industriale dal passato glorioso, che giace in attesa di un articolato processo di riqualificazione. Intanto una famiglia rom sosta da tempo in un camper, interagendo con gli spazi di queste strutture, mentre un anziano operaio sogna di volare per l’ultima volta. Sono suoni e gesti che legano il paesaggio all’uomo e che rappresentano una dignità comune nell’affrontare il tempo che intanto scorre. |
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Critica (1): | Ogni opera di confessione è un film di ricerca, che si pone l’obiettivo di esplorare le relazioni in atto tra gli individui, le forme del paesaggio e i suoi suoni. Una forma ibrida tra il cinema di osservazione e quello performativo, che si attacca alla gestualità dei personaggi attraverso un processo di sublimazione del loro quotidiano.
Questo intervento si focalizza sul contesto delle ex Officine Meccaniche Reggiane, i cui spazi sono stati centro nevralgico per la produzione e lo sviluppo del trasporto nazionale e per la flotta aerea dell’esercito italiano, e che dopo anni di abbandono sono tornati al centro delle politiche territoriali della città di Reggio Emilia, inserendosi all’interno di un maestoso quanto articolato piano di riconversione urbana. L’area in questione, situata a nord della città, è caratterizza dalla compresenza di importanti infrastrutture istituzionali e di una serie di edifici-simbolo delle ultime trasformazioni urbane e sociali. Ne sono esempio i call center che occupano le palazzine anni ’30 dei ferrovieri, gli
alimentari etnici e la coesistenza di differenti centri religiosi, che si rivelano già come metafora della contemporaneità. Catalizzatore di queste suggestioni diventa il Piazzale Europa. Esso rappresenta l’epicentro, ma, soprattutto, lo scambio verso l’Europa, la nuova Europa, ci verrebbe da dire. È facile capire perché questo territorio ci è apparso fin da subito come uno snodo nevralgico, un filo scoperto nella proiezione futura della città, dove le strutture delle ex Officine Meccaniche Reggiane, sono diventate il pretesto per affrontare il fuori e la complessità del nuovo mondo.
Questo film rappresenta un’urgenza, l’urgenza di fissare questa contemporaneità dilagante.
(dal pressbook del film) |
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Critica (2): | Per mesi mi sono domandato cosa stessi raccontando o cosa stessi realmente cercando dentro e attorno questo paesaggio di rovine. La ricerca faceva inizialmente fede a principi accademici o teorici, legati al fenomeno della riqualificazione industriale, intesa in una prospettiva locale, ma esportabile in contesti globali. Immaginavo semplicemente di poter costituire un modello filmico, di riferimento al caso scientifico. Appena abbiamo iniziato a lavorare al film, il concetto di riqualificazione o rigenerazione, fino ad allora teorizzato, ha iniziato velocemente a far parte di un sistema di valori molto più complesso, che si avvicinava decisamente ad una scala di suggestioni o interpretazioni. Quelli in cui ci stavamo addentrando, erano luoghi caratterizzati da un’incessante incedere di onde e rifrazioni, magnetismi ricorrenti mi verrebbe da dire, che in maniera del tutto istintiva abbiamo deciso di affrontare. La storia di quel luogo è stata prima di tutto interiorizzata, dopodiché – attraverso un lento processo di rielaborazione – necessariamente decostruita al suo presente. Il nostro non è un viaggio storico dentro l’epica delle Officine Reggiane, ma piuttosto una riflessione sulla prospettiva più ampia del tempo. Ci interessava capire quali sono gli effetti che il tempo produce sullo spazio e sugli individui.
(Alberto Gemmi, regista) |
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Critica (3): | Parlerei di un film di gesti e le scelte di regia avvenivano in funzione del gesto, anche se i movimenti o gli spostamenti hanno portato spesso i soggetti al di fuori del quadro ripreso. L’azione accade sempre e comunque sia che venga catturata o che non venga catturata: sono gesti talmente semplici che mostrarli in maniera chiara potrebbe solamente desacralizzarli. In quanto nascosti o poco chiari diventano sacri.
A favore di questo punto, si aggiunge l’approccio temporale alle azioni, trasformando tutto in specie di tableau vivant semistatici che rinnegano un qualsiasi tipo di montaggio se non funzionale alla cadenza del film nella sua interezza. Cadenza, non ritmo. Come un susseguirsi di abitudini, uguali nei giorni, proprio perché ripetute diventano punti saldi della vita e del film. Attracco anche per le vite meno abitudinarie, che un ritmo non hanno se non sincopato. “Un imprevisto è la sola speranza. Ma mi dicono che è una stoltezza dirselo” scrisse Montale. È questo l’approccio che si è seguito: trattare ciò che è ordinario come straordinario, per scovare un nuovo modo di ritrovarsi stupefatti della vita. Un percorso irripetibile proprio perché simile a tanti altri.
(Mirco Marmiroli, regista) |
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Critica (4): | |
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