Pane e fiore - Nun va goldun
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Regia: | Makhmalbaf Mohsen |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura, montaggio: Mohsen Makhmalbaf; fotografia: Mahamud Kalari; musica: Majid Entezami; suono: Nezameddin Kiayi; scenografia: Reza Alaquemand; interpreti: Ali Bakhshi Jozam, Mohsen Makhmalbaf, Elham Mohammad-Amini, Mir Hadi Tayebi, Ammar Tafti, Moharram Zeinalzadeh; produzione: Abolfazi Alagheband per Makhshiran/MK2 Prods; distribuzione: Tandem; origine: Iran-Francia, 1996; durata: 78’. |
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Trama: | Il regista Mohsen Makhmalbaf deve scegliere gli attori del suo prossimo film dal titolo Salaam Cinema, e a questo scopo pubblica un annuncio sul giornale. Tra i numerosi candidati, si presenta anche un quarantenne che risulta essere un ex poliziotto, che il regista riconosce per averlo incontrato vent'anni prima... |
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Critica (1): | Insieme a quelli di Abbas Kiarostami (molto più conosciuto dal pubblico internazionale), i film di Mohsen Makhmalbaf rivestono la funzione importantissima di dar voce alla gente dell’Iran, alle loro storie, al loro ambiente e alla loro cultura, ma anche di far riflettere intorno ai meccanismi narrativi e percettivi che stanno alla base del cinema. Makhmalbaf fa qualcosa che altri registi solitamente non fanno: mette in discussione il cinema, se stesso e i propri metodi. Fa il cinema riflettendo sul significato e le contraddizioni insite nelle operazioni che vi stanno alla base: vedi in Salaam Cinema l’episodio davvero toccante della giovane che confessa di voler partecipare al film solamente perché questo andrà a Cannes e così lei potrà farsi vedere dal suo ragazzo all’estero. Come il Kiarostami (che è tuttavia generalmente più distaccato dagli eventi e dai personaggi che mette in scena) di Sotto gli ulivi, Makhmalbaf (in assoluto il più stimato dei registi iraniani in Iran) offre alla propria gente la possibilità di imparare a conoscere l’abc della settima arte. Ma ciò che più è importante è il fatto che lo faccia sottolineando, nella visione delle cose, la centralità del punto di vista individuale, così come bene è esemplificato nella scena in cui il Poliziotto procede alla scelta del proprio giovane interprete, che contrasta con quella che gli “imporrà” più tardi il Regista. Dimostrando come ciascun essere umano veda la realtà secondo una diversa angolazione, che risponde a sua volta a quell’immagine che già si ha in testa in partenza. Pane e fiore si apre con una voce che recita il cast, mentre un personaggio avanza verso la macchina, dal fondo della strada: è lo stesso aspirante attore “faccia da cattivo” che avevamo incontrato nel corso delle audizioni che costituivano la materia narrativa di Salaam Cinema, dove i protagonisti erano una parte della folla di persone presentatesi sul set in seguito a un’inserzione per la richiesta di attori da impiegare nel nuovo film del regista («Tra le migliaia di candidati che si erano presentati - spiega lo stesso Makhmalbaf - c’era anche il poliziotto che quindici anni prima avevo accoltellato. Io ormai ero deluso dalla politica e non avevo più bisogno della sua arma. Lui, per contro, aveva bisogno della mia: il cinema. Che non serve né a fare politica né a ferire nuovamente. È stato grazie al cinema che abbiamo cercato finalmente di capirci, per evitare di combatterci un’altra volta»). Pane e fiore prosegue con il Poliziotto che bussa alla porta del Regista e si rivolge alla vera figlia di Makhmalbaf domandandole del padre: a questo punto si chiarisce quell’incontro/sovrapposizione tra realtà dei fatti e ricostruzione/rappresentazione che sta alla base del film. E a questo proposito è interessante osservare (come spiega nelle interviste lo stesso