Fanny e Alexander - Fanny & Alexander
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Regia: | Bergman Ingmar |
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Cast e credits: |
Soggetto: Ingmar Bergman; sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Sven Nykvist; musiche: Marianne Jacobs, Daniel Bell, Frans Helmerson, Robert Schumann, Benjamin Britten; "Marcia funebre" e "Notturno" di Frédéric Chopin; montaggio: Sylvia Ingemarsson; scenografia: Susanne Lingheim, Anna Asp; costumi: Marik Vos-Lundh (Marik Vos); effetti: Bengt Lundgren; interpreti: Pernilla Allwin (Fanny Ekdhal), Bertil Guve (Alexander Ekdhal), Ewa Fröling (Emilie Ekdahl), Gunn Wållgren (Helena Ekdahl), Jan Malmsjö (Vescovo Vergerus), Pernilla August (Maj), Jarl Kulle (Gustav Adolf Ekdahl), Erland Josephson (Isak Jacobi), Gunnar Björnstrand (Filip Landahl), Allan Edwall (Oscar Ekdahl), Siv Ericks (Alida), Angelica Wallgren (Eva), Kristina Adolphson (Sir), Börje Ahlstedt (Carl Ekdahl), Inga Ålenius (Lisen), Harriet Andersson (Justina), Kristian Almgren (Putte Ekdahl), Emelie Werkö (Jenny Ekdahl); produzione: Cinematograph Ab- Personafilm-Tobis Filmkunst-Tvi-Svenska Filminstitutet-Sandrews-Svt Drama-Opera Film Produzione-Gaumont International; distribuzione: Cineteca dell’Aquila; origine: Svezia-Francia- Germania, 1982; durata: 188’. Vietato 14 |
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Trama: | Sera di Natale (1907) nella sontuosa dimora della famiglia Ekdhal, in una città di provincia in Svezia. Su figli, nuore e nipoti regna Elena, ex attrice, donna autoritaria ma amabile, contornata dai figli Oscar (attore, con la bella moglie Emilie, già attrice essa stessa), Gustaf Adolf (amministratore del teatro), marito focoso e superficiale di Alma, donna giuliva e tollerante, e Carl (frustrato, lamentoso e perennemente indebitato, coniugato a una tedesca). Sono figli di Oscar e di Emilie i due decenni Fanny ed Alexander. La famiglia è in seguito funestata dalla repentina morte di Oscar, che avviene dopo una recita di Amleto: tutti sono toccati dall'evento, Emilie ne è profondamente colpita e i due bambini, Alexander soprattutto, percepiranno la morte del loro affettuoso e sensibile padre come un qualcosa che lacera per sempre la loro infanzia medesima. Oscar molto spesso sarà visto in sogno e "rivisitato" da Alex come un bianco fantasma che si aggira tra i velluti e damaschi della ricca dimora: un fantasma che è un dolce e silente protettore. Ma la vedovanza non dura a lungo: i due ragazzi vengono presentati al vescovo Edward Vergerus, uomo maturo, estremamente rigorista e formale e di costumi spartani. Essi lo detestano, ma sono ovviamente obbligati a seguire la madre che lo ha sposato, lasciando la nonna, la loro bella casa e perfino i giochi, per condurre in un gelido vescovado una esistenza arida e intristita disciplinata da leggi rigidissime e in un ambiente pressochè spoglio, che è dominato dalla spigolosità della madre e della sorella di Vergerus. Ogni mancanza pur minima è freddamente valutata e punita. Un vecchio amico di Elena (amico, ma anche suo ex innamorato), l'antiquario ebreo Jack Jacobi (che già era presente alla festa di Natale e che tutti considerano da tempo come di famiglia) impietosito della sorte dei due fratellini, organizza personalmente il ratto di essi dal vescovado, con il pretesto dell'acquisto di un antico cassone situato nell'ingresso, dove i bambini vengono nascosti, per essere poi ospitati nel negozio, zeppo di cianfrusaglie, statue misteriose e mille oggetti interessanti... |
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Critica (1): | “EI.BLOT.TIL.LYST” (Non solo per la gioia) - “Tutto può accadere, tutto é possibile e verosimile. /I tempo e lo spazio non esistono. Su una vacillante base di realtà, l'immaginazione fila e tesse nuove trame”.
