Drugstore cowboy - Drugstore cowboy
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Regia: | Van Sant Gus |
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Cast e credits: |
Soggetto: dal romanzo di James Fogle; sceneggiatura: Gus Van Sant, Daniel Yost; fotografia: Robert Yeoman; musica: Elliot Goldenthal; montaggio: Curtiss Clayton; scenografia: David Brisbin; costumi: Beatrix Aruna Pasztor; suono: Ron Judkins; interpreti: Matt Dillon (Bob), Kelly Lynch (Dianne), James Le Gros (Rick), Heather Graham (Nadine), James Remar (Gentry), William S. Burroughs (Tom, il prete), Grace Zabriskie (madre di Bob), Max Perlich (David), Beach Richards (consulente); produzione: Nick Wechsler e Karen Murphy, per Avenue Pictures; distribuzione: Filmauro; origine: USA, 1989; durata: 100’. |
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Trama: | 1971, Portland (Oregon). Bob Hughes ogni giorno deve trovare un modo per procurare a sé e ai suoi compagni la droga, di cui ha bisogno per dimenticare il mondo che lo circonda e lo opprime. Sono numerosi i furti nelle farmacie e nei drugstore che il gruppo mette a segno, riuscendo sempre a sfuggire alla polizia. La morte imprevista per overdose di una ragazza della sua banda spinge Bob a riflettere e a tentare una cura di disintossicazione. Il film si conclude così come era iniziato: Bob è in fin di vita sull'ambulanza che lo sta accompagnando all'ospedale e ricorda la sua esistenza e le peripezie per procurarsi la droga. |
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Critica (1): | Come tanti celebri film noir, tutta la storia non è altro che un lungo flashback che dura quanto dura l'agonia dell'eroe. La straordinaria sequenza di apertura del film stabilisce subito il tono dell'opera: il primissimo piano del volto sudato e stravolto, ma paradossalmente felice, di Bob (Matt Dillon) sdraiato sul lettino dell'ambulanza, bellissimo angelo caduto miltoniano, e la struggente musica jazz sullo sfondo. L'immagine poi si accelera, e la voce off di Bob introduce gli altri personaggi del film quasi fosse un piccolo film d'amatore in super 8...
Ci troviamo a Porland, nell'Oregon (la città natale di Van Sant, un regista indipendente di 38 anni), agli inizi dei duri anni Settanta, e per Bob Hughes e la sua piccola gang l'unica cosa visibile che è rimasta della controcultura dei magnifici Sessanta è la droga, e il suo strascico quasi fatale di piccole delinquenze e sbrago morale. La macchina da presa è brutalmente oggettiva nel descrivere una esistenza ai margini della società, ma poi diventa improvvisamente lirica quando si mette a dipingere gli alti e i bassi dei suoi poveri eroi, in una tavolozza d'intenso dinamismo (Bob che si finge in preda a una crisi d'epilessia durante il furto nella farmacia) o di provocatoria visionarietà (l'incontro con Burroughs, rivelatore del degrado morale della nostra società ben "oltre" il problema-droga...) o di elettrizzante grafismo (i primi piani dell'iniezione nell'automobile; le nuvole che si muovono veloci nel cielo, simbolo di un'avventura che corre dritta verso l'abisso). Nel suo atteggiamento ludico nei confronti dell'universo junkie e dei vari tipi di droghe, il film mette in scena, in realtà, la nostalgia di una certa marginalità delinquenziale anni Settanta; meglio, il ribellismo giovanile come può manifestarsi ormai in una società profondamente corrotta e corruttrice. Ecco allora che la figura di Bob viene in qualche modo nobilitata, e questo ennesimo racconto crudele di una giovinezza finisce per farne quasi un santo martire: come il San Sebastiano di Antonello. Bob è l'unico a possedere ancora uno sguardo puro sul mondo: come tutti gli idealisti della cultura americana, finisce per essere solo anche tra i suoi amici, perché non trova nessuno in grado di condividere questo sguardo lucido e disperato sull'esistenza, sulle cose.
Ed è così che un film, all'apparenza amorale se non immorale, ambisce a porsi come punto di vista critico della società borghese (non diversamente da parecchi film di gangster, di cui questo può essere letto come una gemmazione: non a caso qualche critico francese ha ricordato Bonnie and Clyde). E la morte, violenta, diviene l'unica forma di sanzione possibile di questa hibris. Ma è la forma a entusiasmare maggiormente. Ellittico, vertiginoso, il film fa dell'allucinazione da droga la sostanza del suo stesso stile. Le ossessioni o le visioni psichedeliche di Bob sono rappresentate da miriadi di oggetti minuscoli che si levano in sovrimpressione sul suo volto (dei cappelli, ad esempio). E l'overdose, dove, finalmente, non ci viene taciuto il grande rimosso, e cioè il piacere intenso che la droga comunque procura (piacere, certo, anche della trasgressione), assomiglia all'assenza di gravità di un quadro di Magritte. Vacuità di personaggi, vacuità di ambienti mediocri (motel, appartamenti anonimi): però mancanza di gravità di una felicità iconoclasta e paranoica che si colloca "al di sopra" del mondo sensibile delle cose. Felicità, gioia allegra, danza vitale sull'orlo dell'abisso (dal greco a-bussos: ciò che è senza fondo), che è, appunto, un "buco" senza fondo, senza fine.
