Narciso nero - Black Narcissus
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Regia: | Powell Michael, Pressburger Emeric |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Michael Powell, Emeric Pressburger (dal romanzo omonimo di Rumer Godden); fotografia (colore): Jack Cardiff; operatore: Ted Scaife; costumi: Henri Heckroth; scenografia: Alfred Junge; musica: Brían Easdale; suono: Stanley Lambourne; montaggio: Reginald Mills; interpreti: Deborah Kerr (suor Clodagh), David Farrar (il signor Dean), Flora Robson (suor Philippa), Kathleen Byron (suor Ruth), Jenny Laird (suor Honey), Judith Furse (suor Briony), Sabu (il giovane generale), Esmond Knight (il vecchio generale), May Hallatt (Angu Ayah), Sbaun Noble (Con), Eddie Whaley (Joseph Anthony), Nancy Roberts (madre Dorothea), Jean Simmons (Kanchi); produttore associato: George R. Busby; produzione: Michael Powell, Emeríc Pressburger per The Archers; origine: Gran Bretagna, 1947; durata: 100’. |
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Trama: | Cinque suore inglesi allestiscono in una regione sperduta dell’Himalaya una scuola e un ospedale. Nonostante l’appoggio del signore locale e l’aiuto dell’agente britannico, la loro non è una esperienza semplice. Presto compaiono gravi difficoltà di adattamento, si manifestano nevrosi e tensioni all’interno del gruppo. Suor Ruth, ossessionata dall’atmosfera sensuale del luogo, getta la tonaca e in un impeto di follia aggredisce la madre superiore. |
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Critica (1): | I volti nuovi si son fatti tanto rari a Hollywood (e non soltanto a Hollywood, purtroppo...) che non sarà male alzare la più alta orifiamma del nostro pennone privato in onore dell’inglese (altri dice ebrea tedesca) Deborah Kerr, rivelatasi attrice originale e completa nel film del curioso Pressburger che si chiama Narciso nero. Che il film sia inglese non lo dice soltanto l’accuratezza dei particolari e del technicolor, né il prestigioso tara tam iniziale del producer Arthur Rank; ma la conoscenza di prima mano dell’India misteriosa e lontana. Un convento di suore cattoliche sul “tetto del mondo”; una religione relativamente giovane in lotta con credenze antichissime; delicati nervi di donne che hanno un “passato”, costretti a subire una tensione continua, senza soste, in un mondo traslucido, corso da venti perenni... Come meravigliarsi che le “serve di Maria” si riducano alla pretesa base, fiaccate e punite? Narciso nero è un racconto che avvince; ma più che dalla vicenda si è presi da quell’aria incantata. I ricordi di antiche letture sorgono spontanei e precisi. Ecco, in Kipling, il lama Teseo che conduce alla santità della montagna l’inquieto, occidentale discepolo Kim; ecco, nei Libri della giungla, il prototipo del santone che in Narciso nero contempla immobile il paesaggio. I registi di Narciso nero avevano senza dubbio presente il ricordo di Kipling: anche questo contemplativo ha sangue di re nelle vene; anche questo mistico straccione conosce tre lingue europee e ha lasciato nel mondo dignità, potenza, ricchezza.
Narciso nero ha suscitato furibonde polemiche negli Stati Uniti perché giudicato irriverente nei riguardi della cattolicità. A noi questa irriverenza non è apparsa; si tratta, se mai, di una giusta autonomia di ispirazione, che prende il suo bene dove lo trova. Ad ogni modo il fatto che questo film giri liberamente nella terra che ospita il Papa e dove è al comando un governo cattolico, ci sembra un’ottima dimostrazione di un liberalismo culturale che non può che far onore al giovane onorevole Andreotti, accusato proprio in questi giorni (non possiamo dire se a torto o a ragione) di “oscurantismo” e peggio nei riguardi delle cose del cinema.
Pietro Bianchi, Candido, 11/01/1948 |
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Critica (2): | India. Un gruppo di suore cattoliche di un monastero di Calcutta, capeggiato da suor Clodagh, viene inviato a fondare un centro missionario in un altopiano isolato sulle montagne del Tibet, nei pressi dell’Himalaya. Giunte sul posto, le monache costruiscono con fervido zelo una scuola e un dispensario medico, sforzandosi di conquistare l’animo scettico della popolazione. Sembrano riuscirci, grazie anche all’aiuto di Dean, rappresentante del governo inglese e mediatore, e all’appoggio disinteressato del giovane Dilip Rai, esponente della nobiltà locale, ansioso di migliorare la propria istruzione con l’insegnamento degli occidentali. Ma a poco a poco il clima sfavorevole (un forte vento flagella di continuo l’altura), l’ostilità naturale degli indigeni (i quali abbandonano in massa la comunità in seguito alla morte di una bimba ammalata che essi credono vittima di un sortilegio) e la sinistra presenza del peccato (il castello disabitato in cui ha sede la missione era stato un tempo l’harem del defunto principe della regione) influiscono sulla resistenza fisica e morale delle religiose, insinuando in esse dubbi e rimpianti e condizionandole a tal punto che una di loro, la giovane e bella novizia suor Ruth, impazzisce e muore accidentalmente, fuggendo dopo aver tentato di uccidere la madre superiora. Sconvolte dalla tragedia e ormai consapevoli del fallimento della loro missione, le suore sono costrette a chiudere il centro e a tornare a Calcutta.