Così inizia, così finisce Fanny e Alexander. Con un motto inciso sul frontespizio della baracca delle marionette azionate da Alexander, messo in evidenza nella prima inquadratura dei film (in lingua norvegese, non in svedese) e con la frase di Strindberg letta da Helena, la matriarca della famiglia Ekdahl, dal copione di Il sogno, apparso da qualche anno (siamo nel 1908).
La gioia, non solo la gioia (dunque il dolore), il sogno ad occhi aperti del ragazzino che lascia libero corso alla sua fantasia, il potere dei l'immaginazione e la possibilità per l'uomo di vincere il destino e costruirsi un mondo proprio, retto dalla volontà e dal potere dei suo pensiero.
C'è già qui – o almeno così pare, ma c'è dell'altro – tutto il senso dell'ultima fatica bergmaniana, ultima anche in senso proprio e non solo cronologico, stando a quanto più volte dichiarato dal regista, che a 65 anni dice di non voler competere con le nuove generazioni e di non essere in grado di adattarsi alle nuove tecniche espressive che assediano il cinema da ogni parte (salvo poi sottoscrivere impegni per lavori televisivi). (...) Film imbarazzante, come al solito. Tra l'altro un kolossal da 6 miliardi e 800 milioni che ha appesantito notevolmente il bilancio dell'istituto cinematografico statale svedese; mancando quasi completamente – in Svezia – gli investimenti privati, il “Filminstitutet” si è visto minacciato di paralisi. Poi comunque sono intervenuti dei produttori stranieri facendo rientrare le polemiche: dopo l'uscita dei film tutti i critici svedesi inneggiavano al capo d'opera.
Imbarazzante, Fanny e Alexander, soprattutto per i dubbi sulla sua “utilità” nel contesto dei cinema contemporaneo. Non serve qui definirlo “bello”, gridare al capolavoro, tacciarlo di rimasticatura gigante, demolirlo come opera senile (lo stesso autore ha messo le mani avanti, quando fa dire al personaggio “simpatico”, Gustav Adolf: “La mia saggezza è semplice, e certamente ci sarà gente che ne ride o la disprezza: che vada pure al diavolo... prendetela come vi pare, magari come il balbettio farneticante di un vecchio, non me ne importa niente”). Indubbiamente si tratta di una pellicola bella da vedere, ricca di preziosità fotografiche e coloristiche, ineccepibile nella resa ambientale, ottimamente interpretata. È vero che è un arazzo, una “immensa tappezzeria ricoperta di immagini”, come ha detto Bergman; ma su questo arazzo vengono ricamati messaggi che possono dar fastidio a molti: relativi, per ridurli a soldoni, all'accettazione delle cose perché tanto non si possono cambiare, all'indulgenza verso i nostri simili, al recupero della fantasia, all'arte come consolazione.
È la filosofia dei “mondo piccolo”, definizione che ricorre sia nel discorso dei direttore del teatro ai suoi comici, sia in quello finale, conciliativo, di Gustav Adolf; poichè “il mondo è una tana di ladroni, e la notte sta per calare”, godiamo di quella gioia che la vita riesce a darci, quando ce la dà, e costruiamoci un nostro rifugio confortevole che ci serva da riparo contro gli assalti dei “cani impazziti” che hanno strappato le catene e vagano per il mondo a contaminare tutto quello con cui vengono a contatto.
Tutte cose o ovvie o discutibili. Bisogna tener conto dei fatto, credo, che Bergman ha voluto intenzionalmente rifarsi alle sue opere precedenti, modificando poi la sua visione delle cose in un atteggiamento di una certa, almeno apparente, serenità, e salutando al passaggio autori e concenzioni che gli sono cari. (...)
