Segreti e bugie - Secrets & Lies
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Regia: | Leigh Mike |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Mike Leigh; fotografia: Dick Pope; musiche: Andrew Dickson; montaggio: Jon Gregory; scenografia: Alison Chitty; costumi: Maria Price; effetti: Dave Smith; interpreti: Brenda Blethyn (Cynthia Rose Purley), Timothy Spall (Maurice Purley), Marianne Jean-Baptiste (Hortense Cumberbatch), Claire Rushbrook (Roxanne Purley), Phyllis Logan (Monica Purley), Elizabeth Berrington (Jane), Michele Austin (Dionne), Lee Ross (Paul), Ron Cook (Stuart ), Brian Bovell (fratello di Hortense), Elias Perkins McCook (nipote di Hortense), Claire Perkins (cognata di Hortense), Lesley Manville (assistente sociale), Trevor Laird (fratello di Hortense); produzione: Thin Man Films-Ciby 2000-Channel Four Films; distribuzione: Columbia Tristar Film Italia; origine: Gran Bretagna-Francia, 1996; durata: 137’. |
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Trama: | Alla periferia di Londra vivono due fratelli, Cynthia e Maurice, che non si vedono da parecchio tempo. Cynthia ha con sé la figlia Roxanne e non ha simpatia per Monica, moglie di Maurice. Finalmente questi, che fa il fotografo, rompe gli indugi, va a trovare la sorella e la invita a casa sua per festeggiare tutti insieme il ventunesimo compleanno di Roxanne. Nel frattempo Cynthia viene contattata da Hortense, una ragazza di colore che lavora come ottica e si qualifica come figlia di Cynthia, data in adozione subito dopo la nascita. Le due donne si incontrano e, dopo i primi attimi di smarrimento, cominciano ad uscire insieme ed a ricreare le condizioni per costruire un rapporto affettuoso. Cynthia, felice per questo affetto ritrovato, chiede al fratello di poter portare una persona alla festa di compleanno, facendola passare per collega di lavoro. Arriva il giorno stabilito, e tutti si ritrovano a casa di Maurice e Monica. Dietro l'apparente allegria, in tutti serpeggia molto nervosismo che ad un certo punto inevitabilmente viene fuori. Cynthia rivela che Hortense è sua figlia e, subito dopo, altre rivelazioni seguono tra i parenti presenti intorno al tavolo. Finalmente dalle tante bugie si passa alla verità, e Cynthia può tornare a casa propria, circondata da due figlie che cominciano a conoscersi e a stare insieme. |
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Critica (1): | «Così è la vita», esclama Cynthia felice. Le stanno sedute vicino le figlie ritrovate. La bianca, Roxanne, s'è liberata del suo astio cupo. La nera, Hortense avuta a sedici anni e subito abbandonata, è finalmente "in famiglia". E lei, madre pacificata, se le guarda con dolcezza, trovandole belle come se fossero - dice - «due nanetti di gesso» nel piccolo, patetico giardino della sua casa alla periferia operaia di Londra. Ha, questa conclusione di Segreti e bugie, il vago sapore di narrativa popolare, di televisione seriale che Mike Leigh ha voluto dare a tutto il film. Verrebbe da dire che gli uomini e le donne di cui mostra le storie sono piccoli uomini e piccole donne. Ma si sbaglierebbe, e per due motivi. Intanto, si supporrebbe che davvero gli uomini e le donne si potessero misurare. E poi, nei suoi personaggi Leigh trova e indica una grandezza che nessun metro, sociale o culturale, riuscirebbe mai a contenere. Con la stessa passione di Ken Loach, ma con un sorriso più disteso, Leigh osserva gli uomini e le donne quotidiani, quelli che per lo più il cinema ignora o, peggio, falsifica. Lo si chiamerebbe realismo, questo modo di guardare, se non fosse per quel poco o tanto di presunzione programmatica che l"'ismo" implica. Diciamo allora che il regista inglese usa la macchina da presa come, in Segreti e bugie, Maurice usa la macchina fotografica. Con passione e simpatia, Maurice se ne sta ben al di qua dell'obbiettivo: non sostituisce i suoi occhi a quelli dei soggetti che ne sono al di là. È attento a non violare le loro vite. Per lui sono e restano appunto soggetti, non oggetti. D'altra parte, gli capitano troppo vicine, quelle vite di cui per professione fissa nelle immagini passaggi e sentimenti cruciali: cerimonie, anniversari, legami. Dunque, pur rispettandone gli amori e gli odi, le passioni e le indifferenze, non rinuncia alla "regia". Ossia, non rinuncia a proporre e forse solo a suggerire atteggiamenti dei corpi, sguardi reciproci, sorrisi. L'esperienza professionale, la finezza dell'occhio a lungo esercitata e anche la sensibilità individuale garantiscono l'attendibilità delle proposte e dei suggerimenti. Quei passaggi e quei sentimenti cruciali, in ogni caso, meritano d'esser migliorati e ritoccati con "gusto estetico". E questo non per formalismo o, peggio, per ipocrisia, ma perché, come una fotografia o un film, la vita è anche il risultato d'una forma che le viene imposta, d'una regia consapevole, per quel che è possibile.
