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Girlfight - Girlfight


Regia:Kusama Karyn

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Karyn Kusama; fotografia: Patrick Cady; montaggio: Plummy Tucker; scenografia: Stephen Beatrice; costumi: Marco Cattoretti; musica: Luca Mosca; interpreti: Michelle Rodriguez (Diana), Jaime Tirelli (Hector), Santiago Douglas (Adrian), Elisa Bocanegra (Marisol), Ray Santiago (Tiny), Alicia Ashley (Ricki Stiles), Paul CalderonS (Sandro), Shannon Walker Williams, Victor Sierra; produttore: Sarah Green, Martha Griffin, Maggie Renzi; produzione: Independent Film Channel Productions Green, Renzi Production; distribuzione: Keyfilms; origine: Usa, 2000; durata: 99'.

Trama:Diana Guzman è un’adolescente di Brooklyn che odia il mondo, e ha buoni motivi. Sua madre è morta, suicida, anni prima, per sfuggire alle botte del padre, Sandro, un perdente. Che per parte sua ha sempre ignorato la figlia-maschiaccio e concentra tutte le sue attenzioni sul fratellino di Diana, Tiny, un aspirante artista. Sandro vuole che Tiny diventi pugile, perché impari a cavarsela nel mondo e riesca ad andarsene dai casermoni popolari del Red Hook Projects, la zona dove vivono. Solo che è Diana, quella che davvero se ne vuole andare. Ed è sempre Diana – che a scuola fa regolarmente a botte con le compagne più false – ad appassionarsi sul serio alla boxe. Comincia ad allenarsi in segreto, con la complicità dell’allenatore panamense Hector, che riconosce in lei un talento naturale. In palestra, Diana conosce anche un ragazzo, Adrian, che all’inizio le sembra diverso dagli altri...

Critica (1):Girlfight è un film sulla scoperta della versione più vera, controllata ma libera, di noi stessi: il romanzo eterno della trasformazione dell’adolescente in uomo/donna attraverso prove e riti, che qui sono quelli, maschili fini ad ora sul grande schermo, del mondo della boxe. (Leggi il confronto con Billy Elliot e lo zoom sul pugilato femminile in Italia). Un genere particolarmente caro alla tradizione americana, a cui l’esordiente regista-sceneggiatrice Kusama, che cita tra i suoi modelli da La febbre del sabato sera a Fronte del porto, esplicitamente si richiama. E infatti la giovanissima Michelle Rodriguez, al suo debutto da attrice, ha qualcosa del Marlon Brando di allora nell’espressione e nella capacità di bucare la pellicola: è su di lei, sul suo corpo, letteralmente, che si regge questo film che parte con forza ma si svia un po’ nella seconda parte, e arriva con lentezza alla necessaria sfida finale. Michelle/Diana difende quasi inconsapevolmente una femminilità diversa e nuova nel mondo sospeso tra miseria e sensualità dei latinos di Brooklyn, dove le donne sono ancora, e molto, oggetto: di violenza, o di desiderio, e basta (leggete la “recensione” della ministra Katia Bellillo). Lo fa scegliendo una strada proibita, con lo stesso gesto trasgressivo a distanza di interi mondi di celluloide ripete, al contrario, il suo compagno d’avventura Billy Elliot.
Un’idea in più: prima di vedere il film, andate a leggere quel bellissimo libro che è Acqua, sudore, ghiaccio di Antonio Franchini (Marsilio). La parte sulla boxe, sul sudore. Vi aiuterà a capire perché
Laura Pugno,Cinema zip, 9/03/2001

Critica (2):Se esiste un cinema che ti violenta con la tenerezza - ieri quello di Truffaut, oggi quello di Ken Loach - è raro trovare un film che, come veicolo della tenerezza, scelga i cazzotti. È proprio calzando i guantoni, però, che Karyn Kusama si aggiunge alla lista dei cineasti capaci di mettere in immagini la tenerezza. Già assistente di John Sayles, con Girlfight la regista ci racconta una storia di rabbia redenta dallo sport; ma lo fa da una prospettiva ribaltata come un guanto rispetto alla retorica del “boxe movie” maschile. Diana (Michelle Rodriguez), orfana di madre, vive col padre ubriacone nel quartiere ghetto di Brooklyn ed è una palla di rabbia, pronta a spaccare la faccia a chiunque in qualsiasi momento. L’incontro col pugilato innesca in lei uno strano processo di metamorfosi. Non solo le dà la possibilità di incanalare la sua furia verso un obiettivo (il che rientra nel classico repertorio del genere); ad onta degli squallidi spogliatoi e dei miserabili ring le regala la cosa di cui aveva davvero bisogno: l’attenzione e l’interesse degli altri, che è la condizione fondamentale per acquisire il rispetto di se stessa. Praticando uno sport così violento, ad ogni pugno dato o incassato Diana si intenerisce di più, si apre all’esterno, sboccia psicologicamente e fisicamente. Copione vuole che uno sport considerato fra i più spietati sia anche l’occasione offerta a Diana per scoprire l’amore, nella persona di un giovane e promettente collega. E questo la porterà a dover scegliere fra due aspetti importanti della sua vita. Ma, per quanto ben riconoscibili siano le convenzioni del film di boxe, in altre parole, non è meno chiara una cosa: a Kusama interessa ben poco il pugilato, moltissimo la pugilatrice. Girlfight è una metafora doppiamente liberatoria: oltreché contro l’indifferenza dell’ambiente, la protagonista si batte contro la mentalità secondo cui una ragazza è approvata quando pratica la danza o gli sport aggraziati, stigmatizzata se si dedica a uno sport violento. La sua ruvida tenerezza fa perdonare volentieri a Karyn qualche eccesso di commozione cui, nella parte finale, ricorre per stendere definitivamente al tappeto lo spettatore. Nella gragnuola di colpi bassi che la produzione corrente ci infligge di continuo, non sarà certo questo a meritarle la squalifica.
Roberto Nepoti, la Repubblica , 9/3/2001

Critica (3):

Critica (4):
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