“Ho voluto solo raccontare una storia” ha dichiarato Bergman. Però ha anche detto che il film è “una dichiarazione di amore per la vita”. Una risposta a chi lo rimproverava di fare pellicole serie, tristi e deprimenti. Dunque un film tutto nuovo, tutto diverso da quei quaranta film venuti prima?
Non direi. Prenderlo per un ilare messaggio basato sul “volemose bene”, sull'esaltazione della buona tavola e dei piaceri della carne relegando in soffitta i bau-bau (naturali e soprannaturali) mi sembra un grosso abbaglio. (...)
La vena più autentica di Fanny e Alexander è la melanconia, che è una disperazione tranquilla, ma sempre uno stato di tristezza, accompagnato spesso dall'ansia (e ciò anche se Bergman fa professione di pacificazione patriarcale): tanto più evidente, questa “chiave”, nell'edizione filmica di tre ore, in cui i fatti “drammatici” ci sono tutti e risultano perciò condensati, mentre in quella “lunga” essi risultano diluiti fra parti compiaciute dove domina il piacere della descrizione e della contemplazione.
Non è questione di fatti, dunque, ma di atteggiamento, non di “messaggi” e di nuovi approdi bergmaniani, ma di sfumature. Fanny e Alexander è un film di sottigliezze, ed è qui il suo interesse primario, qui sono le sue cose più belle, dentro il gran racconto opulento dalla struttura di kolossal familiare, che può anche apparire sussiegosamente estetizzante.
Già subito all'inizio, per esempio, vediamo Alexander nascondersi sotto il tavolo, nella grande casa vuota, timoroso non della gente, che non c'è, ma di qualcosa che aleggia intorno. Spesso Alexander espliciterà la sua paura: quando si rintana in un angolo per non avvicinarsi al padre morente, quando strappa a forza la mano da quella di quest'ultimo, quando snocciola parolacce al funerale per non cedere allo sconforto, quando respinge l'amore dei padre, quando piange perché sente “la voce di Dio”, quando gli appare il fantasma del padrino, di cui Alexander non potrà più liberarsi (“lieto fine”, ma con lo spettro appollaiato sulla spalla).
Ancora all'inizio, nell'euforia dei lieti preparativi per la festa natalizia, nonna Helena sospende inspiegabilmente la sua attività e si incupisce senza motivo apparente. Oscar, il padre dei ragazzi, pronuncia il suo discorso agli attori con evidente pena, e non si tratta solo della sua stanchezza o dei sintomi dei suo male: è questa sofferenza a far riflettere sull'apparente banalità dei confronto tra il “mondo piccolo” dei teatro, fatto “di disciplina, coscienza, ordine e amore”, e il mondo di fuori, riflesso sulle tavole dei palcoscenico.
Spesso le situazioni più scoperte, più apparentemente serene, vibrano di angosce nascoste o improvvise, inquietanti: come nello schiaffo dato da Alma, la moglie tollerante, alla “rivale” Maj quando i bambini vengono messi a letto, schiaffo che viene ad inserirsi come un lampo sinistro tra i gesti di affettuosità che la signora, senza alcuna ipocrisia, riserba alla ragazza. Lo stesso amore di cui quest'ultima è oggetto da parte di Gustav Adolf, il godereccio, è un amore inquinato, paternalistico, possessivo, che la fa piangere e la spinge a ribellarsi alla tutela insieme alla figlia di lui; e già prima un altro risvolto drammatico suggella la sequenza festosa dell'amore tra i due, quando Gustav Adolf fa crollare il letto per il suo impeto d'amante ma poi si risente perché gli sembra che Maj si prenda gioco di lui (e invece non capisce niente di lei, di questo delizioso e tenero personaggio).