Alberto Morsiani, Segno Cinema n. 49 maggio-giugno 1990 |
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Critica (2): | In tutta la prima parte dei film, Bob e Dianne sono assimilabili a dei Bonnie e Clyde moderni. Insieme a un'altra coppia di drogati, mettono a segno furti con una facilità sconcertante, preparano un altro colpo quando non hanno ancora consumato i frutti dei precedente bottino. Così le loro scorte sembrano inestinguibili e la piccola gang può vivere in uno stato prossimo alla spenseratezza (...)
Dopo una sorprendente sequenza di esequie bucoliche, il tono dei film, che segue sempre la logica dell'eroe, cambia rotta. La coppia Bob/Dianne, per cui la droga è divenuto l'unico legame, deve separarsi. Bob se ne va, con la morte nel cuore. Bravo giocatore, riconosce di aver perso e preferisce spendere le sue ultime carte per rimettersi a posto e apparentemente ci riesce. Con la stessa tenacia, si sottopone al trattamento medico e si adatta alla sua nuova condizione operaia. Convinto di essere definitivamente uscito dal giro, giunge persino a trascurare i segni del destino. Solo che non si può lasciare una partita a metà, come gli ricorderà, insieme a Gentry e Dianne, Tom, un prete tossicomane che ripensa alla Bibbia a colpi di siringhe.
Per la cronaca, precisiamo che la figura emblematica dei padre spirituale è magistralmente interpretata dal pittore e scrittore William S. Burroughs, vero idolo del cineasta Gus Van Sant. Private joke, obietterà qualcuno. Senz'altro, ma anche un omaggio a tutta la cultura degli anni Settanta di cui DrugstoreCowboy offre una ricostruzione sorprendente. (...) Drugstore Cowboy è l'adattamento di un romanzo inedito di James Fogle, imprigionato nel carcere dì Walla Walla per numerosi svaligiamenti di farmacie. Senza essere strettamente autobiografico, gli avvenimenti trattati prendono spunto da un vissuto. Ciò non sarebbe stato sufficiente a farne un buon film se l'arte di Gus Van Sant non fosse riuscita a trasformare questa testimonianza sociologica in una fiction forte e densa, sempre sorprendente.
Philippe Rouyer, Ironie du sort, “Positif” n. 350, aprile 1990 |
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Critica (3): | L'essenziale di Drugstore Cowboy, film del tutto amorale nella sua descrizione dei drogati, consiste nelle sue mini sceneggiature di "rottura": Bob diventa regista di film nel film: organizza l'attacco ai drugstore con impeccabile strategia e innegabile senso ludico. Ispirandosi allo schema Bonnie e Ciyde, il film ci mostra una coppia di teppisti e di loro accoliti, obnubilati come ragazzini davanti a un negozio di giocattoli dal prossimo drugstore da saccheggiare, al punto da non avere più il tempo di esaurire il loro stock di droghe.
Nonostante il film sia onesto e brutale nella sua descrizione puntuale di momenti quotidiani della vita dei personaggi senza fede né legge, la sceneggiatura è abbastanza furba perché la sua conclusione classica riabilita il cineasta dall’amoralità ostentata dall'inizio alla fine: la morte violenta sanziona Bob, questo mascalzone che ci siamo divertiti a guardare mentre provocava la società borghese.
Si pensa a certi film che glorificano l'immoralità e la violenza dei gangster, per poi annientarli alla fine in modo che la morale tradizionale sia salva. Malgrado certi sforzi lodevoli per fare esistere una storia senza trasformarla in gesto eroico, lo schema globale rinnova troppo poco. Come in numerosi film noir, tutta la trama è un lungo flashback che si svolge durante l'agonia dell'eroe. E poi i tic stilistici appesantiscono l'impatto del film con la loro gratuità (...)
Drugstore Cowboy è un piccolo film ludico di stile poliziesco, un po' legato alla moda degli anni Settanta, che non aggiunge nulla a ciò che era già contenuto in Easy Rider, film ben più sperimentale e disturbante sullo stesso trip libertario.
Vincent Ostria, Billy the fix, Cahiers du Cinéma; n. 429, marzo 1990 |
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Critica (4): | |
| Gus Van Sant |
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