Darò un milione
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Regia: | Camerini Mario |
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Cast e credits: |
Soggetto: dal soggetto per film Buoni per un giorno, in “Quadrivio” n. 43, 1934, di Cesare Zavattini e Giaci Mondaini; sceneggiatura: Mario Camerini, I. Perilli, Cesare Zavattini (n.a. Ercole Patti); fotografia: Carlo Montuori, Otello Irtelli; scenografia: Ugo Blasi; musiche: Gian Luca Tocchi; fonico: Giovanni Paris; montaggio: Fernando Tropea; interpreti: Vittorio De Sica (Gold), Assia Noris (Anna), Luigi Almirante (Blim), Mario Gallina (cav. Primerose, direttore del circo), Franco Coop (banditore del circo), Gemma Bolognesi, Cesare Zoppetti (il falso povero milionario), Umberto Sacripante (un povero), Amina Pirani Maggi, Giuseppe Pierozzi, Olinto Cristina, Loris Gizzi (un ricco), Achille Majeroni (uomo che telefona), Emilio Petacci, Erminio D’Olivo, Cesarino Barbetti, Bebi Nucci, Giacomo Almirante, Claudio Ermelli, Fausto Guerzoni, Romolo Costa, Vinicio Sofia; produzione: Novella-film (Libero Solaroli); distribuzione: EIA; origine: Italia, 1935; durata: 79'. |
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Trama: | In vacanza con i maggiori rappresentati della ricca borghesia italiana, un miliardario decide d'un tratto di abbandonare il suo lussuoso panfilo e il costoso tenore della sua vita, stanco dell'ipocrisia che la contraddistingue. Giunto a terra, fa dono dei suoi abiti a un vagabondo per avere i suoi in cambio, finalmente intenzionato a capire cosa abbia in serbo per lui un'esistenza lontana dai benefici della sua posizione sociale. Prima, però, affida al suo nuovo amico un compito: divulgare che avrebbe donato un milione di lire a chiunque, non riconoscendolo, gli avesse offerto un disinteressato aiuto. Diffusa dai giornali, la notizia scatena nella popolazione un improvviso impulso alla filantropia, fino a cambiare le sorti di molti mendicanti. |
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Critica (1): | Un miliardario, stanco della propria sontuosa esistenza, abbandona a nuoto il panfilo sul quale sono i suoi ospiti. Dopo aver scambiato i propri abiti con quelli di uno straccione se ne va a confondersi con la folla, dichiarando al suo improvvisato amico, che regalerà un milione alla persona da cui riceverà, sotto le attuali spoglie, un atto di benevolenza. La notizia, propagata dalla stampa, provoca una gara di carità “pelosa” verso tutti i poveri della città, sotto i cui stracci può celarsi il munifico milionario. Intanto costui intesse un idillio con l’impiegata di un circo equestre, e convintosi dopo alcuni movimentati episodi che la ragazza lo ama sinceramente pur ignorando il suo essere, la conduce con sé sul panfilo. Nel 1935, anno in cui bruciano gli stabilimenti Cines, Camerini vi gira tre film, Darò un milione e altri due che usciranno l’anno dopo, Ma non è una cosa seria, ultimato negli stabilimenti Caesar, e Il grande appello, realizzato ampiamente, supplendo alla mancata espansione industriale della Cines, negli esterni “dal vero” dove si svolgevano le imprese coloniali africane. Sono, il primo e il terzo (il secondo è oggi invisibile), due film che si rapportano esplicitamente con modelli americani, esibendo nel contempo l’arretratezza della propria italianità. Non siamo ancora all’ubriacatura autarchica di Cinecittà, che produrrà davvero un cinema “americano minore”. In Harlem (1943) di Gallone sarà statunitense la stessa ambientazione: non più l’erezione mancata che, da Passaporto rosso (1935, Brignone) all’americanissimo Luciano Serra pilota (1938) di Alessandrini, ripiega sul Sudamerica. Nemmeno l’ambientazione francese di Darò un milione è ancora quella astratta da studio di Batticuore. È piuttosto un’allusione all’Italia, come svela il titolo del giornale “Le courrier du sud-est”: il sudest della Francia è appunto l’Italia. Ed è con questo film che iniziano gli equivoci critici su Camerini “Clair italiano”. Ma di Clair resta soltanto il milione del titolo. Le stesse ambizioni surreali del soggetto zavattiniano rivelano piuttosto modelli americani: il primo soggetto, poveri in auto, si rifaceva al film a episodi If I Had a Million (1932), mentre quello successivo, Buoni per un giorno, si rifà a parecchie situazioni chapliniane; rimane nel