L'amore, questo amore tanto conclamato nel film, è contorto e tragico nel caso della coppia Carl - Lydia, l'intellettuale frustrato e la moglie che gli fa pena e rabbia, e naturalmente in quello della coppia Emilie - vescovo Vergerus. Dietro quest'ultimo rapporto ci sono il fantasma della prima moglie, annegata con le figlie, ed una mentalità che comprime I' angoscia nella gelida compostezza dei comportamento e dell'arida abitazione espiscopale, percorsa dalle ombre oscure di parenti e cameriere decisamente lugubri. Macabri sono poi il particolare dei seppellimento delle tre annegate (“hanno dovuto segare le braccia per staccarle le une dalle altre e comporle nelle bare”) e l'inserto di Vergerus bruciato a metà. E prima c'è la significativa inquadratura dei catafalco su cui giace Oscar, il primo marito, visto attraverso l'apertura della porta scorrevole che divide il quadro in una simmetria perfetta sia per lo spazio che per il rapporto luce ombra, in cui le grida ferine di Emilie, la vedova, lacerano la raffinata composizione.
L'inizio è retto dalla straziante dolcezza del Quintetto in mi bemolle con pianoforte di Schumann. Ma più avanti, e cioè a partire dall'inquadratura della bambola rotta e rovesciata nel greto dei fiume, sotto la pioggia, dopo il trasferimento di Emilie e dei ragazzi al vescovado (più tardi, in quello scorrere rabbioso di acque che segna il passare dei tempo, farà oscena mostra di sé la carogna di un animale), più avanti, si diceva, a Schumann si sostituiscono alcuni passi di Suites per violoncello solo di Britten, che sono come sospesi sull'orlo di abissi inesplorati; cui si alternano tocchi sinistri, poche note sparse, dei pianoforte, sempre con un effetto angoscioso che ci riporta alle atmosfere sonore della trilogia dei film da camera (Come in uno specchio - Luci d'inverno - Il silenzio) ed di Persona.
L'umiliazione è un'altra costante dei film: quella di Alexander da parte dei vescovo, quella di Lydia da parte di Carl, quella di Isak Jacobi da parte ancora dei vescovo; ma neppure i personaggi “positivi” sono esenti da colpe. In fondo il film è una storia di fallimenti e di errori; e tanti ne compiono Emilie nei riguardi dei figli e Gustav Adolf nei riguardi della sua famiglia. E poi rileggiamo la tirata di quest'ultimo alla festa di battesimo finale, e vi troveremo accenti non esattamente giubilanti, nell'esortazione al dovere di essere felici, quando si è felici, che sembra un invito ad afferrarsi ad una tavola galleggiante in un mare in tempesta.
Tutto considerato Fanny e Alexander ci appare una “summa” in cui Bergman si compiace di raffigurarsi in tutti i personaggi, ma una “summa” fatta più di una colonna di addendi che di un risultato perentorio e definitivo. Se pensiamo per es. a tutto quanto riguarda i temi veterobergmaniani come l'animismo, il misticismo, i concetti di Dio e così via ci accorgiamo che siamo ancora e sempre allo stesso punto, cioè sempre nel bel mezzo delle sabbie mobili.
Diciamo che dopo tante sonate, quartetti, concerti da camera, siamo giunti alla sinfonia per grande orchestra (ora sì sinfonia, non come quella d'autunno che era diventata tale solo per volere dei distributori italiani). E forse la chiave giusta per considerare questo film è prenderlo come una grande metafora dei teatro, dei cinema, dello spettacolo in genere. Qui l'amore si esplica davvero senza riserve, sia che si mettano in scena i quadri plastici di un presepe popolare sia che si progetti Strindberg, sia che si esegua la marcetta da circo che il Beethoven della marcia funebre; e il teatro in muratura, la baracca di legno delle marionette, la meraviglia tecnica della lanterna magica hanno la stessa dignità e la stessa funzione. Anche nella cialtroneria, la gente di spettacolo è amata (“Mi piacciono soprattutto le persone che lavorano in questo mondo”): vedi la sequenza a nostro parere più bella dei film, quella in cui Oscar, che si è sentito male, in teatro, viene portato a casa su una carretta, ancora cinto nella sua armatura di latta, e attorno si agitano attori mezzo “in borghese” mezzo in costume, con ridicole spade legate alla cintura. Ma pieni di autentica ansia, vibranti di pena vera.
