Wittgenstein - Wittgenstein
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Regia: | Jarman Derek |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Derek Jarman, Terry Eagleton, Ken Butler, fotografia: James Welland; montaggio: Budge Tremlett; musica: Jan Latham-Koenig; suono: George Richards; scenografia: Annie Lapaz; costumi: Sandy Powell; interpreti: Karl Johnson (Wittgenstein), Michael Gough (Russell), Tilda Swinton (Lady Ottoline Morrell), John Quentin (Keynes), Kevin Kollins (Johnny), Clancy Chassay (Il giovane Wittgenstein), Nabil Shaban (Il marziano), Sally Dexter (Hermine Wittgenstein); produzione: Tariq Alim Eliza Mellor (BFI), Ben Gibson (BFI), Takashi Asai (Uplink); distribuzione: Mikado; durata: 75'; origine: Gran Bretagna, 1993. |
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Trama: | Ludwing Wittgenstein nato nel 1889 a Vienna è l'ultimo di nove figli: tre dei suoi fratelli sono scomparsi per suicidio, il quarto, Paul, ha acquisito una buona reputazione come pianista malgrado abbia perso un braccio durante la prima Guerra Mondiale. Distintosi a Cambridge come brillante allievo di Bertrand Russel, col quale condivide le idee politiche di sinistra e l'amore per le strutture logico-matematiche, Ludwig si arruola come volontario nella Grande Guerra, nonostante l'opposizione della famiglia. Poi si dedica all'insegnamento, ma fallisce nel suo compito di docente in quanto si scopre incompreso dai suoi allievi. Spinto dalla sua passione per l'Unione Sovietica, compie il tentativo, frustrato, di recarsi colà come operaio confortato dall'amicizia col depravato ed intelligentissimo Maynard Keynes. Il ripudio delle sue prime costruzioni filosofiche sviluppate nel "Tráctatus", i sensi di colpa che l'omosessualità gli provoca, la rottura con Bertrand Russel, che lo accusa di contagiare i giovani studenti con le sue idee, un inesprimibile disagio ed un vuoto nichilista crescente ed insopportabile lo portano, con il tumore alla prostata, alla prematura fine. |
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Critica (1): | Il percorso teorico e la vita di Ludwig Wittgenstein costituiscono uno dei momenti più salienti e rilevanti di tutta la cultura, non solo filosofica, di questo secolo. Pensiero e vita, teoria e prassi, vanno, come spesso accade, ad intrecciarsi fortemente, ma non solo nel senso di una traduzione immediata dell'esperienza nel pensiero e viceversa, quanto nella forma paradossale di un'esperienza del pensare e di un pensare l'esperienza che trovano nel linguaggio la forma della loro "saldatura". In questo senso tutta la filosofia di Wittgenstein è stata incentrata sul linguaggio pensato nella sua forma "logica" o "pragmatica", nella trasparenza di una struttura specchio del mondo, o nell'opacità dei differenti "giochi linguistici" nei quali si realizza. I due momenti che hanno scandito questo percorso sono individuati nei due grandi testi: Il Tractatus logicophilosophicus (pubblicato nell'edizione inglese, con prefazione di Bertrand Russel, nel 1922) e ricerche filosofiche (pubblicato postumo nel 1953, dopo la morte avvenuta nel 1951). Nel Tractatus (unico testo pubblicato in vita insieme ad un breve scritto di logica) viene posta la questione fondamentale sui criteri di senso del linguaggio ed una risposta viene data ritrovando il suo ambito di verità nella struttura logica che lo caratterizza e nel rapporto descrittivo che instaura nei confronti del mondo in quanto «totalità di fatti». Proposizioni come: «Il mondo si divide in fatti», «La proposizione è un'immagine della realtà», «Dare l'essenza della proposizione vuol dire da l'essenza d'ogni descrizione, dunque l'essenza del mondo», fino all'ultimo aforisma «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere», costituiscono le tappe di un pensiero teso verso un tentativo di determinare i criteri in base ai quali si viene a costituire l'omologia strutturale fra mondo e linguaggio. Con Ricerche filosofiche la prospettiva cambia radicalmente, i criteri di verità passano da una prospettiva «logica» ad una «pragmatica». I1 senso del linguaggio risiede, ora, nel suo «uso», nei differenti «giochi linguistici» nei quali si realizza, nella molteplicità irriducibile delle forme nelle quali si viene a determinare: «È interessante confrontare la molteplicità degli strumenti del linguaggio e dei loro modi d'impiego, la molteplicità dei tipi di parole e di proposizioni, con quello che sulla struttura del linguaggio fa parte di un'attività o di una forma di