Makhmalbaf) che, mentre nel film è lo stesso regista a interpretare se stesso, l’uomo con la faccia da cattivo non è il vero poliziotto incontrato un tempo. La ragione? Molto precisa: quest’ultimo ha (e aveva all’epoca) un viso troppo da buono. A questo punto diventa quasi inutile sottolineare come questo “gioco sulla verità” elaborato da Makhmalbaf costituisca un contributo importante all’interno di una cultura che vede nella verità assoluta il principio fondante. I due protagonisti (Regista e ex-Poliziotto) provvedono, ciascuno da sé, alla scelta dei due giovani interpreti cui affidare le rispettive parti nella ricostruzione di quei lontani avvenimenti. Uno dei due diciassettenni afferma, come all’epoca succedeva allo stesso Makhmalbaf, di voler salvare l’umanità. Ma l’uomo con il volto da cattivo non accetta di buon grado il fatto che la scelta ultima delle cose spetti soltanto al Regista (i due non si trovano d’accordo sulla scelta dell’interprete del poliziotto). Questi tuttavia, con l’ausilio del suo aiutante (l’attore Mohamam Zeinalzadeh, già protagonista di Il ciclista, che per Pane e fiore fa il fotografo di scena, così come accadeva in Salaam Cinema) riesce a convincerlo, non prima, tuttavia, di un lungo confronto. Mettendo così in discussione (mettendo in scena) l’infallibilità dello stesso regista, dato che quest’ultimo, convinto del potere fascinatorio comunque esercitato dal cinema e da coloro che lo fanno, dopo l’accesa discussione con il Poliziotto ne aveva previsto un ritorno molto più immediato di quanto non sia davvero accaduto. E soltanto grazie agli insistiti tentativi di Zeinalzadeh. In questa continua dialettica tra presente e passato, Makhmalbaf, tra le tante prospettive, non tralascia neppure quella della ricostruzione storica, presente in esili ma essenziali riferimenti, come ad esempio nella sequenza in cui egli manda il Poliziotto a procurarsi una divisa risalente ai tempi dello Shah: l’uomo e il sarto iniziano a parlare del mestiere dell’attore e il sarto ricorda di quando andava al cinema a vedere Spartacus e Kirk Douglas, John Ford e John Wayne. Una scena che non si può non collegare ancora una volta ai provini di Salaam Cinema, dove i riferimenti alla mitologia hollywoodiana dei generi si sprecavano da parte dei giovani aspiranti attori, “costretti” ad esibirsi davanti alla cinecamera di Makhmalbaf, buttandosi a terra al ralenti, di fronte al regista che fingeva di sparar loro addosso. Dicevamo sopra della centralità dell’individuo come nucleo inalienabile di importanza e interesse («Ci sono due vie per giungere a Dio, una personale e una di gruppo: quelli che prendono la seconda hanno tutta l’aria di indossare un’uniforme», sottolinea un po’ provocatoriamente Makhmalbaf), non soltanto per quello che ha da dire, ma anche per il modo in cui riceve i messaggi del cinema e delle sue regole, li decodifica, vi si confronta, li rielabora emotivamente: i film di Makhmalbaf sono carichi di inquadrature in primo piano dove i personaggi ascoltano la voce fuori campo di qualcuno che dice loro quel che devono fare. E in questo senso, anche per avvicinare due autori spesso così “accanitamente” distanziati dai critici, non è possibile non ricordare anche quel lunghissimo primo piano di Sotto gli ulivi in cui, durante un trasferimento in auto, un giovane attore raccontava a una figura della troupe la sua esperienza e le sue aspirazioni, compiendo, al contempo, un’intima confessione e un esercizio artistico e creativo. Makhmalbaf parla dell’oggi anche in una lunga sequenza di Pane e fiore dove il Regista si reca a casa della sorella (la donna che aveva di fianco come complice all’epoca dell’agguato al poliziotto, e che questi credeva fosse innamorata di lui, date le sue quotidiane richieste di informazioni) per chiederle di permettere a sua figlia di recitare nel