Non si poteva rendere meglio - con un omaggio alla miseria e nobiltà del teatro, con un richiamo alla commedia dell'arte e a Molière - il rapporto tra realtà e finzione, teatro e vita, vita e morte.
Ermanno Comuzio, Cineforum n. 231, 1-2/1984 |
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Critica (2): | Fanny e Alexander, altro capolavoro di questo periodo e a ben vedere il film degli ultimi addii di Bergman al suo cinema, è lontano mille miglia dalle sfide formali del precedente. Intanto è l'opera più ambiziosa e più dispendiosa mai realizzata dal cineasta (sei milioni di dollari, una sessantina di attori, un migliaio di comparse), a tutti gli effetti un'opera cinematografica, l'ultima il cui finanziamento deriva da una coproduzione internazionale con sponsor principale l'Istituto svedese del cinema. Questo costo riflette il fatto che due versioni, una per la televisione e l'altra per il cinema, siano state previste fin dall'inizio. Con il risultato che, come era già avvenuto per Scene da un matrimonio, pochi spettatori vedranno, fuori dalla Svezia, la versione integrale di Fanny e Alexander diffusa dalla televisione svedese (340 minuti), l'unica valida secondo Bergman al punto che egli considerava l'adattamento cinematografico (188 minuti), in cui le scene tagliate sono vere mutilazioni, un mero ripiego.Quello che inoltre accomuna Fanny e Alexander e Scene da un matrimonio è di essere una sorta digeniale ripresa dei principali motivi che nutrono l'opera del cineasta, ma spinta all'estremo, come mai prima di allora. Bergman concede semplicemente (e finalmente) a se stesso non solo di celebrare la vita – obiettivo che sottende, anche se segretamente e dolorosamente, tutti i suoi film – ma anche di farlo, per così dire, a viso aperto. Questa ammissione è appositamente formulata in un passo delle note preparatorie al film, citata nel libro intitolato Immagini, in cui scrive: "Voglio finalmente rappresentare quella gioia che io, nonostante tutto, porto con me, e a cui tanto di rado e tanto debolmente do vita nel mio lavoro. Descrivere l'energia, la vitalità, la bontà. Non sarebbe poi così male, per una volta"." Racconto di una iniziazione alla vita ambientata all'inizio del XX secolo in seno a una grande e pittoresca famiglia borghese capeggiata da una tenera matriarca, il film evoca l'ingresso nella vita di un fratello e una sorella, Alexander e Fanny, lui giovane adolescente, lei ancora bambina. La morte del padre, direttore di teatro, spinge la madre a sposare un pastore protestante e ad allontanarsi dal tiepido nido familiare. La donna, pensando di trovare nell'austero focolare del ministro del culto un'oasi di pace e un percorso di verità, deve in realtà confrontarsi, insieme ai figli, con la perversità e la crudeltà di una famiglia devota a un culto traviato, in un'atmosfera di mortificazione e penitenza. I due giovani vengono sottratti alle sevizie inflitte loro dal pastore grazie all'intervento del vecchio usuraio ebreo Jacobi, amico della loro nonna, che li riporta nella grande casa di famiglia, in cui regna una umanità che sfida la presenza del male sconfiggendone l'esistenza grazie alla celebrazione rinnovata dell'illusione, della fantasia, dell'amore e della generosità.