vita», ecc. Ma quello che caratterizza in modo radicale e originale le Ricerche è l'apertura di un'interrogazione costante sul «linguaggio comune» sull'uso «terra terra» della lingua, sull'ovvietà, mai fino in fondo così ovvia, del quotidiano, sulla sua engimaticità, sull'enigma dell'ovvio: «L'essenziale della nostra ricerca è che con essa non vogliamo apprendere nulla di nuovo. Vogliamo comprendere qualcosa che sta già davanti ai nostri occhi. Perché proprio questo ci sembra, in qualche senso, di non comprendere». Se la riflessione wittgensteiniana si è mossa fra ossessione per la chiarezza e constatazione dell'irriducibile opacità delle cose, aspirazione all'unità e impatto con una inesauribile molteplicità, la sua vita si è consumata in un'irrequietezza costante fra Vienna (dove è nato nel 1889) a Cambridge fra il Nord Europa (Norvegia, Irlanda) e l'Unione Sovietica, fra la partecipazione come volontario alla prima guerra mondiale e l'attività di insegnante elementare in un villaggio della Bassa Austria. Ma come ci ha restituito Jarman l'immagine di questo man of genius (Russell), come ci ha reso la complessità del suo pensiero e della sua figura? L'intuizione di fondo che anima e struttura il film è quello che trova nella costruzione di scene ottiche e di blocchi spaziotemporali astratti il modo di fuggire al pericolo di rappresentare alcunchè, di ridurre tutto alla temporalità lineare biografica, alla caratterizzazione psicologica del personaggio, alla raffigurazione degli ambienti. L'operazione fondamentale del Wittgenstein di Jarman risiede nell'invenzione della «scena», nella sua costruzione, nel suo carattere assolutamente antiproduttivo: si tratta di creare la scena, di costruirla, di produrla (il cinema è primariamente produttivo prima di essere riproduttivo). Inventare una scena, costruire il film come succedersi di scene, non significa fare qualcosa di «classicamente» teatrale, significa semmai accedere alla potenza proprio dell'immagine nel suo statuto «moderno», un'immagine puramente ottico-sonora (ci troviamo di fronte a vere e proprie scene ottiche) che non descrive più nulla, o meglio che fa accedere la descrizione al suo statuto più alto nel momento in cui costruire il suo soggetto, inventa il suo blocco spazio-temporale. Allora la sua otticità della scena, la costruzione di spazi-tempo astratti, la potenza dell'assolutismo falso sono i segni della trasformazione dello schermo in uno spazio visivo-mentale che mette in questione qualsiasi idea di schermo-cache di derivazione baziniana. Le grandi differenze si ritroveranno allora nella costruzione di queste «scene»: «estetiche» e «mentali» del cinema europeo (Fellini, Syberberg, Greenaway), e quelle «spettacolari» del cinema americano (Coppola, Lynch, ecc). Le «scene» del Wittgenstein di Jarman si contraddistinguono eminentemente per un eccesso di teatralità (che in quanto tale è tipicamente cinematografico) che trova nella creazione di un sfondo nero con il suo potere assorbente (l'invenzione di una profondità piatta data dal nero che assorbe e rilascia) e nella messa in rilievo ottica dei personaggi (data dai colori accesi e contrastanti degli abiti e degli oggetti) il suo momento più caratterizzante. Il tutto crea l'effetto di un concatenarsi di «scene» che formano lo spazio e il tempo astratto di una drammaturgia grottesca dove i singoli personaggi sono de-psicologizzati e ridotti a quella che sembra essere una parodia dei «tipi»: il genio tutta sregolatezza (Wittgenstein), l'insigne cattedratico, l'allievo del genio, la sua famiglia, per giungere alla figura esemplare del marziano ecc. Il «senza tempo» del «nero» da dove emergono le figure e lo spazio astratto composto dal rapportarsi di corpi cromatici e corpi sonori (la citazione delle proposizioni e degli aforismi), nonché il carattere non-obbligante del raccordo delle «scene», sono in qualche modo la «risposta» al pensiero frammentario di Wittgenstein in quanto messa in questione delle forma argomentative e discorsive della filosofia occidentale. Allora, il Wittgenstein di Jarman sembra essere un film «all'altezza», nel senso che opera sul materiale di partenza, la vita e le opere di un grande filosofo, utilizzando proprio come materiale e componendo una partitura astratta e grottesca, allo stesso tempo verbale e visiva, che restituisce su un piano propriamente estetico l'«immagine» di una vita e di un pensiero.
Roberto De Gaetani, Cineforum n. 328 ott. 1993 |
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