film. La sorella, dall’interno dell’abitazione nella quale rimane ostentatamente nascosta, oppone un irremovibile rifiuto. Makhmalbaf, che a causa delle ultime opere è sempre più inviso alle autorità di Teheran e alla critica ufficiale (ma supportato dal riconoscimento della gente, secondo il fenomeno per cui in Iran più si parla male di qualcuno e più questo diventa famoso), in coda alla suddetta sequenza non manca di inserire l’altra situazione emblematica del ragazzo che, di nascosto, dà dei libri da leggere alla giovane ragazza in chador, figlia della sorella del regista. Pane e fiore rappresenta, nell’opera di Makhmalbaf, il manifesto del suo lavoro sul Tempo e sullo statuto della narrazione, confondendo continuamente, tra l’altro, il piano della finzione (i preparativi e gli incontri per la realizzazione del film) e quello della finzione nella finzione (le scene che intanto vengono preparate dagli attori, ma nello stesso tempo già filmate): qui, infatti, l’autore non esita a re-inserire una scena già mostrata in precedenza (si tratta della scena del film nel film in cui una passante chiede l’ora al Poliziotto e al suo allievo), di certo per ricordare allo spettatore il punto del racconto in cui si era arrivati, ma anche, e soprattutto, che vi si può sempre arrivare percorrendo una strada differente. E ciò che più importa, per lo spettatore, è la consapevolezza di ciò. Makhmalbaf costruisce dunque un sobrio ma ferreo intreccio, in cui, tuttavia, spicca il risultato davvero straordinario di proporre, senza soluzione di continuità, il passaggio dalle scene che illustrano le varie operazioni di casting a quelle in cui la rappresentazione è già in corso. Ma all’appuntamento con quest’ultima si può anche non arrivare puntuali, se a richiederlo è l’imprevedibilità delle cose della vita. Così accade che il Regista, il suo giovane interprete (che ha comprato del pane per nascondervi il coltello, ma poi lo ha regalato a una povera) e la ragazza arrivino sulla scena mentre gli altri (il Poliziotto, il suo interprete e Zeinalzadeh) si sono temporaneamente allontanati per scortare un funerale, visto che Zeinalzadeh si ricordava che a quello di sua madre non c’era andato nessuno. L’allievo del Poliziotto, per giunta, si è perso tra i viottoli della città alla ricerca di una piantina di fiori che intende regalare alla ragazza che quotidianamente gli domanda informazioni diverse. I giovani protagonisti ritornano in tempo per l’immagine finale: la ragazza si ripara il viso dietro al velo nero, mentre una mano, alla sua sinistra, tiene il fiore, e l’altra a destra, il pane. I due “istruttori” a questo punto, non hanno più ragione di trovarsi all’interno dell’inquadratura. Perché, come dice Mohsen Makhmalbaf parlando del suo incontro con il poliziotto che un tempo lo mandò in prigione, «È stato grazie al cinema che abbiamo cercato finalmente di capirci, per evitare di combatterci un’altra volta». «Lo scopo mio e di altri cineasti del mio Paese - aggiunge - è di arrivare alla vita, all’amore tra la gente. Il resto è un mezzo, ma credo che solo con la cultura si possa perseguire questo scopo. È proprio quello che afferma il film: bisogna usare il fiore, non il coltello. Non si può arrivare alla democrazia con le armi». Nel gioco di rifrazione tra passato e presente, Makhmalbaf finisce, volutamente, per mettere in scena, senza contrapporlo e senza confrontarlo, il ritratto di due generazioni: quella dei quarantenni, che hanno guardato nei loro ricordi per saldare i debiti con il passato, serenamente o dolorosamente, e quella dei giovani, che vent’anni dopo rivendicano il diritto a non commettere gli stessi errori. Nemmeno nella finzione scenica. Un’idea davvero rivoluzionaria. E non solo in Iran.
Umberto Mosca, Cineforum n. 365, giugno 1997 |
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