film quella del miliardario di City Lights (che ispirerà anche Brecht), ma ne vengono per fortuna omesse altre, come la predica su Davide e Golia di The Pilgrim. C’è poi il modello del cartone animato, che ha avuto uno sviluppo industriale soprattutto negli Stati Uniti. E perché non evocare anche il milione del signor Bonaventura, dalla striscia di Sergio Tofano (semmai è per questa via, attraverso O la borsa o la vita 1933, di Bragaglia, con Tofano nella parte di un miliardario che si crede fallito, che rientrano anche i modelli europei)? Il film rigetterà camerinianamente la bidimensionalità del cartoon, nella sequenza in cui De Sica attribuisce la voce di Assia Noris, che chiama il cane, alla silhouette della grassona dietro il lenzuolo, scoprendosi poi felicemente ingannato. Rimane però soprattutto un modello di genere americano di cui curiosamente nessuno ha parlato: il musical da we are in the money, quello berkeleyano del New Deal. E il fascino del film è nella sua oscillazione tra il livello industriale alto di questo modello e la pratica bassa del circo, nelle cui sequenze si esplicita tutta la povertà profilmica del film. Le girls della coreografia che, metà vestite da poveracci metà da ricconi in frack, si abbracciano e si baciano e ballando in coppie ricco-povero sfondano il grosso bigliettone su cui la scritta a mano “un milione” si sovrappone a quella di “mille francs”, svelano il carattere da we aren’t in the money dell’operazione. Viene in mente ciò che Emilio Cecchi scriverà nel, suo America amara (1940), cogliendo il fenomeno nonostante il distacco da letterato europeo:
“Hollywood insegna come gli americani siano inarrivabili nel neutralizzare anche il corpo femminile; nel torgliergli spirito e fermenti, facendolo diventare di gomma. Si prendano le loro riviste di curiosità e cinematografia. In nessun paese del mondo le riviste illustrate formicolano, come in America, di torsi, di seni, di gambe. Ma sono torsi, gambe, seni, monotoni, uniformati; con approssimazione d’un millesimo di pollice, come i pezzi che vanno al montaggio da Ford. Il corpo umano portato all’astrazione della mass-production; mentre Eros è supremamente concreto e individualista. Posseggo fotografie dell’antica “Cines”, nei giorni che il buon Pittaluga s’ingegnava a crearsi i suoi battaglioni di girls. Gruppi, sfilate di vispe becerine in costume da bagno. Assolutamente impresentabili. Non mica che fossero più brutte delle loro colleghe americane; e non mica che si sforzassero d’apparire provocatrici e indecenti. Tutt’altro, povere figliuole. Ma, diversamente dalle girls di Hollywood e del burlesk, non riuscivano affatto a scorporarsi. Non riuscivano a diventare una cifra. Stanno lì, con quelle ciccine fuori, imbarazzate come coscritti. Il loro sorriso è penoso, come nello scarpino troppo stretto i loro piccoli calli. Sono rimaste vive, sono rimaste vere. Ciascuna è rimasta irriducibilmente se stessa. Questo è il disastro.>
È però il rapporto tra schermo ed esibizione del corpo che nemmeno il livello più alto dell’immaginario hollywoodiano riesce sempre a recuperare senza scollature. Se le coreografie di Busby Berkeley potevano farlo con la totalizzazione scenografica del profilmico, nei musical perfetti di Vincente Minnelli le sequenze in cui i generici guardano sullo sfondo o ai margini dell’inquadratura guardano i protagonisti che ballano portano immediatamente alla scollatura: e, per quanto presi dall’incontro realizzato tra la musica e il corpo di Gene Kelly, vedendo quei generici che accennano a dei commenti tra loro, non possiamo non pensare che altri sonori ci stanno sfuggendo.
L’ingresso di Rizzoli nella produzione cinematografica, con la Novellafilm, sembra contrassegnato dalla sfida capitalistica all’arretratezza del profilmico italiano: se il film precedente, La signora di tutti di Ophüls, la sposta al livello trans-hollywoodiano che caratterizza tutta l’opera di uno dei massimi registi europei, il film di Camerini sembra quasi chiosarlo (si pensi al ruolo del circo in altri film di Ophüls) accettando l’arretratezza dei propri obiettivi. Anche nel dopoguerra, prima di lanciarsi nella produzione col proprio nome, Rizzoli tenterà con la Transoceanic [sic] Film una delirante operazione sul mondo dello spettacolo, La contessa scalza (1954) di Mankiewicz.