Che l'ascoltino o che non l'ascoltino, Maurice finisce sempre con l'accettare la scelta di chi sta dall'altra parte dell'obbiettivo: il suo valore consiste nel fatto che è la loro scelta. Così fa Leigh con i suoi personaggi. Ne descrive le vite, ne fissa sullo schermo i tratti sereni e tristi, generosi e meschini, ma sempre senza sovrapporre il valore del suo punto di vista a quello del loro. Nel film non c'è mai un giudizio su Cynthia, Roxanne, Hortense, Monica o Maurice. E però non c'è nemmeno una rinuncia cinica alla "regia". Solo che, per l'occhio di questa regia appunto, i personaggi non sono oggetti di giudizio, ma soggetti. Tale ibrido felice di rispetto e curiosità vale in Leigh già nel rapporto con gli attori, prima d'iniziare a girare. Da loro s'attende una partecipazione alla "scrittura" dei personaggi che, in Segreti e bugie, ha richiesto un lavoro di conoscenza reciproca durato sei mesi (sembra però che, per ottenere sul volto di Cynthia lo stupore necessario, fino all'ultimo il regista abbia tenuto nascosto alla bravissima Brenda Blethyn che il ruolo di Hortense sarebbe stato affidato a un'attrice di colore). Ma è girando che, soprattutto, Leigh fa come il suo Maurice: rispetto ai personaggi, tiene la macchina da presa sempre a una distanza che sia sufficiente a garantirne l'autonomia e che, insieme, ci consenta però di vederne e sentirne l'umanità. Ne vengono inquadrature per lo più statiche, spesso in campo medio, dentro le quali si muovono più i sentimenti che i corpi. Splendida è quella, frontale e fissa, del riconoscimento di Hortense da parte di Cynthia in un bar, e poi ancora quella del pranzo nel giardino di Maurice, con tutti i personaggi "in relazione" attorno al tavolo, o quella in cui Cynthia abbraccia Monica, chiudendo in un silenzio eloquente l'odio alimentato per anni. Giù in platea, ci pare d'essere con loro, non d'esserne giudici esterni. Mai siamo indotti a prendere le parti di qualcuno contro qualcun altro. Mai siamo coinvolti nella cattiva reciprocità del dolore, nel nodo di segreti e bugie con cui si distruggono la vita. E quando Maurice riesce a spingere la sua "regia fino a scioglierlo, quel nodo, in nome d'una saggezza che suggerisce di condividere il dolore invece di gettarselo addosso, anche a noi sembra, come a Cynthia, che così davvero possa o almeno debba essere la vita.
Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore |
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Critica (2): | Una madre bianca e una figlia nera sono le protagoniste-trovata di Segreti e bugie di Mike Leigh, Palma d'Oro e premio per la migliore attrice all'ultimo festival di Cannes, racconto aspro, amaro ma non disperato dei rapporti in una famiglia contemporanea e delle perenni menzogne domestiche. è un film bello, che condensa le caratteristiche d'una scuola di cinema inglese unica in Europa, rappresentata pure da Ken Loach o Stephen Frears: l'attenzione realistica, l'interesse analitico per la vita quotidiana della gente non ricca né famosa né criminale che soffre e non conta; la narrazione mista di dramma e comicità, emozione e commedia, lo stile documentaristico nutrito e corretto dalla presenza di attori bravissimi; la rinuncia al nichilismo catastrofico, ai finali tragici, alle conclusioni azzeranti, a favore di quel dolente andare avanti raro nello spettacolo ma tipico della realtà. Al centro del film stanno due gran personaggi: un uomo buono, fotografo generoso, protettivo e preoccupato interpretato da Timothy Spall, al quale è affidato il messaggio essenziale, “Non ne posso più, perché non ci diciamo la verità?”; e la sua sorella maggiore recitata benissimo dalla premiata Brenda Blethyn, madre senza marito d'una ragazza aggressiva e scontenta, operaia di fabbrica inconsapevole di sé, confusa, ignorante, bugiarda, querula, ricca di coraggio. All'inizio del film sta una trovata che capovolge i luoghi comuni di etnia, di classe, di generazione: a Londra, oggi, una ragazza nera benestante, brillante, intelligente, elegante e sicura cerca di rintracciare la madre che l'ha abbandonata alla nascita; la trova, scopre con sorpresa che è una povera donna bianca, constata con dolore che la madre accoglie malissimo il riemergere dal passato di questa figlia nera avuta a sedici anni e ripudiata, che neppure riesce a ricordare come possa averla partorita. La trovata è artificiosa, troppo simbolica: ma fra le due donne nasce intesa, amicizia, affetto, e per la bravura del regista la trovata si trasforma in una storia autentica e sottile delle paure e bugie che avvolgono in una rete di segreti i rapporti famigliari, delle verità tradite, delle identità mutilate, delle rimozioni e mistificazioni che uccidono l'amore provocando a volte tragedie. Le immagini di altri personaggi ritratti iperrealisticamente dal fotografo appaiono come un'estensione sociale del tema; la conclusione che vede ricomporsi la famiglia completata dalla ragazza nera non esclude, tra malinconia, elegia e ironia, l'umana speranza di un futuro possibile.
Lietta Tornabuoni, La Stampa, 7/12/1996 |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
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