La descrizione a parole di questo splendido film non rende affatto giustizia della sua bellezza né della ricchezza dei suoi contenuti. Bergman avvicina e vi fa coesistere alcuni giganti della letteratura (Hoffmann, Dickens, Strindberg, Ibsen, Shakespeare) insieme ai suoi ricordi d'infanzia e alle reminiscenze del suo cinema, fonde in un sapiente gioco di specchi il teatro e il cinema, raffronta arte e religione, si fa strada fra classicismo e modernità: in altre parole, riuscendoci su tutti piani, egli dà una straordinaria lezione di virtuosismo e di libertà. Ma il fascino irresistibile esercitato da questa pellicola scaturisce, in buona sostanza, da due caratteristiche. La prima attiene all'architettura drammatica e consiste nel modo particolarmente sottile di ritrarre i caratteri (lo zio petomane e quello erotomane, la domestica prosperosa, il pastore diabolico, i bambini innocenti...) e le tematiche (il bene contro il male, la gioia contro la severità), deliberatamente semplificate da un processo di "decantazione" che le rivela in tutta la loro complessità. La seconda è di ordine morale ebasterebbe, qualora se ne sentisse il bisogno, a definire lo spirito dell'arte di Bergman: la lotta incessante contro ogni presunzione di purezza, l'affermazione dell'imperfezione come segno elettivo dell'umanità.Visto da questa angolatura e con tutte le riserve sul sostrato bergmaniano (il dramma della filiazione, la realtà familiare, la presenza reale di fantasmi), Fanny e Alexander potrebbe quasi passare per una sorta di variazione segreta di To Be or Not to Be, una commedia di Ernst Lubitsch (1942) che oppone una truppa teatrale polacca ai nazisti durante l'occupazione tedesca. Le due opere si rifanno all'Amleto di Shakespeare: entrambe condividono lo stesso elogio e la stessa vertigine della rappresentazione, la stessa stigmatizzazione del totalitarismo e della sconcezza antisemita, la stessa evocazione alla Shylock dell'umiliazione e della vendetta ebraiche, lo stesso gusto carnevalesco per il ribaltamento delle apparenze. Una delle sequenze più impressionanti e misteriose di Fanny e Alexander – il salvataggio dei due ragazzi per mano di Jacobi – mette soprattutto in scena questo elogio dell'impurità, facendo interagire l'uno contro l'altro, e in modo assai provocatorio, personaggi che incarnano ciascuno la verità esclusiva dei tre grandi monoteismi. Al dio impersonato nel sacrificio del pastore Vergerus risponde così, in un primo tempo, la marionetta di un dio grottesco e tremulo che Aaron, nipote di Jacobi, utilizza nella bottega dello zio per spaventare Alexander. Ma questa risposta ebraica (Dio salva l'uomo con la sua azione) al dio cristiano (Dio salva l'uomo tramite la sua rivelazione) verrà a sua volta inficiata da Ismaël, il secondo nipote di Jacobi, tenuto accuratamente rinchiuso in ragione dei suoi poteri da sensitivo che, di fatto, vendicherà Alexander a distanza, provocando la morte del pastore nell'incendio della sua casa. Interpretato da una donna, il personaggio di Ismaël incarna l'altro ebreo, che tramite la voce del profeta afferma la presenza efficace di Dio nella Storia. Quanto alla religione personale di Bergman in tutta questa faccenda, la si legge volentieri, ma non necessariamente, nel discorso finale dello zio Gustav-Adolf, infinitamente più triviale ma non per questo meno eroico: pensare che vivere sia un mestiere che ogni uomo deve praticare al meglio, per non dire il meno male possibile. Questo quadro della famiglia Ekdahl nuovamente riunita, arricchita da qualche altro fantasma e bastardo, sarebbe davvero idilliaco se non fosse minacciato dall'imminente prima guerra mondiale, in altre parole, dalla fine di quel mondo che il film ha così tanto liricamente celebrato.
Jacques Mandelbaum, Ingmar Bergman, Cahiers du Cinèma, 2011. |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
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