Zavattini nell’intervista “storica” in cui recrimina contro il trattamento che il suo soggetto ha subito da parte di Camerini, “salva “ curiosamente Freddi e Rizzoli, che «con liberalità molto moderna accettò il lavoro in blocco, senza discuterne i particolari». C’è da aggiungere che il primo soggetto era stato scritto col figlio di Rizzoli Andrea e che questi a norma di contratto avrebbe dovuto partecipare anche alla sceneggiatura. Rizzoli, che attraverso il figlio sembra allearsi alla vocazione d’autore di Zavattini (il quale in quegli anni medita semiseriamente di costituire gli Umoristi Associati), trova però probabilmente affinità più profonde col sereno lavoro di gruppo di Camerini e degli altri sceneggiatori. E se il finale a cui voleva arrivare Zavattini è già quello di Miracolo a Milano (o di Totò il buono: curiosamente anche qui il, protagonista doveva essere Totò), dei poveri che si perdono in cielo, il finale cameriniano, coi poveri che si scatenano nel luna park, rimane nella linea delle fascinazioni visive, meccaniche e luminose, del film. È interessante che un tale progetto industriale di fuga dall’arretratezza profilmica riunisca, in parti anche minime, gran parte dei caratteristi, del cinema italiano di allora; compreso quell’Umberto Sacripante che fu nella vita organizzatore sindacale degli attori e sullo schermo incarnò tutti i possibili emarginati. Che il film non respinga populisticamente la ricchezza (anche quella dell’immaginario) ma si sforzi appena di raggiungerla, lo testimonia già l’inizio: il povero e il miliardario (che si chiama Gold) si ritrovano in mare dopo aver tentato contemporaneamente, non si sa con quanta convinzione, il suicidio. Ma il miliardario compie il gesto di fronte al controcampo più fascinatorio del film, un totale distante delle luci della città con la ruota del luna park sdoppiantesi nella parte inferiore dello schermo, dove la parte superiore si specchia nell’acqua. Non si capisce se De Sica non sopportasse soprattutto la distanza dall’oggetto del proprio sguardo. Il seguito del film offre uno scatenamento rizzol-cameriniano di mass-media, da quello “fascista” della radio (da cui più tardi uno speaker con l’enfasi nota all’epoca dice: «non notizie vaghe... ma una e precisa: il mistero perdura») alla falsificazione più “americana” della stampa. Quando il povero racconta che il miliardario si è detto disposto a dare un milione a chiunque si dimostrasse capace di un’azione disinteressata, il direttore del giornale pensa subito a uno scoop, correggendo il cauto, titolo «Darei un milione a chiunque facesse un gesto generoso e spontaneo verso di me» con dei perentori “darò” e “farà”; poi, rivolgendosi al povero (e ricordandoci La signora di tutti): «In questo momento la sua immagine in milioni di copie va in giro per la città». Ed è il giornale, con la pratica di montaggio del menabò, non la radio, troppo scopertamente di “regime” (la sua voce è in ogni momento una sola, e Camerini non può immaginarne né l’arroventamento wellesiano dell’uso hitleriano né le più recenti frantumazioni sonore), a realizzare l’incontro tra falsificazione e realtà. Il curatore dei necrologi è sempre triste come si addice al suo ruolo. E mentre la radio può al massimo farsi applaudire mondanamente all’inizio dal salotto aristocratico (sbagliando nell’annunciare che Gold sta salpando), la notizia gonfiata del giornale produce comportamenti. Mercifica anche il sesso, come nella breve sequenza in cui una bella signora si avvicina a un povero facendogli cenno di seguirla (nel momento in cui tutti si danno alla bontà sperando di trovare il miliardario camuffato da povero), dopo essersi aggiustata una calza scoprendosi le gambe. Invece la dimensione arretrata del circo, che il direttore cerca di trasformare in lotteria, concede fughe al dominio dello sguardo: Assia Noris accetta di esibirsi per tutti poco vestita, sostituendo l’anziana artista infortunatasi (tipico espediente da film sullo spettacolo), ma non vuole che lui, De Sica, la guardi, come già non l’ha voluto quando la gonna, impigliatasi in uno spino, le lasciava la coscia scoperta. Ma, la messinscena del circo non svela l’identità del miliardario. Blim, il povero che l’aveva conosciuto, finge di riconoscerlo in uno degli spettatori realmente poveri: questi sviene e anche più tardi, in un inserto camerinianamente breve, viene ancora trattato come miliardario nella speranza che lo sia veramente, mentre si sviluppa verso il lieto fine la storia d’amore. De Sica vede in mare il suo yacht e dice davanti alla Noris, appunto: «il mio yacht», ricomponendo la fascinazione visiva dello yacht illuminato col sonoro dell’ambiguo jeu desichiano: all’inizio il tuffo in mare era preceduto dalla scissione (anche in due inquadrature distinte) tra la fascinazione visiva delle luci della città e la sirena dello yacht, mediate dall’inquadratura di De Sica, silenzioso e diviso nello sguardo tra la fonte luminosa e quella sonora. Ora la Noris non sa ancora che egli è il miliardario, e con gesto disinteressato paga per lui alla bancarella del tiro a segno, dandogli in più altri dieci franchi. Egli la porta sullo yacht e lei capisce chi è. De Sica le dà l’anello e dice «comincio a credere che valga qualche cosa»; si abbracciano. Il film finisce con i poveri e la macchina dà presa scatenati sulle montagne russe.
Sergio Grmek Germani, Mario Camerini, Il Castoro Cinema, 1980 |
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Critica (2): | |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
| Mario Camerini |
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