Singolare impresa – dramma o a sfondo esotico – che mescola una tematica religiosa imperniata maliziosamente sulle pulsioni inconsce (una via di mezzo, assai inglese, fra S. Freud e D. H. Lawrence), e una sperimentazione tecnica fra le più ardite allora immaginabili (il Technicolor o non aveva alcuna duttilità e costringeva l’eccellente operatore – poi regista – Jack Cardiff a lavorare con m.d.p. enormi, in condizioni proibitive e gli faceva guadagnare un Oscar speciale per la fotografia a colori). Singolare e riuscita impresa grazie all’apporto di un gruppo di attrici solidali, suore inquiete per l’occasione (Deborah Kerr, Flora Robson, Kathleen Byron), di una musica “insinuante” come si conveniva al soggetto esotico e “perverso”, di una costruzione drammatica (la sceneggiatura è degli stessi registi), e solida quanto bastava. Se lo scopo era quello di comunicare, attraverso la fusione di colori e di suoni, la suggestione angosciosa di un’atmosfera che le monache temono e invocano, non si può non dire che il risultato sia conforme alle promesse. Ma si deve aggiungere che la ricerca di Powell e Pressburger o (la densità dei toni, la presenza ossessiva dei neri, la morbidezza delle sfumature sui volti, quasi a contrasto con l’ambiente di pochi esterni e di molti interni – come si dice – soffocanti) ha un valore a sé, costituendo una tappa fra le più importanti – un’altra è l’Henry V (Enrico V, 1944) di Laurence Olivier, inglese anch’essa – nella storia, allora appena iniziata, del cinema a colori. Fu una lezione che cadde nel vuoto, o quasi: passeranno anni prima che altri registi trovino il coraggio di affrontare esperienze cromatiche che siano qualcosa di più di imitazioni della grande (o piccola) pittura.
Guido Di Falco, Nuovo Dizionario Universale del cinema a cura di Fernaldo Di Giammatteo, Editori Riuniti |
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Critica (3): | In Narciso nero, del 1947, c’è lo stesso tipo di battaglia (si fa riferimento a I Know where I’m Going n.d.r) tra Natura e Civiltà, tra spontaneità e ammaestramento (in questo caso, di carattere religioso). La storia è ambientata in India; ma Powell, per non smentire il suo ruolo di Genio Perverso del cinema inglese, decide di girare tutto il film in studio. Il risultato rende giustizia a questa decisione. La storia, la cui intensità sarebbe stata irrimediabilmente indebolita da inserti di documentarismo esotico, si arricchisce di un’atmosfera claustrofobica e soffocante; un’atmosfera che è in perfetta sintonia con questo racconto di suore inglesi che, rinchiuse in un convento himalayano, cercano di allontanare tentazioni di ogni genere: tra le altre, l’esotismo indiano (Sabu nella parte di uno splendente principe nepalese), la perdita della fede religiosa (Kathleen Byron nella parte della suora tormentata) e il Sesso (David Farrar nella parte del funzionario inglese, che eccitai cuori femminili recandosi al convento in pantaloni corti). […] Narciso nero si avvolge nello smagliante mantello dell’espressionismo. Appollaiati su un picco montano quasi impossibile (frutto di un “glass-shot”), il convento e le sue represse abitatrici sembrano vivere in perenne stato di vertigine. La scena diventa una metafora delle oscillazioni della fede religiosa. E, come accade in tutti gli stati allucinatori determinati da inedia, la sovreccitazione alla sola idea del sesso porta costantemente le suore al limite del loro precipizio emotivo. Sorretto dalla fotografia di Jack Cardiff, Narciso nero è il trionfo del pittoricismo cinematografico di Powell. Le composizioni sono inesauribilmente eloquenti, e l’oro, il bruno, il giallo del Technicolor luccicano con un’intensità alla Van Gogh. Lo scontro tematico tra libertà e inibizione nelle storie di Powell e Pressburger trova spesso una eco nello scontro di opposti che caratterizza lo stesso stile di Powell. La Forza Irresistibile dell’istintiva tendenza di Powell verso la fantasia e l’espressionismo si scontra con l’Oggetto Immobile dell’eredità del Realismo Britannico. Proprio da questo confronto nascono la tensione profonda e il potere di fascinazione e disorientamento dei film.
Nigel Andrews, Harlan Kennedy in Powell&Pressburger, BergamoFilmMeeting, 1986 |
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Critica (4): | |
| Michael Powell Emeric Pressburger |
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