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Mistero di Oberwald (Il)


Regia:Antonioni Michelangelo

Cast e credits:
Soggetto: dal dramma di Jean Cocteau "L'aquila a due teste"; sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra fotografia: Luciano Tovoli; consulenza per il colore e gli effetti elettronici: Franco De Leonardis; montaggio elettronico: Michelangelo Antonioni, Francesco Grandoni; scenografia: Mischa Scandella; costumi: Vittoria Guaita; collaborazione per le musiche: Guido Turchi; interpreti: Monica Vitti (Elisabetta d'Austria), Franco Branciaroli (Sebastian), Elisabetta Pozzi (la madamigella Dii Berg), Paolo Bonacelli (il conte di Föhn), Luigi Di Berti (il duca di Willenstein), Amad Saha Alan (Tony); produzione: RAIRadiotelevisione Italiana, Rete2 TV; origine: Italia, 1980; durata: 123'.

Trama:Il film, girato in video e con una forte sperimentazione sul colore, racconta la storia di una regina rimasta vedova che finisce per innamorarsi di un giovane anarchico intenzionato a ucciderla.

Critica (1):[...] Proprio la forma è il centro di interesse dei film seguenti, a cominciare dal Mistero di Oberwald. Antonioni accetta la proposta di trarre un film dall'"Aquila a due teste" di Cocteau, girando per la prima volta e integralmente con le telecamere; il turgido melodramma dello scrittore francese serve da base, o da pretesto, per una sperimentazione tecnica. Altre volte, come si è detto e ripetuto, il regista si è servito di generi, come schemi portanti su cui attuare modifiche, derivazioni, deviazioni verso altri obiettivi; questa volta invece il genere è accettato, in tutte le sue componenti melodrammatiche (amore e morte in un universo chiuso, per ridurre a formula); ciò per mantenere le distanze dalla materia e poter liberamente agire sulla forma, anzi proprio sulla sua base tecnologica. L'impatto naturalmente c'è, e Antonioni ne è cosciente: «E la prima volta che mi cimento con un dramma a fosche tinte e l'impatto è stato tutt'altro che morbido». Cosa c'è di antonioniano in questa storia? Solo qualcosa, o probabilmente niente; perché l'interesse è oltre, e proprio per questo il regista prende le mosse da temi a lui alquanto lontani, quasi volesse che il distacco tra significati e mezzo venisse avvertito. Si tratta insomma di sperimentare su una materia se non estranea almeno indipendente; lui stesso ha avallato questa interpretazione: «Era una storia detestabile, che non mi piaceva affatto, ma ho avuto un sospiro di sollievo. Mi sono sentito veramente libero di fare dei gesti tecnici: non è un film di, è un film diretto da». Non sono mancati alcuni interventi sul testo di Cocteau, sono state abbassate alcune punte drammatiche e si sono asciugati alcuni dialoghi, l'attenzione è comunque per il mezzo elettronico, anche se l'autore tenta una commistione, quasi ricordando la cinepresa; ha dichiarato infatti l'operatore Luciano Tovoli: «Secondo me è il film direi più cinematografico che mi sono trovato a fare. In fondo Antonioni ha ripudiato l'impostazione standard della tecnica televisiva, la molteplicità di impiego delle diverse macchine, l'immediatezza. Ha voluto rimandare, giustamente, ad una riflessione successi va, di montaggio, quello che il mezzo televisivo impone come fatto immediato. Ha girato, non ha soltanto registrato simultaneamente».
Più che una parentesi questo film è un passaggio. Disimpegno? Non direi; il lavoro su una materia distante, e quindi in qualche modo astratta, gli permette di agire direttamente sul film anziché sul materiale profilmico come altre volte (ricordate gli alberi dipinti per le riprese di Deserto rosso?), è uno svincolo definitivo dal realismo ottenuto attraverso il mezzo riproduttivo per eccellenza, la televisione. Luce e colore diventano chiaramente fattori arbitrari se in alcuni casi l'arbitrarietà è ampia (il gioco degli interni, e poi la cavalcata in esterni), in altri casi - e più spesso - le modifiche all'immagine sono parziali: forse è il timore di cadere nella facilità degli effetti, forse c'è l'intento di coinvolgere lo spettatore fornendogli un termine di paragone reale.
La trasformazione dell'immagine, che già Antonioni aveva faticosamente studiato con la pellicola, diventa ora gioco aperto. Un punto di arrivo? Una liberazione? Sì e no; sì astrattamente parlando, per tutto ciò che la sperimentazione ha comportato; no per l'impaccio che si è andato rivelando. I rischi non erano infatti pochi; c'era quello di farsi imbrigliare dal meccanismo narrativo (e l'operazione di asciugamento non parve aver giovato); c'era la tentazione di attribuire un eccesso di valore simbolico al colore; c'era in fondo la possibile inclinazione a lasciarsi prendere dalla novità, dalla possibilità di creare effetti proprio dalla libertà di cui si parlava. Questi rischi sono risultati alla fine effettivi, così l'operazione, mantenendo intatto il suo interesse, si è però andata circoscrivendo. Non è da escludere, naturalmente, che la distanza dal soggetto abbia avuto un peso rilevante; vale allora la pena di ricordare quello che Antonioni ha dichiarato proprio sul set di questo film: «Il mistero di Oberwald è una cosa che non mi riguarda per niente... Mi riguardava invece [un soggetto tratto] da un racconto di Calvino, "Il viaggiatore notturno". La storia di un uomo che litiga con la propria amante, le sbatte il telefono in faccia, e poi, anziché richiamarla, decide di andare a trovarla, anche se lei abita in un'altra città. E il film è la storia del viaggio con i suoi tre diversi livelli, quello realistico, quello del ricordo, quello dell'immaginazione. E con il cambiare della situazione e degli stati d'animo dovevano cambiare i colori. Dovevo girarlo in elettronica...»
Giorgio Tinazzi, Michelangelo Antonioni Il Castoro Cinema, 1995

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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